di Emiliano Sportelli
Mi sono sempre chiesto cosa potesse significare vivere per strada; lasciarsi tutto dietro e partire senza dare molta importanza alla meta finale, senza pensieri. Abbandonare il passato e vivere giorno per giorno, solo uno zaino appresso pieno di tutto e niente, la mente di libera da ogni cosa e pronta per essere così riempita da tutte le avventure che attendono in ogni stazione di servizio, in ogni motel e in ogni bar dove la bottiglia diventava una nostra fedele amica. Quando ho letto il libro “Sulla strada” di Jack Kerouac, tutti i miei dubbi riguardanti il vivere in strada che, fino a quel momento mi avevano tenuto sveglio la notte, sono stati prontamente dissipati.
La lettura de “La morte di Bunny Munro” di Nick Cave mi ha aperto altri spiragli riguardanti la vita “on the road”. Partire per riuscire, in maniera quasi inconsapevole, a trovare sé stessi; un viaggio che sa tanto di pentimento, quasi un abbandono di tutto ciò che si possiede per cercare di ricominciare nuovamente a vivere, senza farsi troppe illusioni, senza aspettarsi la via spianata di facili conquiste. Andare incontro alla nostra morte e capire che fino ad allora non si era davvero vissuti, che da lì in avanti si poteva rinascere, cancellare gli errori fatti e respirare di nuovo.
Bunny Munro è un commesso viaggiatore, vende prodotti di bellezza casa per casa, vende piccoli sogni per casalinghe sole. Dopo il suicidio della moglie cade nel baratro della disperazione, non riesce a rialzarsi; la bottiglia di whisky in mano e il pacchetto di sigarette Lambert & Butler in tasca sono i suoi unici amici. Solitudine e disperazione circondano il nostro protagonista, sentimenti questi che deve però condividere con qualcun altro, suo figlio Bunny Junior ragazzino di soli nove anni che si divora la sua enciclopedia, infatti, lo accompagnerà nel suo lavoro/viaggio. Attento e silenzioso osservatore dal finestrino della Punto del padre, il piccolo comincerà a conoscere i lati oscuri di Bunny come la sua passione per le donne e per il bere; ogni tanto viaggerà con la sua mente per riuscire ad incontrare sua madre e poter così sognare una vita normale.
Ed infatti a partire da un certo punto in avanti il rapporto padre/figlio prende piede nel romanzo di Cave e non abbandonerà più le sue righe; rapporto questo che sarà enfatizzato anche dall’apparizione sulla scena di Bunny Senior, il papà del nostro Bunny affetto da cancro ai polmoni ed ormai agli sgoccioli della sua vita.
Commesso viaggiatore in cerca di sé, donnaiolo, uomo morto in macchina, padre e figlio allo stesso tempo; sono questi i lavori che Bunny Munro svolge tutti i giorni. Il suo viaggio, che sa molto di pentimento, si erge in tutto il libro; viaggio che inevitabilmente lo metterà di fronte al suo vero io e all’uomo che è diventato. Vagabondare che gli farà fare i conti con suo figlio, con suo padre, con gli spettri di una vita vissuta male.
Con questa storia Nick Cave ci disegna il ritratto di un uomo particolare, un uomo forse mai esistito, ma che, nel bene o nel male, vive in ognuno di noi; un uomo con il quale prima o poi fai i conti, magari seduto al bancone del bar o meglio ancora sul sedile di un’auto con lo stero acceso che trasmette un pezzo dei The Bad Seeds.
L'[A]lter è un contenitore senza coperchio. Una finestra sull'underground e sulle controculture.
mercoledì 15 dicembre 2010
martedì 14 dicembre 2010
DEVIL
di Emiliano Sportelli
Il Diavolo e l’uomo: un rapporto vecchio di millenni, antico quanto il mondo. La presenza tra gli uomini del Principe della notte ha da sempre rappresentato una paura, ma al tempo stesso una sorta di sfida; si può essere più furbi del demonio? Esiste un modo per aver la meglio su di lui e sui suoi doppi giochi? Il pentimento risulta essere forse, la sola arma a disposizione degli uomini per riuscire a tener testa a colui che, viaggia spesso sotto sembianze diverse dalla propria e che dispensa tranelli di ogni sorta. Essere diabolico ed infimo.
Il Diavolo è spesso stato usato come protagonista in vari film dell’orrore, da sempre la sua presenza sullo schermo ha suscitato ansie e paure, anche se ha comunque attirato spettatori di ogni sorta. “Devil” a mio modo di vedere, rappresenta un po’ uno spartiacque tra film horror e thriller. Diretto da John Erick Dowdle, già autore del film “Quarantena” remake del più famoso “REC”, il film spicca soprattutto per la sua storia in sé più che per la regia; ed in effetti autore della storia è quel M. Night Shyamalan che tanto ci ha tenuto incollati allo schermo con “Il sesto senso”. Nonostante Shyamalan non ne sia il regista, la sua aura nel film è molto facile da cogliere e la si nota in particolare nel finale dove, come al suo solito, il regista indiano dà il meglio di sé.
Claustrofobia, tensione e paura sono questi i tre aggettivi da usare parlando di “Devil”; l’azione si svolge prevalentemente in un ascensore dove rimangono intrappolate cinque persone, ognuna con qualcosa del suo passato da nascondere. Sembrerebbe un innocuo e semplice guasto, ma le cose, quando c’è il Diavolo di mezzo, non vanno mai come dovrebbero. Ed infatti il Belzebù si annida tra di loro e camuffato da uno dei cinque sfortunati, cercherà di prendere le anime che gli spettano. Ciò che preme sottolineare è la figura di Satana stesso, che si erge a giudice supremo e che alla fine prende solo quello che gli spetta. Per certi versi quasi un Diavolo giusto (se così lo si può chiamare), un’immagine del demonio, quindi, quanto meno singolare quella che viene fuori dal lavoro di Dowdle, come quasi ad indicare lo stretto legame tra bene e male che da sempre imprigiona il mondo.
Molto apprezzabile la colonna sonora di Fernando Velazquez che si associa alla perfezione all’atmosfera claustrofobica e per certi aspetti lugubre del film. Interessanti sono le immagini iniziali del film, dove viene ripreso il panorama della città di Philadelphia al contrario, segno inequivocabile della presenza del maligno; piene di suspance le scene girate durante il black-out in ascensore dove Satana darà il meglio di sé. Ovviamente il finale è, come detto, in pieno stile Shyamalan; il demonio farà finalmente la sua comparsa, rivelando i suoi piani e riuscendo così a chiudere il suo cerchio.
“Devil”, uscito nelle sale poche settimane fa, è il primo film di una trilogia di cui faranno parte “Reincarnate” e “Unbreakable 2” e sono tutti ispirati ai racconti horror intitolati “The Night Chronicles” ideati appunto da M. Night Shyamalan.
Il Diavolo e l’uomo: un rapporto vecchio di millenni, antico quanto il mondo. La presenza tra gli uomini del Principe della notte ha da sempre rappresentato una paura, ma al tempo stesso una sorta di sfida; si può essere più furbi del demonio? Esiste un modo per aver la meglio su di lui e sui suoi doppi giochi? Il pentimento risulta essere forse, la sola arma a disposizione degli uomini per riuscire a tener testa a colui che, viaggia spesso sotto sembianze diverse dalla propria e che dispensa tranelli di ogni sorta. Essere diabolico ed infimo.
Il Diavolo è spesso stato usato come protagonista in vari film dell’orrore, da sempre la sua presenza sullo schermo ha suscitato ansie e paure, anche se ha comunque attirato spettatori di ogni sorta. “Devil” a mio modo di vedere, rappresenta un po’ uno spartiacque tra film horror e thriller. Diretto da John Erick Dowdle, già autore del film “Quarantena” remake del più famoso “REC”, il film spicca soprattutto per la sua storia in sé più che per la regia; ed in effetti autore della storia è quel M. Night Shyamalan che tanto ci ha tenuto incollati allo schermo con “Il sesto senso”. Nonostante Shyamalan non ne sia il regista, la sua aura nel film è molto facile da cogliere e la si nota in particolare nel finale dove, come al suo solito, il regista indiano dà il meglio di sé.
Claustrofobia, tensione e paura sono questi i tre aggettivi da usare parlando di “Devil”; l’azione si svolge prevalentemente in un ascensore dove rimangono intrappolate cinque persone, ognuna con qualcosa del suo passato da nascondere. Sembrerebbe un innocuo e semplice guasto, ma le cose, quando c’è il Diavolo di mezzo, non vanno mai come dovrebbero. Ed infatti il Belzebù si annida tra di loro e camuffato da uno dei cinque sfortunati, cercherà di prendere le anime che gli spettano. Ciò che preme sottolineare è la figura di Satana stesso, che si erge a giudice supremo e che alla fine prende solo quello che gli spetta. Per certi versi quasi un Diavolo giusto (se così lo si può chiamare), un’immagine del demonio, quindi, quanto meno singolare quella che viene fuori dal lavoro di Dowdle, come quasi ad indicare lo stretto legame tra bene e male che da sempre imprigiona il mondo.
Molto apprezzabile la colonna sonora di Fernando Velazquez che si associa alla perfezione all’atmosfera claustrofobica e per certi aspetti lugubre del film. Interessanti sono le immagini iniziali del film, dove viene ripreso il panorama della città di Philadelphia al contrario, segno inequivocabile della presenza del maligno; piene di suspance le scene girate durante il black-out in ascensore dove Satana darà il meglio di sé. Ovviamente il finale è, come detto, in pieno stile Shyamalan; il demonio farà finalmente la sua comparsa, rivelando i suoi piani e riuscendo così a chiudere il suo cerchio.
“Devil”, uscito nelle sale poche settimane fa, è il primo film di una trilogia di cui faranno parte “Reincarnate” e “Unbreakable 2” e sono tutti ispirati ai racconti horror intitolati “The Night Chronicles” ideati appunto da M. Night Shyamalan.
mercoledì 8 dicembre 2010
IL SIGNORE DEGLI ANELLI
di Emiliano Sportelli
Il genere fantasy ha da sempre rivestito un fascino particolare che lo metteva in una posizione privilegiata rispetto a tutti gli altri generi cinematografici, non solo perché faceva presa su un pubblico molto variegato, ma anche per il fatto di poter portare su pellicola un’innaturale corso degli eventi, senza preoccuparsi troppo di incongruenze dettate dalla ragione. Ovviamente si deve, però, fare i conti con l’altra faccia della medaglia; i film fantasy hanno il loro impatto sul pubblico solo se c’è dietro un buon lavoro di effetti speciali e se la storia vale davvero; di certo non ci si può accontentare di una buona recitazione, o di un cast di attori di primo livello.
A mio parere Peter Jackson con la trilogia de “Il Signore degli anelli” è riuscito a mostrarci la parte migliore di questo genere, fondendo insieme una storia di alto spessore (basata sul romanzo di J.R.R. Tolkien, se pur con qualche adattamento rispetto al libro), un’ottima recitazione con attori di primo rango, su tutti spicca sicuramente Viggo Mortensen, che interpreta un triste e tenebroso Aragorn, ed infine una scenografia mai banale e molto elaborata nei dettagli.
È forse il regista stesso il “principale protagonista” del film e questo per varie ragioni: innanzitutto l’opera di Jackson rispecchia la penna di Tolkien in quasi tutti i suoi aspetti (in concreto è impossibile riprodurre fedelmente un film che sia stato tratto da un libro) e questo – a mio avviso – è già un lavoro da sottolineare, soprattutto per tutti coloro che hanno amato il libro forse più dello stesso film; tutta la Terra di Mezzo è stata trasportata con grande cura e parsimonia su pellicola: le colline leggere e rilassanti della Contea, le oscure miniere di Moria, la crudeltà che fa da sovrana nella torre di Saruman, tutto questo ed altro ancora si offre all’occhio dello spettatore che di sicuro vedrà sullo schermo tutto ciò che ha incontrato fin ora solo in sogno.
L’attenzione da parte di Jackson ai particolari la si coglie nella pretesa di far imparare agli “attori elfici” il loro stesso idioma inventato da Tolkien e grazie al regista fatto conoscere anche all’intero pubblico. La scelta azzeccata del cast è stata un’altra scommessa vinta dal regista neozelandese; oltre al già citato Mortensen, uno spavaldo e allo stesso tempo eccentrico Bilbo sembra proprio essere stato modellato sulla pelle dell’insuperabile Ian Holm, uno scaltro ed ironico Gandalf (Ian McKellenil) il mago/pellegrino con la passione per l’erba pipa ed il giovane Eljiah Wood che interpreta un insicuro ed ingenuo Frodo, il nostro hobbit che regge nelle sue mani il destino di tutta la Terra di Mezzo.
Da tutto questo si può capire come Peter Jackson abbia amato il libro, rendendo così il suo film non solo un lavoro da ricordare, ma grazie ad esso è riuscito a far avvicinare a Tolkien tutti coloro che hanno anticipato la visione del film alla lettura dei suoi libri.
La saga de “Il Signore degli Anelli” è uscita in Italia tra il 2001 e il 2003 ed è composta da “La compagnia dell’Anello”, “Le due Torri” ed “Il ritorno del Re”; un film per tutti, nessuno escluso; un fantasy che ci fa immedesimare in Frodo e nel suo disperato viaggio che lo condurrà verso la distruzione dell’Anello.
Il genere fantasy ha da sempre rivestito un fascino particolare che lo metteva in una posizione privilegiata rispetto a tutti gli altri generi cinematografici, non solo perché faceva presa su un pubblico molto variegato, ma anche per il fatto di poter portare su pellicola un’innaturale corso degli eventi, senza preoccuparsi troppo di incongruenze dettate dalla ragione. Ovviamente si deve, però, fare i conti con l’altra faccia della medaglia; i film fantasy hanno il loro impatto sul pubblico solo se c’è dietro un buon lavoro di effetti speciali e se la storia vale davvero; di certo non ci si può accontentare di una buona recitazione, o di un cast di attori di primo livello.
A mio parere Peter Jackson con la trilogia de “Il Signore degli anelli” è riuscito a mostrarci la parte migliore di questo genere, fondendo insieme una storia di alto spessore (basata sul romanzo di J.R.R. Tolkien, se pur con qualche adattamento rispetto al libro), un’ottima recitazione con attori di primo rango, su tutti spicca sicuramente Viggo Mortensen, che interpreta un triste e tenebroso Aragorn, ed infine una scenografia mai banale e molto elaborata nei dettagli.
È forse il regista stesso il “principale protagonista” del film e questo per varie ragioni: innanzitutto l’opera di Jackson rispecchia la penna di Tolkien in quasi tutti i suoi aspetti (in concreto è impossibile riprodurre fedelmente un film che sia stato tratto da un libro) e questo – a mio avviso – è già un lavoro da sottolineare, soprattutto per tutti coloro che hanno amato il libro forse più dello stesso film; tutta la Terra di Mezzo è stata trasportata con grande cura e parsimonia su pellicola: le colline leggere e rilassanti della Contea, le oscure miniere di Moria, la crudeltà che fa da sovrana nella torre di Saruman, tutto questo ed altro ancora si offre all’occhio dello spettatore che di sicuro vedrà sullo schermo tutto ciò che ha incontrato fin ora solo in sogno.
L’attenzione da parte di Jackson ai particolari la si coglie nella pretesa di far imparare agli “attori elfici” il loro stesso idioma inventato da Tolkien e grazie al regista fatto conoscere anche all’intero pubblico. La scelta azzeccata del cast è stata un’altra scommessa vinta dal regista neozelandese; oltre al già citato Mortensen, uno spavaldo e allo stesso tempo eccentrico Bilbo sembra proprio essere stato modellato sulla pelle dell’insuperabile Ian Holm, uno scaltro ed ironico Gandalf (Ian McKellenil) il mago/pellegrino con la passione per l’erba pipa ed il giovane Eljiah Wood che interpreta un insicuro ed ingenuo Frodo, il nostro hobbit che regge nelle sue mani il destino di tutta la Terra di Mezzo.
Da tutto questo si può capire come Peter Jackson abbia amato il libro, rendendo così il suo film non solo un lavoro da ricordare, ma grazie ad esso è riuscito a far avvicinare a Tolkien tutti coloro che hanno anticipato la visione del film alla lettura dei suoi libri.
La saga de “Il Signore degli Anelli” è uscita in Italia tra il 2001 e il 2003 ed è composta da “La compagnia dell’Anello”, “Le due Torri” ed “Il ritorno del Re”; un film per tutti, nessuno escluso; un fantasy che ci fa immedesimare in Frodo e nel suo disperato viaggio che lo condurrà verso la distruzione dell’Anello.
domenica 21 novembre 2010
L'URLO
Sarò pure un'amante delle "pietre lavorate" e delle "tele impiastricciate", ma non sopporto la moda del 'Fashion&Food'... sarà per questo che mi sono laureata in Beni Culturali...In Italia questo campo sembra destinato SOLAMENTE a "spettacolarizzata" location per modaiole iniziative di calca come 'Le notti bianche', 'Musei in Musica', ecc... per carità, nulla di male, se associate a qualcos'altro di BUONO...
Un Ministero dei Beni Culturali dovrebbe finanziare ALTRO (o almeno anche ALTRO), diversamente, smettesse i suoi panni e vestisse quelli del Ministero del Fashion&Food (per l'appunto!).
martedì 12 ottobre 2010
Hook
di Emiliano Sportelli
Crescere e diventare grandi, iniziare a preoccuparci di cose a cui prima non davamo nessuna importanza; entrare in contatto con situazioni che mai ci saremmo sognati di affrontare. Guardare fuori ed accorgersi che la nostra infanzia è ormai agli sgoccioli, che quel tempo dove ci si divertiva con poco è giunto al termine; abbandonare i nostri sogni di bambino e spingerci verso un universo a noi estraneo e senza stimoli. Il rimpianto ed il ricordo di estati passate a giocare con i nostri amici è l’unica cosa che ci rimane di quel periodo d’oro.
Un ricordo così vivo che, a volte, ha bisogno di essere stuzzicato, tirato fuori dai cassetti della nostra memoria e ritrovare la luce di un tempo. La favola di Peter Pan rimane un esempio classico per comprendere che spesso i ricordi sono molto più che semplici pensieri passati, essi diventano veri e propri trampolini di lancio per riuscire a saltare le staccionate imposte dagli adulti e poter così tornare di nuovo bambini, magari solo per un po’, per un breve momento che, però, ci fa ritornare la luce negli occhi.
Le tematiche di “Hook – Capitano Uncino” si collegano a queste idee; il “problema” del crescere e diventare grandi è una realtà che prima o poi sfiora la mente dei bambini. Diretto da una mente di bambino intrappolato in un corpo di adulto – è questa la frase che mi viene in mente pensando a Steven Spielberg ogni volta che rivedo il suo film – Hook diventa anche una metafora per capire quanto, spesso, sia lontano il mondo degli adulti da quello dei bambini.
Peter Banning (Robin Williams) incarna lo stereotipo del tipico uomo d’affari, un avvocato troppo preso dal lavoro per dare importanza ai pensieri ed ai bisogni dei suoi figli, continuando a seguire la sua carriera ed abbandonando i suoi doveri e piaceri di padre rischierà di perdere i suoi figli Jack e Maggie e non sarà poi un caso che, per riuscire a salvarli dalle grinfie del terribile Capitan Uncino – interpretato con grande maestria da un “sempreverde” Dustin Hoffman – Peter dovrà ricordare quando era solo un bambino, scavare nei suoi ricordi, spezzare le catene che lo inchiodavano ad una vita di banalità e ritrovare i suoi pensieri felici di un tempo, riuscendo così a catapultarsi di nuovo in un mondo che per troppo tempo aveva dimenticato.
Il tema del tempo che passa è poi l’altra soglia importante che il film attraversa, in un certo senso questa tematica condiziona ed influisce su tutti i personaggi principali del lavoro di Spielberg. Peter non voleva diventare grande, restare bambino e continuare a giocare era la sola cosa che lo interessava; la stessa Wendy ha accettato la sua vecchiaia a malincuore, condizionata dalla sua non più giovane età a rimanere a casa davanti al caminetto acceso, mentre Peter la invitava nuovamente a seguirlo sull’isola che non c’è. Anche per il Capitano Uncino il discorso non è diverso; la sua fobia degli orologi e la sua voglia di distruggerli, non è che un modo per cercare di fermare il tempo ed impedirgli così di continuare il suo naturale corso; fermando il tempo il Capitano vuole arrestare quindi la sua età. Sarà proprio utilizzando l’arma del “tempo che passa” che Peter riuscirà a sconfiggere Uncino durante il loro duello finale.
Diretto nel 1991, Hook – Capitano Uncino merita senz’altro un posto di primo piano nella galleria dei lavori più riusciti di Steven Spielberg, un film per tutti, mai banale e pieno fantasia.
Crescere e diventare grandi, iniziare a preoccuparci di cose a cui prima non davamo nessuna importanza; entrare in contatto con situazioni che mai ci saremmo sognati di affrontare. Guardare fuori ed accorgersi che la nostra infanzia è ormai agli sgoccioli, che quel tempo dove ci si divertiva con poco è giunto al termine; abbandonare i nostri sogni di bambino e spingerci verso un universo a noi estraneo e senza stimoli. Il rimpianto ed il ricordo di estati passate a giocare con i nostri amici è l’unica cosa che ci rimane di quel periodo d’oro.
Un ricordo così vivo che, a volte, ha bisogno di essere stuzzicato, tirato fuori dai cassetti della nostra memoria e ritrovare la luce di un tempo. La favola di Peter Pan rimane un esempio classico per comprendere che spesso i ricordi sono molto più che semplici pensieri passati, essi diventano veri e propri trampolini di lancio per riuscire a saltare le staccionate imposte dagli adulti e poter così tornare di nuovo bambini, magari solo per un po’, per un breve momento che, però, ci fa ritornare la luce negli occhi.
Le tematiche di “Hook – Capitano Uncino” si collegano a queste idee; il “problema” del crescere e diventare grandi è una realtà che prima o poi sfiora la mente dei bambini. Diretto da una mente di bambino intrappolato in un corpo di adulto – è questa la frase che mi viene in mente pensando a Steven Spielberg ogni volta che rivedo il suo film – Hook diventa anche una metafora per capire quanto, spesso, sia lontano il mondo degli adulti da quello dei bambini.
Peter Banning (Robin Williams) incarna lo stereotipo del tipico uomo d’affari, un avvocato troppo preso dal lavoro per dare importanza ai pensieri ed ai bisogni dei suoi figli, continuando a seguire la sua carriera ed abbandonando i suoi doveri e piaceri di padre rischierà di perdere i suoi figli Jack e Maggie e non sarà poi un caso che, per riuscire a salvarli dalle grinfie del terribile Capitan Uncino – interpretato con grande maestria da un “sempreverde” Dustin Hoffman – Peter dovrà ricordare quando era solo un bambino, scavare nei suoi ricordi, spezzare le catene che lo inchiodavano ad una vita di banalità e ritrovare i suoi pensieri felici di un tempo, riuscendo così a catapultarsi di nuovo in un mondo che per troppo tempo aveva dimenticato.
Il tema del tempo che passa è poi l’altra soglia importante che il film attraversa, in un certo senso questa tematica condiziona ed influisce su tutti i personaggi principali del lavoro di Spielberg. Peter non voleva diventare grande, restare bambino e continuare a giocare era la sola cosa che lo interessava; la stessa Wendy ha accettato la sua vecchiaia a malincuore, condizionata dalla sua non più giovane età a rimanere a casa davanti al caminetto acceso, mentre Peter la invitava nuovamente a seguirlo sull’isola che non c’è. Anche per il Capitano Uncino il discorso non è diverso; la sua fobia degli orologi e la sua voglia di distruggerli, non è che un modo per cercare di fermare il tempo ed impedirgli così di continuare il suo naturale corso; fermando il tempo il Capitano vuole arrestare quindi la sua età. Sarà proprio utilizzando l’arma del “tempo che passa” che Peter riuscirà a sconfiggere Uncino durante il loro duello finale.
Diretto nel 1991, Hook – Capitano Uncino merita senz’altro un posto di primo piano nella galleria dei lavori più riusciti di Steven Spielberg, un film per tutti, mai banale e pieno fantasia.
sabato 14 agosto 2010
Il labirinto del fauno
di Emiliano Sportelli
A volte le guerre vengono combattute dai più piccoli. I guerrieri più forti sono i bambini che hanno la magia dalla loro parte, coloro che vivono di fantasia e che si lasciano trasportare dalle favole più belle, dove anche l’impossibile diventa la realtà; aiutati dai loro personaggi fatati e guidati dai loro sogni, partoriti dopo un’immersione nelle vie dell’incanto, i più giovani sapranno confrontarsi e tener testa a coloro che ormai, sanno vedere soltanto usando gli occhi.
Diretto da un ottimo Guillermo Del Toro, “Il labirinto del fauno” diventa una delle pellicole più originali degli ultimi anni. La sua forza sta proprio nel fatto di saper miscelare insieme più generi i quali, riuscendo a fondersi insieme, ci regalano due ore di sentimento, paura e rabbia. La forza del film risulta quindi essere l’unione tra la realtà storica rappresentata dalla Spagna di Franco e il mondo fantastico che vede come protagonista la piccola Ofelia, ragazzina appassionata di libri che parlano di fate e mondi magici.
Sarà proprio lei l’eroina del film, costretta a vivere in un mondo che non le si addice, la piccola trova conforto proprio nelle sue fiabe; il padre è morto e la madre sta per dare alla luce il figlio del cattivo e violento Vidal, suo nuovo marito e capitano dell’esercito franchista. Ma quando Ofelia troverà rifugio in un misterioso labirinto nel bosco vicino casa, scoprirà di appartenere ad un altro regno dove lei è la principessa. Come in ogni fiaba che si rispetti la bambina dovrà superare delle prove per scoprire il suo vero destino e far luce sulle nuove verità scoperte; in questo suo percorso sarà accompagnata da un fauno che per lungo tempo nel film, nasconderà la sua vera indole e i suoi intenti finali.
Senza mega investimenti stile Hollywood, Del Toro ci racconta quindi con accuratezza e in maniera delicata, una nuova realtà costellata di soprusi e violenze, ma tenuta a galla dalla tenacia di una bambina che utilizza il “potere dei sogni” come arma per vincere i mali che le stanno intorno. Un film per comprendere il dramma del franchismo visto questa volta attraverso gli occhi di una ragazzina, che è riuscita a farci riflettere sull’importanza di credere nelle favole.
Con “Il labirinto del fauno”, il regista è riuscito a dare una nuova forza ed un nuovo aspetto a quel filone fantasy spesso sottovalutato che, negli ultimi anni, aveva avuto come punta di diamante solo “Il Signore degli anelli” di Peter Jackson.
Il lavoro di Del Toro è uscito nel 2006 e fa parte di una trilogia tutta ambientata in Spagna, che comprende: “La Spina del diavolo”, ghost-story incentrata durante la guerra civile spagnola e “3993” (ancora in lavorazione), il quale sarà invece ambientato nel 1990.
A volte le guerre vengono combattute dai più piccoli. I guerrieri più forti sono i bambini che hanno la magia dalla loro parte, coloro che vivono di fantasia e che si lasciano trasportare dalle favole più belle, dove anche l’impossibile diventa la realtà; aiutati dai loro personaggi fatati e guidati dai loro sogni, partoriti dopo un’immersione nelle vie dell’incanto, i più giovani sapranno confrontarsi e tener testa a coloro che ormai, sanno vedere soltanto usando gli occhi.
Diretto da un ottimo Guillermo Del Toro, “Il labirinto del fauno” diventa una delle pellicole più originali degli ultimi anni. La sua forza sta proprio nel fatto di saper miscelare insieme più generi i quali, riuscendo a fondersi insieme, ci regalano due ore di sentimento, paura e rabbia. La forza del film risulta quindi essere l’unione tra la realtà storica rappresentata dalla Spagna di Franco e il mondo fantastico che vede come protagonista la piccola Ofelia, ragazzina appassionata di libri che parlano di fate e mondi magici.
Sarà proprio lei l’eroina del film, costretta a vivere in un mondo che non le si addice, la piccola trova conforto proprio nelle sue fiabe; il padre è morto e la madre sta per dare alla luce il figlio del cattivo e violento Vidal, suo nuovo marito e capitano dell’esercito franchista. Ma quando Ofelia troverà rifugio in un misterioso labirinto nel bosco vicino casa, scoprirà di appartenere ad un altro regno dove lei è la principessa. Come in ogni fiaba che si rispetti la bambina dovrà superare delle prove per scoprire il suo vero destino e far luce sulle nuove verità scoperte; in questo suo percorso sarà accompagnata da un fauno che per lungo tempo nel film, nasconderà la sua vera indole e i suoi intenti finali.
Senza mega investimenti stile Hollywood, Del Toro ci racconta quindi con accuratezza e in maniera delicata, una nuova realtà costellata di soprusi e violenze, ma tenuta a galla dalla tenacia di una bambina che utilizza il “potere dei sogni” come arma per vincere i mali che le stanno intorno. Un film per comprendere il dramma del franchismo visto questa volta attraverso gli occhi di una ragazzina, che è riuscita a farci riflettere sull’importanza di credere nelle favole.
Con “Il labirinto del fauno”, il regista è riuscito a dare una nuova forza ed un nuovo aspetto a quel filone fantasy spesso sottovalutato che, negli ultimi anni, aveva avuto come punta di diamante solo “Il Signore degli anelli” di Peter Jackson.
Il lavoro di Del Toro è uscito nel 2006 e fa parte di una trilogia tutta ambientata in Spagna, che comprende: “La Spina del diavolo”, ghost-story incentrata durante la guerra civile spagnola e “3993” (ancora in lavorazione), il quale sarà invece ambientato nel 1990.
venerdì 30 luglio 2010
MAGONI/SPINETTI E L'INCANTO DELLA "MUSICA NUDA"
Piazzale del monastero delle Clarisse. Borgo storico di Monte Sant’Angelo (Foggia). “Festambiente Sud” ospita sul suo palchetto un duo unico nel suo genere: voce e contrabbasso che suonano “musica nuda”. Gli artisti in questione sono gli ormai stra-osannati, dalla critica e dal pubblico, Petra Magoni e Ferruccio Spinetti. Lei toscana, esuberante, brillante, spiritosa, una voce divina e da far rabbrividire. Lui casertano, posato, scapigliato, dalla testa fra le nuvole, ironico, maestro contrabbassista sopraffino. Il loro progetto, nonché concetto musicale si basa per l’appunto sulla nudità della musica, ovvero, sullo spogliare pezzi “classici” o brani scritti per loro, dal loro vestito di genere. Non più, dunque, jazz, blues, pop, rock, punk, classica, ma una formula di voce e basso che chimicamente reagisce emozionando e divertendo al tempo stesso. Gli spazi sonori sono pieni nonostante i “soli” due strumenti: sta qui il genio del duo. Inventare e reinventarsi con il minimo ottenendo un buon risultato. Sarebbe semplicistico cercare di spiegare la potenza, l’estensione, le capacità vocali, la teatralità di Petra: lei canta e intrattiene vorticosamente. Non è da meno Ferruccio, ex-membro della Piccola Orchestra Avion Travel, che riesce con il suo apporto ritmico a destreggiarsi sulle quattro corde non facendo sentire la mancanza di altre parti musicali.
In scaletta numerosi “classici” italiani e stranieri: da ‘Prendila così’ a ‘Bocca di rosa’, da ‘Another brick in the wall’ a ‘Come together’, da ‘Forse non essenzialmente tu’ a ‘Caruso’, da ‘Over the rainbow’ al ‘Tuca Tuca’. Propongono anche brani scritti appositamente per loro, come ‘Pazzo il mondo’ di Pacifico e ‘Lei colorerà’ di Alessio Bonomo. C’è spazio inoltre per due assoli, quello di Petra con una intensa ‘I wanna be ready’, brano spiritual, e quello di Ferruccio (detto “Spin”) con un’improvvisazione composta per l’occasione e chiamata ‘Monte Sant’Angelo’. È tempo, purtroppo, dei saluti e di lasciare il palchetto. È tempo dei bis e delle richieste del pubblico. Suonano così ‘Roxanne’, ‘Il cammello e il dromedario’ (una delle esecuzioni più brillanti) e ‘Guarda che luna’. Chi non li ha mai visti dal vivo farebbe bene a cercare la data del tour più vicino. Ascoltarli e vederli è un incanto più del “vedo non vedo” che del nudo integrale.
Lina Rignanese
lunedì 26 luglio 2010
Six Feet Under
di Emiliano Sportelli
La morte è sicuramente una delle paure più forti dell’uomo. Chi prima chi dopo, tutti un giorno si troveranno di fronte quella “vecchia signora” con la falce in mano, che non guarderà in faccia a nessuno, ci prenderà per mano ed allora tutto sarà finito.
Il cinema e la televisione sono costellati di vicende che si confrontano con il tema della morte, situazioni in cui la fine della vita diventa la sola protagonista delle nostre storie. La serie televisiva Six Feet Under creata da Alan Ball - acuto sceneggiatore di American Beauty - nel 2001, riesce proprio a mettere a nudo questo tema/problema arricchendo il tutto con una piccola dose di ironia, come a voler dire che “la morte ride di fronte a tutti, un uomo non può che riderle di rimando”.
La storia di Six Feet Under è la storia della famiglia Fisher, proprietaria di un’azienda di pompe funebri. Dopo la morte del padre, la responsabilità della gestione degli affari di famiglia è scaricata sulle spalle della madre e dei suoi tre figli; i quattro iniziano così a confrontarsi con i problemi legati al mondo dei soldi, ma non solo.
La famiglia, infatti, dovrà fare i conti anche con problemi personali: la madre Ruth, dopo la morte del marito, inizierà una nuova vita piena di amori e passioni; il figlio David, dopo essersi dichiarato omosessuale, cercherà di convincere il fratello Nate, un vero e proprio spirito libero, ad assumersi le sue responsabilità, mentre la sorella più piccola Claire sarà alle prese con i suoi eterni problemi adolescenziali.
Oltre quindi alle bizzarre vicende della famiglia Fisher, l’elemento “morte” sarà il vero protagonista della serie; elemento che compare in ogni puntata in modo improvviso ed a volte quasi in maniera ridicola, con l’obiettivo di Ball di voler alleggerire il rapporto che lo spettatore può avere con questo tema.
Importante da sottolineare è che in questa serie televisiva i defunti riappaiono alla famiglia Fisher, portando con loro la consapevolezza di cosa sia davvero la vita, consapevolezza che ironicamente hanno acquisito dopo la loro dipartita, cercando così di fornire un piccolo aiuto ai quattro protagonisti.
Ed ecco allora che oltre al tema della morte, in Six Feet Under fa la sua comparsa anche l’elemento vita. In fin dei conti vita e morte hanno sempre avuto un’intesa particolare, un rapporto che nessuno di noi può davvero comprendere, ma che ci affascina molto.
La morte è sicuramente una delle paure più forti dell’uomo. Chi prima chi dopo, tutti un giorno si troveranno di fronte quella “vecchia signora” con la falce in mano, che non guarderà in faccia a nessuno, ci prenderà per mano ed allora tutto sarà finito.
Il cinema e la televisione sono costellati di vicende che si confrontano con il tema della morte, situazioni in cui la fine della vita diventa la sola protagonista delle nostre storie. La serie televisiva Six Feet Under creata da Alan Ball - acuto sceneggiatore di American Beauty - nel 2001, riesce proprio a mettere a nudo questo tema/problema arricchendo il tutto con una piccola dose di ironia, come a voler dire che “la morte ride di fronte a tutti, un uomo non può che riderle di rimando”.
La storia di Six Feet Under è la storia della famiglia Fisher, proprietaria di un’azienda di pompe funebri. Dopo la morte del padre, la responsabilità della gestione degli affari di famiglia è scaricata sulle spalle della madre e dei suoi tre figli; i quattro iniziano così a confrontarsi con i problemi legati al mondo dei soldi, ma non solo.
La famiglia, infatti, dovrà fare i conti anche con problemi personali: la madre Ruth, dopo la morte del marito, inizierà una nuova vita piena di amori e passioni; il figlio David, dopo essersi dichiarato omosessuale, cercherà di convincere il fratello Nate, un vero e proprio spirito libero, ad assumersi le sue responsabilità, mentre la sorella più piccola Claire sarà alle prese con i suoi eterni problemi adolescenziali.
Oltre quindi alle bizzarre vicende della famiglia Fisher, l’elemento “morte” sarà il vero protagonista della serie; elemento che compare in ogni puntata in modo improvviso ed a volte quasi in maniera ridicola, con l’obiettivo di Ball di voler alleggerire il rapporto che lo spettatore può avere con questo tema.
Importante da sottolineare è che in questa serie televisiva i defunti riappaiono alla famiglia Fisher, portando con loro la consapevolezza di cosa sia davvero la vita, consapevolezza che ironicamente hanno acquisito dopo la loro dipartita, cercando così di fornire un piccolo aiuto ai quattro protagonisti.
Ed ecco allora che oltre al tema della morte, in Six Feet Under fa la sua comparsa anche l’elemento vita. In fin dei conti vita e morte hanno sempre avuto un’intesa particolare, un rapporto che nessuno di noi può davvero comprendere, ma che ci affascina molto.
lunedì 19 luglio 2010
Lo stile schizoide delle Cocorosie a Villa Ada
“Roma incontra il mondo” e Villa Ada incontra le sorelle Bianca e Sierra Casady, in arte Cocorosie. Il duo americano è arrivato in Italia in due date (18 luglio a Roma e il 19 a Torino) per presentare il nuovo album ‘Grey Oceans’, uscito la scorsa settimana e disponibile nel nostro paese su Sub/Spingo.
Un sound quello di “Coco” e “Rosie” che parte dalle radici del folk americano rivisitandolo con la psichedelia e con strumenti musicali appartenenti ad altre civiltà, come ad esempio, i fiati della cultura Cherokee (della quale le due Casady sono originarie), oppure l’uso di giocattoli, carillon, registrazioni di frasi ripetute, di pianti di bambini, di clacson e di quant’altro venga loro in mente. Fondamentali le due voci: quella di Sierra/Rosie acuta, sottile, “particolare”, quella di Bianca/Coco invece, lirica, potente, profonda. È difficile incanalarle in una definizione, qualche critico statunitense le ha inserite nel movimento del “New Weird America” con influenze dall’hip hop.
Osannate dal pubblico e dalla critica per il debutto lo-fi con ‘La Maison de Mon Rêve’ (Touch and Go/Quarterstick Records 2004), in seguito hanno spesso diviso i critici, almeno i più maliziosi infatti, hanno visto in ‘Noah’s Ark’ (Touch and Go/Quarterstick Records, 2005) un lavoro frettoloso e dettato dalle regole del business piuttosto che dall’urgenza artistica delle autrici. Intanto però, il loro tour faceva tappe mondiali e successo di pubblico. Arriviamo intanto al 2007 e al terzo disco, ‘The Adventure of Ghosthorse and Stllborn’ (Touch and Go/Quarterstick Records), meno lo-fi dei precedenti, più pulito, maggiormente curato e con il linguaggio hip-hop che si è fatto sempre più presente e necessario. ‘Grey Oceans’ continua in questa direzione, lo stile è più affinato e maturo, e riesce nell’intento di esprimersi senza stancare.
Sul palco di Villa Ada “Coco” suona l’arpa e l'organetto, “Rosie” i fiati, giocattoli e vari gingilli. Accompagnate da pianoforte, tastiera, batteria e dal beat-box MC Spleen, che conquista tutta la platea con un a-solo stupefacente di suoni, ritmi, battiti, bassi alla djdjeridu, il tutto con il solo controllo del fiato.
La scaletta predilige il nuovissimo album e il precedente. Scorrono quasi tutte senza pause. Tra le altre, l’intima ‘Grey Oceans’, la sognante ‘Werewolf’, la dolce ‘Raphael’, la hit ‘Lemonade’, l’elettrica ‘R.I.P. burn face’, la ritmica ‘Smokey Taboo’, la divertentissima ‘Hopscotch’, e poi ancora la psichedelica ‘The Moon asked the crow’, una versione techno di ‘Fairy Paradise’…
La potenza dei campionamenti techno e l’effetto strabiliante del beat-box avvolgono le due voci conferendole una dimensione estraniante, con la voce di Coco che trascina insieme all’arpa verso mondi abitati da elfi e fate, mentre dal suo canto Rosie conferisce un tono più metropolitano e al tempo stesso selvaggio, fatto di fiati ululanti, cimbali, percussioni ipnotiche, che trasportano verso distese di praterie e insieme verso strade metropolitane. Coco danza sensuale, completamente rapita dal ritmo, Rosie è più statica concentrata sui suoi mille strumenti.
È uno stile schizoide quello delle due sorelle, e questo ammalia e coinvolge. Vien voglia di salire sul palco, abbracciarle e unirsi a loro con una caffettiera, una bottiglia, un apito… un qualunque aggeggio pur di contaminarsi con la positiva pazzia delle Casady.
Lina Rignanese
giovedì 15 luglio 2010
Os Mutantes e l'allegria del Tropicalismo
“È stato magico ritornare insieme.” – afferma Sérgio Dias Baptista – “Lo dobbiamo a voi” – dice riferendosi al pubblico di questa refrigerata serata musicale nella sala del Circolo degli Artisti. La rassegna “Frigidaire Sonori” apre i battenti con la storica band brasiliana degli Os Mutantes che, dopo 35 anni dall’ultimo full length, sono tornati in fase creativa con “Haih Or Amortecedor” (Anti/Spingo). L’album vede la collaborazione di due leggende quali Tom Ze e Jorge Ben.
Sérgio è molto emozionato e nel miscuglio di italiano, spagnolo e portoghese, comunica al pubblico la sua gratitudine per aver tanto voluto e premuto per un ritorno sul palco. La band originale, infatti, sciolta nel 1978, venne invitata vivamente a tornare sulle scene dai fans, nonché da artisti del calibro di Kurt Cobain (negli anni Novanta, infatti, aprirono un concerto dei Nirvana), Flaming Lips, Devendra Banhart e Beck (il quale in omaggio al gruppo chiamò uno dei suoi album ‘Mutations’).
Dal 2008, il leader Sérgio Dias Baptista (voce e chitarra) è accompagnato da una line up di degno rispetto: Henrique Peters (tastiere), Vinicius Junqueira (basso), Vitor Trida (tastiere), Fábio Recco (chitarra acustica ed elettrica, flauto), Bia Mendes (voce), Dinho Leme (batteria).
L’ingrediente segreto del progetto di Sérgio è stato (ed è ancora) il mescolare rock, psichedelia e musica tradizionale brasiliana. Facendo convivere assoli di chitarra e urla da nordamericani rockers anni ’60 da un lato, e dall’altro il movimento sensuale, l’allegria del samba, del mambo, del cha-cha-chá sudamericani. Il tutto suonato in un contesto politicamente teso, come poteva essere il Brasile dei militari al governo, delle censure e della repressione delle libertà. Creatori, insieme a Caetano Veloso, Gilberto Gil, Gal Costa, Tom Ze e altri, del movimento culturale e musicale del Tropicalismo, che aveva alla base l’energia di unire influenze musicali provenienti da varie culture e società e al tempo stesso, la spinta rivoluzionaria dell’attivismo politico e culturale.
Un concerto sentito con forte emozione anche dal pubblico, molto variegato, composto di nostalgici dai capelli bianchi e di giovani appassionati. La band è acclamata sin da subito, in tanti conoscono i brani a memoria, nonostante un ostico portoghese-brasiliano, e saltellano divertendosi al sound di classici come ‘Don Quixotte’, ‘Cantor de Mambo’ o ‘El justiciero’con un irriverente riferimento al premier italiano, ‘Ando meio delisgado’, l’acclamatissima ‘Bat macumba’ e la giocosa e poetica ‘Balada do louco’. Apprezzabili, non deludenti e mai ripetivive, le due canzoni scelte per promuovere l’ultimo album, come ‘Teclar’ e ‘Querida Querida’.
Un ritorno divertente e divertito. Un tuffo nel passato e al tempo stesso la consapevolezza di poter toccare con mano e sentire con orecchie dal vivo, la potenza di una delle band più influenti e irrequiete della storia della musica.
Lina Rignanese
sabato 10 luglio 2010
"Meat the Truth". La rivoluzione della forchetta
Cosa c’entra il consumo di carne con i cambiamenti climatici?
Ce lo spiega il documentario “Meat the Truth - Carne, la verità sconosciuta”. Il film è stato prodotto dalla Nicoolas G. Pierson Foundation e utilizza informazioni scientifiche convalidate dalla FAO (Organizzazione per l’Agricoltura e l’Allevamento dell’ONU), dal World Watch Institute e dall’Istituto per gli Studi Ambientali della Libera Università di Amsterdam. Il lavoro è stato tradotto in 13 lingue e distribuito in 16 paesi.
La versione italiana risale al 2009 ed è stato presentato in concorso a CinemAmbiente, il maggiore festival italiano di cinematografia ambientalista. La Fondazione ha pubblicato anche un libro in inglese “Meat the Truth, Essays on Livestock Production, Sustainability and Climate Change”, uscito il 2 giugno scorso in Gran Bretagna.
Vediamo di cosa tratta il nesso tra carne e clima. L’industria dell’allevamento causa il 18% dell’effetto serra, una percentuale simile a quella dell’industria e maggiore dell’intero settore dei trasporti pubblici e privati (13%).
A cosa corrisponde una così alta percentuale prodotta dal bestiame? È semplice, dagli escrementi e dai gas di digestione (metano soprattutto). Se prendiamo, ad esempio, una mucca da latte che produce 8.000/10.000 litri l’anno, essa emette quotidianamente 500/600 litri di metano, grosso modo quanto un fuoristrada che percorre circa 35 Km (parlando in termini di gas serra).
L’altro grande problema intorno agli allevamenti riguarda la provenienza dei mangimi. La maggior parte dei cereali per sfamare la popolazione di bestiame viene prodotta abbattendo intere foreste pluviali per far posto ai campi agricoli.
I maggiori consumatori mondiali di cereali sono gli animali da bestiame: circa il 40-50% dei cereali in generale, per la soia, invece, si sfora il 75%.
Per produrre 1 Kg di carne occorrono 7 Kg di mais e di soia, con la conseguenza di abbattere centinaia e centinaia di ettari di foresta pluviale.
È senza dubbio un metodo poco efficace per ottenere cibo proteico! Per non parlare delle sofferenze, delle torture e dello stato in cui vivono gli animali da allevamento. E dello stato in cui vive la maggior parte delle popolazioni dei paesi più poveri, nonché produttori di cibo per animali, che soffre quotidianamente la fame.
Secondo gli scienziati, le superficie di terreno per produrre le proteine di origine animale e il relativo dispendio energetico è 10 volte superiore a quello per produrre cibo di origine vegetale.
Previsioni ancor più nere per il futuro. Uno studio della FAO ha, difatti, evidenziato che tra il 1950 e il 2000, la popolazione mondiale è aumentata da 2.600 milioni di persone a 6 miliardi, e la produzione di carne è quintuplicata da 45 a 233 miliardi di Kg/anno. Poiché è previsto che ci saranno 9 miliardi di individui sul pianeta entro il 2050, cosa succederà alla produzione di carne? Raddoppierà fino a 450 miliardi di Kg/anno entro il 2050, e così anche le emissioni di gas serra.
Si è calcolato che un europeo medio nell’arco della sua vita divora 1800 animali circa. Se ogni persona sulla terra facesse lo stesso, si avrebbe un consumo di 132 miliardi di animali al giorno.
Uno studio commissionato dalla Nicolaas G. Pierson Foundation sugli USA, ha sottolineato come, diminuendo il consumo di carne, si può fare la differenza in termini ambientali. Se non si mangiasse carne anche per un giorno a settimana, si avrebbe un risparmio in termini di gas serra pari a 90 milioni di biglietti aerei che volano ogni anno da New York a Los Angeles o viceversa.
Una tale dimensione per un solo giorno a settimana da vegetariano!
Se diamo un’occhiata in cima alla tabella, ovvero per una dieta da vegetariano 7 giorni su 7, si avrebbero circa 700 megatoni di gas serra in meno, sarebbe come eliminare tutte le automobili dal territorio statunitense. Una bella differenza, non c’è che dire!
Non c’è dubbio, si può fare la rivoluzione anche con la forchetta e tra i reparti del supermercato.
Se poi si osservasse la massima di Rajendra Pachauri, premio Nobel per la Pace 2007 e direttore dell’IPCC (Panel Intergovernatico sui Cambiamenti Climatici dell’ONU): “Non mangiare carne, va’ in bici, sii un consumatore frugale”, riusciremmo a fare il massimo delle nostre capacità per la salvaguardia degli animali, dell’umanità e dell’intero pianeta.
Lina Rignanese
giovedì 8 luglio 2010
DIARIO DI UNA GIORNATA DI GUERRIGLIA URBANA
Roma, 7 luglio – Una pacifica manifestazione si è trasformata in una guerriglia urbana. In mattinata si sono dati appuntamento in piazza Venezia i 5.000 abruzzesi provenienti da L’Aquila e dai vari comuni del “cratere” colpiti dal terremoto del 6 aprile 2009. Un corteo molto variegato, con donne, anziani, bambini, associazioni sindacali, artigiani, commercianti, la COISP (il sindacato di polizia), i comitati territoriali, i sindaci di 53 comuni su 59. Nessun simbolo di partito, solo le bandiere aquilane: nero lutto e verde speranza (colori fatalmente scelti dopo il terremoto del 1703 che rase al suolo il capoluogo abruzzese).
Il primo blocco
I manifestanti di “SOS Ricostruzione” avevano programmato di raggiungere in mattinata il Parlamento e nel pomeriggio il Senato, ma polizia e carabinieri hanno sbarrato loro l’accesso, sin dall’imbocco di via del Corso. Qualche spintone per cercare di forzare il cordone armato e sono volati schiaffi sui manifestanti. Colpito anche il deputato Pd Giovanni Lolli.
Il secondo blocco
Dopo la trattativa, il corteo viene fatto sfilare su via del Corso, ma a poche centinaia di metri da piazza Colonna, un cordone ben più robusto di polizia, carabinieri e guardia di finanza in tenuta anti-sommossa, ha sbarrato nuovamente la strada. La tensione sale, qualche spintone contraccambiato da manganellate, due ragazzi vengono feriti alla testa.
“Mi sono trovato davanti, inerme. Non ho detto e non ho fatto nulla, ma mi sono trovato schiacciato tra i pochi che spingevano e quelli che menavano - racconta Marco, che ha la testa fasciata e proprio non si capacita di una così sproporzionata e violenta reazione. “Quello che mi dispiace” – continua – “è che da una manifestazione pacifica venga fuori questa immagine. Non siamo venuti a fare casino, ma solo a rivendicare i nostri diritti e a chiedere aiuti per la nostra città”.
Dopo questo episodio, si cerca la deviazione per via Pietra verso piazza Montecitorio, dove era stata autorizzata un’altra manifestazione, quella degli invalidi. Momenti di smarrimento tra la gente, finché non si decide di ricompattare il corteo tornando indietro in via del Corso e da qui via libera fino a piazza Colonna.
Il Palazzo del Governo è transennato. Il corteo si ferma qui a lungo. Tra i politici presenti, Emma Bonino, Marco Pannella, Pierluigi Bersani, che promette: “L’Aquila è il nostro problema numero uno. Siamo per una tassa di scopo per la ricostruzione dei territori colpiti dal terremoto”. Ad unirsi invece ai manifestanti, fino a piazza Navona, Anna Paola Concia, deputata del Pd di origini abruzzesi e l’ex presidente della Provincia dell’Aquila Stefania Pezzopane.
Il terzo blocco
Si torna verso piazza Venezia. È tempo di presidiare il Senato, dove si sta discutendo sulla manovra finanziaria e in particolare sul DL 39/2009, il cosiddetto “Decreto Abruzzo”, che costringerà i cittadini del cratere a tornare a pagare i contributi fiscali, nonché a restituire, per intero e in sei mesi, gli arretrati.
Ancora una volta, però, la strada viene sbarrata da uomini in divisa. I manifestanti, però, indispettiti dall’accoglienza loro riservata, riescono a sfondare il cordone e a guadagnare, tenendo le mani alzate, 200-300 metri in via Plebiscito, fino ad un nuovo blocco, con camionette ed altri uomini in tenuta anti-sommossa, nei pressi di Palazzo Grazioli. Qui gli uomini del governo sono barricati dentro per il decreto sulle intercettazioni.
“Vogliamo arrivare a Piazza Navona prima che termini al Senato la discussione sulla manovra economica” - grida al megafono Sara Vegni del comitato 3.32 – “Siamo persone civili e ragionevoli, non ci interessa fermarci davanti a palazzo Grazioli. Il corteo fino a Piazza Navona è autorizzato dalla Questura di Roma. Invece non ci fanno passare”.
Una lunga trattativa e alla fine i manifestanti si convincono a cambiare itinerario e a raggiungere piazza Navona da via delle Botteghe Oscure. Arrivati in piazza, un nuovo cordone di poliziotti sbarra il passaggio che dalla Corsia Agonale porta a Palazzo Madama. Il sit-in dura un’oretta. Ormai la stanchezza si fa sentire. Eppure il microfono continua a dar voce alle richieste dei terremotati: Congelamento di mutui e prestiti, sospensione delle tasse e dei tributi per 5 anni e successiva restituzione in 10 anni senza interessi; garanzie per i disoccupati, cassintegrati e precari; misure per far ripartire le attività economiche e commerciali; un piano di ricostruzione per tutto il territorio; procedure snelle ed efficaci; tutte le risorse economiche necessarie, anche prevedendo una tassa di scopo o un contributo di solidarietà.
“Non chiediamo privilegi, ma diritti” – afferma Mattia Lolli del comitato 3e32 – “I terremotati delle precedenti catastrofi, in Umbria e nelle Marche, hanno ricominciato a pagare le tasse dopo 12 anni al 40%”. “Abbiamo bisogno di un piano di ricostruzione. Non permetteremo che i nostri territori diventino la nuova Pompei”.
In serata, al tramonto, la notizia di un emendamento, ovvero di far restituire tutte le tasse non pagate in questi 15 mesi, rateizzandole in 10 anni anziché in 5. E della ricostruzione? E del miracolo? Qualcosa fa presagire che torneranno ancora in piazza gli aquilani, questa volta tra le macerie che ancora ricoprono il loro territorio. Forse basterà ad evitare i manganelli…
Lina Rignanese
martedì 6 luglio 2010
ROMA PRIDE 2010
Un Gay Pride non certo dei migliori. Ad un anno dall’Euro Pride 2011 che si svolgerà proprio a Roma, le realtà nostrane del movimento lgbt stanno vivendo un momento di rottura. Non solo di tipo organizzativo, ma anche e soprattutto politico.
Quest’anno il gruppone di associazioni, che hanno quasi sempre gestito il pride, hanno deciso di prendere le distanze da quello che è rimasto un risicato Comitato organizzativo, ovvero Di’Gay Project , Arcigay Roma, Gaylib Roma (di centrodestra) e Azione trans. Quest’ultime hanno adottato il punto di vista della trasversalità: cercare punti d’appoggio a destra, per tralasciare le estremità della sinistra, più vicine alle lotte di gay, lesbiche e trans.
Così, nel canicolare pomeriggio romano del 3 luglio si parte con un’imponente assenza. Si parte, però, è questo è l’importante. Da Piramide Cestia, luogo di scontri durante la seconda guerra mondiale, dove i rappresentanti delle associazioni hanno depositato una corona di fiori al monumento ai caduti delle vittime del nazifascismo a Porta San Paolo, in memoria di tutte le vittime dell’omofobia, della transfobia e della violenza. Poi il bacio collettivo, perché “Ogni bacio è una rivoluzione” – questo lo slogan di quest’anno.
Secondo gli organizzatori si era in centomila, per la questura circa la metà. In tanti i trans e le trans, quest’ultime quasi tutte normalmente vestite a dispetto delle notizie di cronaca e dei festini a base di sesso, droga e politici. Tante anche le coppie di gay e lesbiche ultra cinquantenni. Tanti i bambini, figli di famiglie non riconosciute dallo Stato italiano. Tanti anche gli etero “gay friendly”.
La musica, i colori, la festa, le coppie che si baciano o camminano mano nella mano, i cartelloni, gli slogan (la sarcastica “Ero etero ma sono guarita”, la dissidente “Chiudere il Vaticano, la Guantanamo mentale”, l’irriverente “Né Stato né Dio sul corpo mio!”), la gente che balla, rendono il pride, come al solito, molto piacevole e divertente.
È una festa, e non si dovrebbe troppo reclamizzarlo, o averne paura.
Tanti, infatti, i gay, le lesbiche o gli etero che mal tollerano questa giornata. Si vergognano di essere associati a questo marasma di colori e corpi danzanti, prendendone le distanze anche in maniera un po’ snob. Tra le motivazioni addotte, vi è la totale mancanza di senso di dover manifestare. “Non ce n’è bisogno” – dicono – “è una forma di auto-discriminazione, di auto-ghettizzazione”. “Gli etero” – continuano – “non hanno mica bisogno di scendere in piazza per il loro ‘orgoglio’ ”.
Il problema, però, è proprio questo. Come possono i gay, le lesbiche e soprattutto i trans compararsi agli etero, se non si ha nemmeno il diritto di essere riconosciuti come coppia, di mettere su famiglia, di sposarsi, se si deve temere di sbilanciarsi sul posto di lavoro, se non esiste una legge che li tuteli a pieno? Questa non è normalità. Se lo fosse, non ci sarebbe bisogno di scendere in piazza o di dichiararsi con uno stupido “coming out” o di urlare chissà che. E invece, c’è ancora tanto da lottare, tanto da chiedere e tanto da fare per aprire gli occhi, le menti e i cuori degli italiani.
E se esiste il Pride ovunque (nel mondo occidentale), anche in realtà più emancipate delle nostre, allora ci si deve chiedere se non è poi così sbagliato festeggiare il proprio “orgoglio gay”.
Nella stessa giornata, infatti, si sono svolti i cortei anche in altre capitali europee, come Madrid o Londra. Nella capitale inglese, a sfilare erano 1 milione circa (contro il nostro modesto 100 mila!), e tra questi vi era anche un carro dell’Nhs, il servizio sanitario nazionale (l’equivalente delle nostre Asl), per il personale gay. A seguire, il carro dell’Home Office, il ministero degli Interni, assieme alla polizia in divisa ballava una delegazione dei Tory con uno striscione “I’m Tory and I’m Proud”.
Non è che proprio vorremmo di colpo compararci con la società e la politica “gay friendly” dei britannici, ma almeno vedere uno spiraglio di luce dai palazzi del potere nostrani: il riconoscimento dei matrimoni civili tra gay e la possibilità di adottare bambini; una legge contro l'omofobia e la transfobia; la lotta a tutte le discriminazioni anche attraverso l'informazione nelle scuole; la tutela della salute. “Quello che ci manca in Italia - ha spiegato il presidente di Arcigay Roma - è la possibilità di vivere con naturalezza e tranquillità la nostra affettività, tant’é che solo a Roma diverse persone sono state aggredite solo perché si stavano baciando in pubblico”.
Aspettando una società etero più aperta, emancipata e meno ipocrita, si ricordano (e si sognano) i locali di Soho (locali gay dove incontri anche le famiglie etero con bambini, dove si fanno concerti, dove non si ha la sensazione di rifugiarsi in un ghetto) e la quasi normalità di vita per le strade di Londra.
Lina Rignanese
lunedì 5 luglio 2010
QUESTI UOMINI STANNO MALE
Un analisi accurata di quanto sta succedendo agli italiani. Un revival di fascismo, machismo, xenofobia, omofobia e misoginia. Il tutto pericolasamente sta passando come normalità.
Attenti a questi uomini che stanno male! - non per retorica o per slogan, ma per riflessione.
Qui sotto l'articolo tratto da
http://ilblogdilameduck.blogspot.com/2010/07/questi-uomini-stanno-male.html
Quando in un paese in scacco alle cosche mafiose e sull'orlo di una deriva totalitaria interessa di più il falso problema, la bagattella del sesso ludico e si lasciano 60 commenti su questo blog al post su Paolo Barnard e solo 7 a quello sulla mafia, c'è qualcosa che non va, siamo all'orchestrina del Titanic che continua a suonare i valzerini per non pensare all'acqua gelida che la sommergerà tra poco.
Tuttavia non mi stupisco più di tanto, perchè questo ripiegamento sul privato, come si sarebbe detto negli anni settanta, è l'effetto dell'onda di marea fascista che ci sta sommergendo. Una marea nera che ci si attacca alla pelle e ci soffoca peggio di quella di petrolio.
Invece di prendercela con la società sempre più alienante, con l'assalto frontale della delinquenza organizzata allo Stato, con le caste che attentano alle conquiste dei lavoratori per accrescere il proprio privilegio, ci diamo al chiacchiericcio a vuoto e ce ne vantiamo pure.
Tutt'attorno è sfacelo ma noi siamo come i borghesucci viziosi del film di Bertolucci "The dreamers" che mentre fuori scoppia la rivoluzione del Sessantotto, se ne stanno chiusi in casa scopando a vuoto, scambiandosi perversioncelle perchè sono incapaci di uscire e darsi una mossa.
Oggi gli operai perdono il lavoro ma i medici continuano ad incassare parcelle da 150 euro a botta; la crisi non colpisce tutti allo stesso modo e dovremmo chiederci perchè. Invece, oltre a scannarci tra poveri, ci scanniamo anche tra maschi e femmine. La guerra tra i sessi è funzionale al regime come lo è l'imbavagliamento della stampa. Vorrei che il messaggio giungesse a chi crede di fare qualcosa di utile alla società prendendosela con il femminismo e le conquiste delle donne in genere.
Sia chiaro una volta per tutte che senza una completa emancipazione di donne, omosessuali e lavoratori non esiste società giusta al mondo.
Soprattutto le donne invece, in una società che si va fascistizzando, diventano un comodo capro espiatorio contro il quale scatenare tutto il risentimento di chi, avendo fallito in tutti i sogni ideologici e scoprendosi incapace di eliminare l'alienazione, non ha il coraggio dell'autocritica.
Noi donne diventiamo così i nuovi ebrei. Il femminismo, secondo i neoideologi del revanchismo machomanista, è la piaga che ha corroso la nostra società. Quelli più a destra invocano i burqa afghani, vabbé, ma quelli di sinistra non sono da meno. Gli ex sessantottini alla "Uomini Beta" ce l'hanno con il femminismo e con le donne che non se li scopano più perchè troppo noiosi principalmente perchè la rivoluzione ha fatto loro cilecca e paradossalmente ne incolpano le donne che sono sempre state in prima fila in tutte le rivoluzioni, in tutte le resistenze. "Sebben che siamo donne, paura non abbiamo".
Se fosse solo il delirio di quattro misogini da salotto sarebbe poco male ma intanto che questi sputano veleno su giornali e blog, i più disturbati mentalmente le donne le ammazzano sul serio.
Invece di dare delle cretine alle donne perchè non capiscono quanto in certi momenti a lorsignori tiri, senza rendersi conto che anche a noi tira perchè il clitoride, a queste latitudini, non ce l'hanno ancora amputato, perchè gli ometti beta non si chiedono preoccupati cos'è che spinge tanti uomini ultimamente ad accoppare le donne, sintomo inequivocabile che questi uomini stanno male?
Fanno fuori le ex perchè non sopportano che una donna li lasci, pensate. L'altro giorno uno ne ha fatte fuori addirittura due una dopo l'altra, di ex. Un altro ha scannato la ex nonostante si fosse rifatto una vita con una nuova compagna mettendola incinta.
Non vi pare che, dopo essere stato eliminato dal codice, stia ritornando il delitto d'onore, pienamente tollerato dalla società, e vi sembra una bella cosa? E ritenete normale che il femminicidio sempre più frequente, ormai siamo quasi a livelli messicani, non scateni dibattiti, tavole rotonde, speciali in televisione, interrogazioni parlamentari, manifestazioni?
Chissà cosa sta promettendo il neofascismo, il machismo con argomenti da circolo del cucito a questi maschi rancorosi e preoccupati della perdita del proprio ruolo di piccoli pascià domestici, con quali lusinghe se li sta comperando tutti, se si sentono tanto orgogliosi dei loro sitarelli antifemministi, dove la misoginia si sposa benissimo all'antisemitismo gratuito, ad esempio e il paese di Obama diventa "gli Stati Uterini d'America". Donne, ebrei, froci. Già, questo è un sistema che se la prende con le donne, i bambini e le persone omosessuali. Con gli ebrei ancora no perchè hanno imparato a difendersi ma non si sa mai. Niente di nuovo. Si chiama fascismo.
E' un fenomeno che colpisce non solo l'Italia. Non è solo la macelleria messicana citata prima o il Sudafrica dove si stuprano sistematicamente le lesbiche per "rieducarle". I paesi nordici che stanno sterzando alla destra estrema dopo anni di socialismo sono quelli dove nascono i libri alla "Uomini che odiano le donne".
La società dove l'essere utilizzatore finale di prostitute diventa nota di merito per fare politica corrompe il femminino indicandogli un'unica via che è quella del meretricio, della degradazione ad oggetto, ma la colpa, secondo questi "nuovi maschi" non è della società corruttrice ma delle donne che hanno ottenuto, dopo decenni di lotte, libertà di scelta sessuale, libertà sul proprio corpo, libertà di essere indipendenti grazie al proprio lavoro. Mentre loro stanno comodi in poltrona noi dovremmo fare la rivoluzione. E' sempre il solito vecchio caro: "cara, portami le pantofole che sono stanco".
Si scannano le donne, si bastonano i gay, si dà fuoco agli zingari ma il problema non è mica il risorgere del fascismo. No, la colpa è del femminismo. Capito?
COREA/BOLLANI: UN DUO EFFERVESCENTE
Uno di fronte all’altro, Chick indossa una camicia nera in lino, pantaloni da tuta e scarpe da ginnastica, Stefano è più sobrio e casual. I due si guardano, ammiccano, fanno facce divertite, sorridono. Due modi di suonare molto diversi, eppure un’intesa forte. Chick Corea e Stefano Bollani insieme presso l’Auditorium Parco della Musica (4 luglio), protagonisti di una serata jazzistica molto intensa e particolare.
La coppia trasmette ilarità: da una parte un Bollani irresistibile, fisico, mimico, suona con tutto il corpo, dall’altra un Corea monumentale, fermo, immobile, pacato, trasmette leggerezza e tranquillità nel modo di eseguire. Si cambiano spesso di posto, avvicendandosi tra il pianoforte e quello a coda. Non mancano le gag burlesche, come quella in cui Bollani lustra il sedile in cui si siederà il maestro di Chelsea, mentre questi finge di spolverargli il piano.
I due suonano specularmente, alternandosi e scambiandosi le parti musicali. La tecnica di Bollani è pazzesca, inventa, scherza con le scale, fa voli pindarici, partendo da un brano e arrivando ad inserire melodie di altri pezzi. È fantastico. Lo stesso Corea, durante l’esibizione, lo chiamerà: “my genius friend”. Ed è proprio un genio, Bollani, quasi adombra quel mostro sacro di Corea, che ci sta al gioco delle parti, così l’americano lascia fare la prima donna al milanese. Bollani è scatenato, si alza in piedi, accenna passi di danza, saltella sulla destra e cerca i tasti più acuti della tastiera, poi divertito si risiede, si rivolge verso il pubblico, ciondola il capo, suona con una mano, volteggiando scale, poi allunga la gamba destra e la muove come fosse un arto a sé, tiene il tempo forsennatamente.
Stupisce anche per l’intensità della voce, Bollani, che ci delizia con ‘The touch of your lips’.
Una serata effervescente e di alta qualità. I due passano da classici più blues, allo swing, al charleston, a brani della tradizione italiana, ad accenni di musica brasiliana. Il tutto senza spartiti, improvvisato e mescolato con un’estrosità singolare da parte di entrambi. Non mancano classici come ‘Armando’s Rhumba’ dello stesso Corea e ‘Blue Monk’.
Lina Rignanese
sabato 3 luglio 2010
I PENSIONATI E I SOMMERSI
(da www.beppegrillo.it)
L'Italia di Mussolini aveva otto milioni di baionette, l'Italia del nuovo millennio ha 17 milioni di pensionati. Per andare in pensione sarà necessario aspettare la loro dipartita di massa. Chi lavora (o cerca un lavoro) vede l'asticella alzarsi, 35/40 anni e forse più di contributi. In pratica, un ragazzo di venti o trent'anni in pensione non ci andrà mai. Lavorare 40 anni ininterrottamente con un posto fisso e il versamento mensile all'INPS dei contributi è come vincere al Superenalotto.
Il Paese è diviso in due classi: i pensionati e i sommersi. Sommersi perché precari, in nero, disoccupati, sottopagati, licenziati. Perché la loro pensione è un miraggio sociale. Le pensioni rappresentano il vero "class divide" italiano. Non è possibile chiedere ai giovani di spostare in avanti l'età pensionabile e gli anni di contributi fino alla consunzione mentre ci sono battaglioni di pensionati con due o tre pensioni, parlamentari con il diritto alla pensione dopo due anni e mezzo di legislatura, milioni di pensionati che percepiscono una pensione per la quale hanno versato la metà o anche meno di contributi, centinaia di migliaia di baby pensionati, pensionati dalle pensioni d'oro. La pensione minima va comunque garantita e anche tutte le pensioni per cui sono stati versati effettivamente i contributi. In tutti gli altri casi va fatta tabula rasa. Se non succederà, tutti coloro che versano i contributi all'INPS, in particolare le fasce più giovani, non devono più versare un euro. E' come buttare i soldi dalla finestra. Nessuno ti garantisce se e quando li riavrai.
I sacrifici valgono per tutti o per nessuno. Qual è la situazione pensionistica degli ex parlamentari, ex presidenti di Regione, di Provincia, ex ministri, ex presidenti di municipalizzate, ex presidenti della Repubblica? Quanti sono i pensionati consulenti? Quanti quelli che superano i 4000 euro? Quanti quelli che votano per il mantenimento dello status quo pensionistico il partito bifronte Pdelle-Pdmenoelle?
Solo chi raggiunge l'età pensionabile può fare carriera. Il duo Berlusconi-Napolitano fa quasi CENTOSESSANTANNI. Il fatto straordinario è che i "sommersi", i ragazzi senza un presente e neppure un futuro per non parlare della pensione non si incazzino. Lavoreranno da schiavi e moriranno sul luogo di lavoro, come i rematori delle galere. Intanto, i pensionati da 4000 euro in su saranno al Club Med con il Viagra sul comodino. Ragazzi, non un soldo all'INPS, meglio sotto il materasso. In futuro consigli e indicazioni sul blog.
venerdì 2 luglio 2010
TRUE BLOOD
di Emiliano Sportelli
Dimenticate il “Nosferatu” di Murnau o il “Dracula di Bram Stoker” di Coppola perché, nella serie televisiva “True Blood”, il mito del vampiro dannato e maledetto viene sfatato, al suo posto emerge la figura di un “nuovo” non-morto che ormai fa parte della società e ad essa si adatta.
Creata nel 2008 dal sorprendente Alan Ball, che già qualche anno fa ci aveva mostrato i problemi di una famiglia che gestisce un’impresa di onoranze funebri con la serie “Six Feet Under”, True Blood - basato sulla saga Southern Vampire della scrittrice Charlaine Harris - racconta una nuova realtà della società americana dove i vampiri sono usciti allo scoperto e reclamano eguali diritti così come gli esseri umani. L’intera serie è incentrata sui nuovi e difficili rapporti che si creano tra umani e vampiri; tra i primi c’è ovviamente molta paura e diffidenza, per i secondi, invece, l’essere umano resta una razza inferiore vista spesso come fonte di nutrimento.
La figura del vampiro che ci viene presentata, anche se come già detto si discosta dal classico mito, continua comunque ad avere alcune tipiche caratteristiche che la contraddistinguono come: il classico “morso” sul collo o l’impossibilità di uscire durante il giorno; a queste si aggiunge poi qualcosa di nuovo ed atipico: i vampiri si nutrono di una specie di sangue artificiale in libero commercio e appositamente imbottigliato: il true blood appunto.
In questo scenario si sviluppa la storia d’amore tra la giovane Sookie, una cameriera telepata, e il tenebroso Bill, un vampiro centenario, ma non solo; in “True Blood” sembra quasi che tutti i personaggi presenti abbiano una storia da raccontare in cui loro sembrano essere i soli ed unici protagonisti. Non solo umani e vampiri, ma anche mutaforma, licantropi e menadi arricchiscono uno scenario già di per sé abbastanza complesso; la serie si trasforma così in un teatro di violenze ed orrori in cui spesso però, sono gli esseri umani i veri cattivi.
Questo ultimo passaggio fa da cornice all’intero serial televisivo; il problema di chi sia davvero malvagio, la dicotomia umano/vampiro, così come quella alba/tramonto rendono il tutto un vero e proprio gioco delle parti dove, a volte, ci si affida al caso per riuscire a scoprire chi realmente si nasconda dietro ciascun personaggio.
Risulta chiaro così che in “True Blood” nessuno è davvero quello che sembra e nessuno è realmente normale; tutti hanno qualche segreto da custodire e qualche capacità da nascondere che li rende diversi dagli altri, sia che si tratti di un potere mentale o di due canini che spuntano nella notte.
Dimenticate il “Nosferatu” di Murnau o il “Dracula di Bram Stoker” di Coppola perché, nella serie televisiva “True Blood”, il mito del vampiro dannato e maledetto viene sfatato, al suo posto emerge la figura di un “nuovo” non-morto che ormai fa parte della società e ad essa si adatta.
Creata nel 2008 dal sorprendente Alan Ball, che già qualche anno fa ci aveva mostrato i problemi di una famiglia che gestisce un’impresa di onoranze funebri con la serie “Six Feet Under”, True Blood - basato sulla saga Southern Vampire della scrittrice Charlaine Harris - racconta una nuova realtà della società americana dove i vampiri sono usciti allo scoperto e reclamano eguali diritti così come gli esseri umani. L’intera serie è incentrata sui nuovi e difficili rapporti che si creano tra umani e vampiri; tra i primi c’è ovviamente molta paura e diffidenza, per i secondi, invece, l’essere umano resta una razza inferiore vista spesso come fonte di nutrimento.
La figura del vampiro che ci viene presentata, anche se come già detto si discosta dal classico mito, continua comunque ad avere alcune tipiche caratteristiche che la contraddistinguono come: il classico “morso” sul collo o l’impossibilità di uscire durante il giorno; a queste si aggiunge poi qualcosa di nuovo ed atipico: i vampiri si nutrono di una specie di sangue artificiale in libero commercio e appositamente imbottigliato: il true blood appunto.
In questo scenario si sviluppa la storia d’amore tra la giovane Sookie, una cameriera telepata, e il tenebroso Bill, un vampiro centenario, ma non solo; in “True Blood” sembra quasi che tutti i personaggi presenti abbiano una storia da raccontare in cui loro sembrano essere i soli ed unici protagonisti. Non solo umani e vampiri, ma anche mutaforma, licantropi e menadi arricchiscono uno scenario già di per sé abbastanza complesso; la serie si trasforma così in un teatro di violenze ed orrori in cui spesso però, sono gli esseri umani i veri cattivi.
Questo ultimo passaggio fa da cornice all’intero serial televisivo; il problema di chi sia davvero malvagio, la dicotomia umano/vampiro, così come quella alba/tramonto rendono il tutto un vero e proprio gioco delle parti dove, a volte, ci si affida al caso per riuscire a scoprire chi realmente si nasconda dietro ciascun personaggio.
Risulta chiaro così che in “True Blood” nessuno è davvero quello che sembra e nessuno è realmente normale; tutti hanno qualche segreto da custodire e qualche capacità da nascondere che li rende diversi dagli altri, sia che si tratti di un potere mentale o di due canini che spuntano nella notte.
HERBIE HANCOCK, “THE IMAGE PROJECT” E IL SANGUE FUNKY
Avrà pure settant’anni Herbie Hancock, ma sul palco non li dimostra affatto. Sorride, scherza con il pubblico e con la band. Saltella divertito con l’immancabile bianca tastiera a tracolla. Tribuna e platea sono in delirio, lo acclamano e seguono il ritmo con le mani. La cavea è un caleidoscopio di emozioni! Nel live dell’Auditorium Parco della Musica (1 luglio) l’artista di Chicago ha presentato il suo ultimo lavoro, ‘The Imagine Project’, un CD di collaborazioni, nato dalla riflessione di unire le persone attraverso la musica – l’omaggio a John Lennon non è puramente casuale. I brani sono stati registrati, per lo più, nei luoghi d’origine dei musicisti e incarnano lo spirito, i suoni, i colori, la vita di ogni posto. Un mondo senza confini in 10 canzoni.
Ad affiancare il pianista/tastierista, una line-up di degno rispetto: Vinnie Colaiuta (batteria), Tal Wilkenfeld (basso), Lionel Loueke (chitarra), Greg Phillinganes (tastiere) e Kristina Train (voce e violino).
La serata si apre con due brani funky che animano e riscaldano completamente la già calda atmosfera. Hancock, seduto, si dimena tra il piano frontale e la tastiera di fianco, poi, ispirato, si alza, imbraccia la sua caratteristica tastiera portatile e cerca uno spiritoso dialogo, un botta e risposta magistrale con Loueke e la giovanissima Wilkenfeld. È, in seguito, la volta di brani più pop, più intimi tratti da ‘The River’, l’album scritto in omaggio alla cantautrice canadese Joni Mitchell. Segue un medley di brani più fusion, fino ad arrivare alla famosa e delirante ‘Watermelon Man’.
Termina la prima ora di concerto. Hancock guarda spesso l’orologio, sembra puntuale e preciso nella scansione del tempo scenico.
La seconda ora viene dedicata alla promozione del nuovo album. Si inizia con una cover di ‘Imagine’ che parte soft per divenire un ritmato brano africano, con la profonda voce off di Oumou Sangare, cantante del Mali che si è spesso battuta per i diritti delle donne. Il canto di Train si concede piroette con ‘Don’t Give Up’. Un altro brano ‘Tamatant Tilay/Exodus’, con un Bob Marley unito ad uno dei brani più ballabili e preziosi dell’ultimo disco. C’è spazio anche per una cover di Bob Dylan (sempre contenuta nel progetto), ‘The Times, They Are A’ Changin’, quasi un inno al cambiamento e alla rivolta: i tempi sembrano maturi.
Un tripudio di applausi accompagna l’uscita di scena del sestetto, che non si fa attendere troppo per il rituale rientro sul palco.
L’ultimo saluto è la camaleontica ‘Chameleon’. Non poteva finire diversamente e il pubblico, ormai quasi completamente riversato ai piedi del palco, balla soddisfatto fino all’ultima nota dei dieci minuti di questo accattivante e sanguigno funk.
Lina Rignanese
lunedì 28 giugno 2010
UN RESPIRO PRESO BENE ED È “COMING OUT”
“Coming out” di Pupa Pippia, ed. Nutrimenti, pp. 112, euro 12
Il coming out è una liberazione. Una rinascita. Un parto. Quasi sempre preceduto da depressione, malessere, voglia di sprofondare, annullamento. Poi, però, la natura è più forte e ti accompagna verso la luce. Lo gridi al mondo. Lo sussurri agli amici. Lo affermi ai genitori: “Sono gay.”
E qui, un sospiro di sollievo. Era solo una frase. Un respiro preso bene. Un attimo che ha scacciato tutta l’ombra che avevi vissuto fino ad allora. È di questo che parla Pupa Pippia nel suo libro d’esordio “Coming out” (Nutrimenti/2010), ovvero, venticinque storie per uscire dall’armadio.
Sono storie in cui è raccontato il momento fatidico del venir fuori. Ogni testimonianza ha la sua carica, le sue paure, i pregiudizi, le vergogne, i timori che precedono quell’attimo. Già perché ci vuole tanta forza per compiere quel passo. E come si legge nel testo: “Fare coming out richiede nervi d’acciaio, sangue freddo e una dose di coraggio che i marines al confronto sono femminucce delicate e fragili tutte dedite a orli, pizzi, merletti e allo scambio di informazioni utili sull’ultimo cartamodello appena uscito in edicola”.
La scrittrice fa parlare i protagonisti, lei funge da mezzo. Quello che conta sono le storie di vita che l'autrice ha assorbito durante gli anni passati dietro il bancone del pub “gay friendly” che gestiva al centro di Roma. Qui ha ascoltato tante voci, ha visto piangere occhi, ridere tante bocche. Ognuno alle prese con il proprio “demone”, prima affrontato, poi battuto. E il coming out è proprio la vittoria su questo “demone” fatto di pregiudizi, vergogne, timidezze, angosce. Non che il dichiararsi porti via tutto questo, ma è un passo avanti, è l’uscire allo scoperto, il non dover nascondersi dietro false esistenze, falsi amori. È la capacità di amarsi e accettare la propria natura, innanzitutto, poi il bisogno di comunicarlo agli altri.
Lina Rignanese
martedì 22 giugno 2010
Delirando "Nella Capitale delle Meraviglie" con "HOGRE&Psycholab"
Sulle tracce del Bianconiglio che ha rapinato una banca e ucciso l’ostaggio. Non sto delirando per aver assaggiato un pezzo di qualche funghetto allucinogeno datomi dal bizzarro Brucaliffo. Tutto potrebbe essere, in realtà, o forse no. E Alice? Lei s’imbatte nel Bianconiglio e condividendo una parte del bottino lo segue “Nella Capitale delle Meraviglie”: Roma.
Roma dagli inizi di giugno ha visto le strade tra il Pigneto e San Lorenzo riempirsi di stencil e poster firmati “HOGRE&Psycholab” e animarsi dei personaggi della favola di Lewis Carroll – in versione pulp, si sa, siamo nel XXI secolo dopo Cristo…
Dal 5 giugno, il duo composto dallo Street artist e dal grafico-fotografo sono on line con un sito (www.nellacapitaledellemeraviglie.com) che apre le porte del web alle strade romane. Un modo per conoscere uno ad uno i personaggi carrolliani attraverso un gioco di svelamento, fino a giungere a profili psichedelici e codici da riutilizzare. Un video d’animazione fa da collante e da spiegazione alla storia che ci viene ri-raccontata.
Una trovata senza dubbio originale, un modo per avvicinare all’arte di strada e per parlare di crisi d’identità. E in crisi sono tutti i personaggi, compresi gli autori, anonimi. Il Brucaliffo, infatti, diventa un verde essere che vive nell’irrealtà, causa e soluzione al tempo stesso di ogni problema. Lo Stregatto è un ciccione in canottiera sprofondato sulla poltrona, con in mano il telecomando e l’aria malsana di chi da troppo tempo fissa una TV spazzatura. Alice è sempre più svampita e persa, fuma e diventa complice del Bianconiglio, tutt’altro che sornione. Il Cappellaio matto è un pirandelliano “uno, nessuno, centomila”. La Regina buca lo schermo con la sua imbronciata e accattivante faccia, un misto tra la candidata elettorale e Wanda Osiris.
E come dice quel saggio fumatore di narghilè e di sostanze psicotrope del Brucaliffo: “Il tutto è la somma delle parti, più la loro assenza, più qualcos’altro”. Se siamo degli amanti dell’illusione e dell’irreale, non ci resta che unirci a quel “tutto” e cercare in esso una stupefacente via di fuga tra le “meraviglie”.
Lina Rignanese
lunedì 21 giugno 2010
Il cantautorato rock de "Il teatro degli orrori"
Una serata uggiosa. Da felpa e foulard. Villa Ada appare come un nordico boschetto umido e fresco. Il popolo de ‘Il Teatro degli Orrori’ non si è fatto scoraggiare. D’altronde, sfidare il maltempo fa parte del carattere rock/punk di ognuno dei presenti… La gente intorno a me beve birra e fuma sigarette arrotolate. Ne vorrei una – di birra e di sigarette – ma attenderò di superare la convalescenza. Aprono la serata i quattro ‘Luminal’, band romana dalla frontwoman deliziosa con il ciuffo svolazzante, la voce incantevole e la chitarra tra le mani. Brani new-wave dall’album ‘Canzoni di Tattica e Disciplina’ (Black Fading/Fridge - 2009), che ben si accosta a quanto ci sarà nel proseguo del live.
Un po’ di suspence ed eccoli sul palco, avvolti nel più sulfureo dei fumogeni: Pierpaolo Capovilla (voce e “deus ex machina”), Francesco Valente (batteria), Gionata Mirai (chitarra), Tommaso Mantelli (basso) e Nicola Manzan (chitarra e violino). Il rock all’italiana oggi ha questo nome artaudiano e suona noise/punk con testi lirici, irriverenti, arrabbiati, di rivolta, malinconici, di vita e di morte. Sempre avvolti dal velo del Romanticismo. Pierpaolo è un vero talento di comunicazione, recita le sue canzoni, le mima, le vive su quel corpo da ragazzo del ’68. Impetuoso, effervescente, tiene il microfono tra le mani come una parte di sé, a volte come un pugnale. Si getta sulla folla, che lo fa fluttuare sui palmi, indispettendo la security, seriosa, che lo riporta affannato sul palco.
La batteria impazza in cambi di ritmo hardcore, veloce, feroce, colpisce. Il basso punkeggia follemente. Gionata è un virtuoso e Manzan riesce a creare intimistiche atmosfere con il violino.
Il ‘Teatro’ ha ripercorso la strada finora affrontata in “L’Impero delle Tenebre” (La Tempesta-2007) e “A Sangue Freddo” (La Tempesta-2009). Questo è rock’n’roll, ragazzi! Come non se ne sentiva da anni in Italia.
Lina Rignanese
domenica 13 giugno 2010
M.I.A., Gavras e il videoclip della discordia: "Born Free"
Violenti militari contro civili. Ragazzi con la kefiah che lanciano molotov sui blindati. Stato contro dissidenti. Sri Lanka vs le rosse “Tigri Tamil”. Rimandi alle carceri-lager dell’Arizona, Guantanamo, Abu Ghraib. Scritte indipendentiste come “Our day will come” (storico slogan dell’IRA: “verrà il nostro giorno”). La morte di un bambino freddato alla tempia da un soldato. Fuggitivi spappolati da mine antiuomo. Non è un bollettino di guerra, ma il video della canzone “Born Free” di M.I.A. (alias Mathangi “Maya” Arulpragasam) girato da Romain Gavras, figlio di Constantin Costa Gavras e compreso nel terzo album della rapper londinese: “/\/\/\Y/\” (XL Recordings), (si legga “Maya”), in uscita il prossimo 13 luglio.
Il brano non era destinato come singolo (quello ufficiale è “XXXO” uscito l’11 maggio), ma l’autrice, contrariamente alla casa discografica, aveva deciso di farlo girare per mano del regista francese, avvezzo a polemiche suscitate per i suoi lavori, come nel caso del precedente clip di “Strees” dei Justice, una sorta di citazione de “I Guerrieri della Notte” ambientata nella banlieue parigina.
La violenza del video, lo splatter allucinato ha portato il clip (messo in rete il 26 aprile scorso) ad essere censurato su youtube e su MTV ed è costato all’autrice feroci accuse di essere una terrorista.
M.I.A., di origini Tamil, ha sempre mostrato una accesa sensibilità verso la guerra civile che si sta consumando tra le acque del Bengala. Ha più volte riconosciuto il governo dello Sri Lanka come colpevole del genocidio della popolazione di minoranza.
La trentaquattrenne artista, oltre ad essere rapper, autrice di canzoni, produttrice, fotografa, graphic-designer e visual artist, è, infatti, anche un’accanita attivista politica e ha scritto canzoni impegnate su tematiche scottanti come l’immigrazione e i rifugiati politici, oppure sulle guerre spesso taciute come quelle in Darfur, Angola, Trinidad, Liberia.
La sua musica, da lei stessa definita come “altro”, è un insieme di rock-punk, hip hop, campionature elettroniche, suoni registrati, funk e influenze ethno-music. Uno stile che va dai Clash o dai Suicide (la campionatura del brano “Born Free” è una citazione del brano dei Suicide “Ghost Rider”) ai battiti giamaicani, ai ritmi indiani, alle percussioni africane.
Musica da ballare, ma anche da riflettere. Impegno e tenacia per la giovane artista londinese.
Lina Rignanese
M.I.A, Born Free from ROMAIN-GAVRAS on Vimeo.
giovedì 10 giugno 2010
“FILIPPO SCÒZZARI E L’INSONNIA OCCIDENTALE”
Un libro sull’inquietudine che crea insonnia. “Filippo Scòzzari e l’insonnia occidentale” (Coniglio Editore/2010) è un insieme di racconti che l’(ex?) autore di fumetti bolognese dice “siano nati dal bisogno di interrogare se stesso su cosa non lo facesse dormire”. Si tratta di pagine e pagine ritrovate dentro gli scatoloni della mansarda, che Scòzzari riprende in mano, rispolvera, riscrivere attraverso le fil rouge della “giustificazione socio-politica” – dice beffardo l’autore, di buttar via dalla pancia tutte le quotidiane nefandezze che lo rendono furioso. È un pamphlet pieno zeppo di nemici da insultare, prendere a calci, deridere scimmiottandone il linguaggio, di fantasticherie da “arcivernice” su riviste porno. Tutto ciò che crea quei crampi e quelle macchiette mentali che di notte proprio non fanno dormire. È un testo irriverente, scritto con il coltello affilato e il ghigno sarcastico.
Si va dalla critica dell’uso della lingua italiana da parte dei giovani, che definisce “un incrocio tra i carciofi e le amebe”, tanto per andare sul sottile. Alle invettive contro il consumismo più forsennato, contro la stupidità della gente, contro la mala sanità e l’affaristica aziendalizzazione degli ospedali, contro l’Argentina dei Colonnelli, contro gli odierni miti farlocchi. È un assalto su più fronti, a differenza del precedente “XXX – Racconti Porno” (Coniglio Editore/2008)
“È tutto una bestemmia!” – afferma Scòzzari – “è un libro liberatorio, un’arma”, che definisce “vigliacca”, “nel senso che punta il dito, aguzza la lingua contro qualcuno, ma questi, però, non può controbattere”.
Dopo gli anni Settanta- Ottanta- Novanta passati a fare fumetti inventandosi, tra l’altro, insieme a Stefano Tamburini, Andrea Pazienza, Tanino Liberatore, Massimo Mattioli, riviste fondamentali come “Cannibale” e “Frigidaire”, Filippo Scòzzari lascia la matita per la tastiera del computer, che diventa magicamente “il mandante della sua scrittura”. Afferma, infatti, l’autore: “dopo ore e ore passate davanti allo schermo blu, il monitor è come se mi dicesse: “ma cosa fai qui davanti? Esci, guarda il mondo”. “E così invece di uscire sono entrato dentro me e mi sono interrogato sui doloroni, dolorini, sulle tare che mi danno insonnia”.
Lina Rignanese
mercoledì 9 giugno 2010
28 GIORNI DOPO
di Emiliano Sportelli
La follia e la brama di potere sono peculiarità della natura umana, caratteristiche queste che accomunano l’uomo del nostro tempo e che spingono la sua mente e la sua stessa indole verso confini che, una volta varcati, risultano essere il punto di non ritorno, un baratro buio dove ormai la realtà è stata dettata.
Danny Boyle ci presenta in “28 giorni dopo” proprio questa realtà appena accennata; il film ruota attorno alla diffusione di un potente virus della rabbia che, iniettato in delle scimmie, è riuscito a diffondersi tramite contatto fisico negli esseri umani. Protagonista del film è un ragazzo: Jim (Cillian Murphy) che, svegliatosi dal coma dopo 28 giorni, scopre una Londra praticamente deserta e disabitata; da lì in avanti, comincerà la sua disperata ricerca della salvezza insieme ad altri sopravvissuti, cercando in tutti i modi di riuscire a trovare un luogo sicuro lontano dal virus.
La pellicola di Boyle ripercorre il classico “cammino” del film post-apocalittico: la diffusione del virus, il contagio di massa, l’alleanza tra i superstiti e la loro lotta per la sopravvivenza. Lo scenario presentato ci fa subito pensare ai lavori dell’eterno George A. Romero (il papà degli zombie) che, con invidiabile maestria, è riuscito a renderci partecipi di possibili universi decadenti. Chiari sono infatti i riferimenti e gli omaggi che Boyle ha voluto rendere a Romero: gli infetti che si vedono nel film, altro non sono che una sfaccettatura dei classici zombie visti in lavori quali “The night of the living dead” o “Down of the dead”.
Così come detto di Romero, anche in “28 giorni dopo” il regista ha messo lo spettatore di fronte alla possibilità di immaginare un’orribile sfaccettatura della realtà, mettendoci poi nella condizione di chiederci: “Come sarebbe il mondo se…”
Risulta poi chiaro il motivo e la causa di questa decadenza: l’uomo. Come spesso accade infatti i mali che affliggono l’essere umano altro non sono che lo specchio del proprio essere; cercare, in questo contesto, un colpevole diverso dall’uomo stesso sarebbe una ricerca vana ed inutile.
Diretto nel 2002, “28 giorni dopo” prende di mira anche la voglia di controllare, dominare e conquistare insita nel genere umano; queste sue ambizioni sono armi a doppio taglio che si ripercuotono contro e il tentativo di voler soddisfare queste assurde pretese, diventa il problema di fondo del male che l’uomo compie verso sé stesso.
La follia e la brama di potere sono peculiarità della natura umana, caratteristiche queste che accomunano l’uomo del nostro tempo e che spingono la sua mente e la sua stessa indole verso confini che, una volta varcati, risultano essere il punto di non ritorno, un baratro buio dove ormai la realtà è stata dettata.
Danny Boyle ci presenta in “28 giorni dopo” proprio questa realtà appena accennata; il film ruota attorno alla diffusione di un potente virus della rabbia che, iniettato in delle scimmie, è riuscito a diffondersi tramite contatto fisico negli esseri umani. Protagonista del film è un ragazzo: Jim (Cillian Murphy) che, svegliatosi dal coma dopo 28 giorni, scopre una Londra praticamente deserta e disabitata; da lì in avanti, comincerà la sua disperata ricerca della salvezza insieme ad altri sopravvissuti, cercando in tutti i modi di riuscire a trovare un luogo sicuro lontano dal virus.
La pellicola di Boyle ripercorre il classico “cammino” del film post-apocalittico: la diffusione del virus, il contagio di massa, l’alleanza tra i superstiti e la loro lotta per la sopravvivenza. Lo scenario presentato ci fa subito pensare ai lavori dell’eterno George A. Romero (il papà degli zombie) che, con invidiabile maestria, è riuscito a renderci partecipi di possibili universi decadenti. Chiari sono infatti i riferimenti e gli omaggi che Boyle ha voluto rendere a Romero: gli infetti che si vedono nel film, altro non sono che una sfaccettatura dei classici zombie visti in lavori quali “The night of the living dead” o “Down of the dead”.
Così come detto di Romero, anche in “28 giorni dopo” il regista ha messo lo spettatore di fronte alla possibilità di immaginare un’orribile sfaccettatura della realtà, mettendoci poi nella condizione di chiederci: “Come sarebbe il mondo se…”
Risulta poi chiaro il motivo e la causa di questa decadenza: l’uomo. Come spesso accade infatti i mali che affliggono l’essere umano altro non sono che lo specchio del proprio essere; cercare, in questo contesto, un colpevole diverso dall’uomo stesso sarebbe una ricerca vana ed inutile.
Diretto nel 2002, “28 giorni dopo” prende di mira anche la voglia di controllare, dominare e conquistare insita nel genere umano; queste sue ambizioni sono armi a doppio taglio che si ripercuotono contro e il tentativo di voler soddisfare queste assurde pretese, diventa il problema di fondo del male che l’uomo compie verso sé stesso.
martedì 8 giugno 2010
Sourya e Nelson al Festival di Musica "Villa Aperta"
Si è concluso con due gruppi francesi emergenti il Festival della Musica “Villa aperta” presso Villa Medici. L’etichetta ‘Industry of Cool’ ha proposto due nomi che stanno facendo parlare molto di sé, non solo in Francia. Stiamo parlando dei ‘Sourya’ e dei ‘Nelson’. I primi sono stati definiti da Alan McGee (primo produttore degli Oasis ed ex-manager dei Libertines) come gli autori di un “nuovo rock francese”. I secondi sono stati annunciati dalla rivista britannica NME come “cento volte meglio delle tante band influenzate dai Libertines che stanno pullulando a Parigi in questo periodo”.
I Sourya aprono la serata, passando dalle ballads più melodiche all’elettronica da ballare. E il pubblico balla. Come, d’altronde, rimanere inermi davanti a due synth, due tastiere e una drum pad? Divertenti, senza dubbio. Ricordano i Depeche Mode delle origini (senza la profondità della voce di Dave Gahan, però). Meno appassionanti, invece, le ballate voce e chitarra. Il gruppo è composto da Sou Voravong (voce, chitarra, synth), Arnaud Colinart (drum pad), Rudy Phounpadith (basso, tastiere) e Julien Coulon (synth, tastiere e chitarra).
Cambio di palco, ed è la volta dei Nelson, ovvero Gregory Kowalski (voce, chitarra, tastiere), JB Devay (basso, tastiere e chitarra), David Nichols (chitarra) e Thomas Pirot (batteria). I quattro ragazzi di Parigi mantengono alta la serata, così il pubblico continua a danzare su questo rock melodico amplificato a dovere. Due band di qualità che si spera continueranno a far parlare di sé anche nel nostro Paese, ormai sempre più martellato dai soliti noti e mortificato da “emergenti” di reality. Fatevi sotto, etichette indipendenti italiane! Fatevi sotto, emergenti italiani! Nel sottoscala dell’underground c’è tanta buona musica, apriamo i battenti!
Lina Rignanese
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