mercoledì 31 marzo 2010

Un Dolore Rotondo e Perfetto


















Il Dolore perfetto è il titolo del romanzo di Ugo Riccarelli, edito da Mondadori, che nel 2004 vince il Premio Strega. Un romanzo capace di cogliere con semplicità ed eleganza tutti i dettagli del vivere umano.

Alla fine dell’Ottocento un uomo parte da una città del Sud, una Sapri ancora fresca delle utopie e delle ferite del Risorgimento, per raggiungere Colle, un paesino toscano. E’ il Maestro, giovane anarchico che,in questo luogo insieme reale e fiabesco, decide di unire la propria vita a quella della vedova Bartoli. Dal loro amore nascono Ideale, Mikhail, Libertà e Cafiero: figli dai nomi carichi di speranze che dal padre, costretto all’esilio, erediteranno i sogni e la fede nell’utopia.
A Colle vivono anche i Bertorelli, ricchi commercianti di maiali che da generazioni si chiamano come gli eroi omerici:Ulisse, Achille, Euridice, Elena.
Le due famiglie rappresentano due anime contrapposte del nostro Paese: una un po’ più idealista e sognatrice, l’altra più concreta, sanguigna.
Queste due famiglie saranno destinate ad unirsi nelle pagine di un romanzo storico che racconta nell’arco di un secolo, la vita, gli amori, le nascite, le partenze, i sogni e soprattutto il dolore dei protagonisti e più in generale della condizione umana, un dolore rotondo e perfetto.
Nelle parole di Riccarelli c’è la memoria dei racconti delle nostre famiglie, dei nostri nonni, di quella Storia italiana che non abbiamo vissuto, di quel modo di vivere, di parlare, di pensare che abbiamo conosciuto solo per induzione generazionale.
Lo stesso scrittore interrogato riguardo il significato della parola “dolore” afferma: “Per chiarire gli equivoci, che spesso sorgono negli incontri con il pubblico, l’aggettivo «perfetto» non sta ad indicare che quel dolore sia il migliore. È una sorta di antinomia, che esiste anche nella dottrina cristiana: il pentimento assoluto che porta alla perfezione. Non si tratta di questo: la mia idea è più vicina semmai a qualcosa di gaddiano. È la consapevolezza che la sofferenza fa parte della condizione umana, così come la ricerca della felicità. Il fatto è che questo dolore, che non è necessariamente fisico, ma è più spesso un dolore interiore, un’inadeguatezza, la sensazione di qualcosa che si perde, raggiunge un culmine, e dà ai protagonisti del libro la forza per andare avanti nella vita. È un dolore che cambia e che offre una possibilità di conoscenza”.
Nel 2009 esce “Comallamore” ultimo lavoro di Ugo Riccarelli, scrittore che davvero vale la pena conoscere se si vuole assaporare una narrativa “rotonda e perfetta”.

Loreta Ragone

martedì 30 marzo 2010

"Sten&Lex" - DALLE STRADE ALLE GALLERIE -


















La Street Art irrompe nelle Gallerie. Dopo Banksy, e le recenti quotazioni milionarie a livello internazionale per i suoi lavori di “guerrilla art”, anche la scena artistica italiana apre i battenti a due street artists: Sten&Lex. La mostra sarà esposta presso la galleria “CO2 contemporary art” fino al 30 aprile e rappresenta la loro prima personale ufficiale sotto un unico tag. Oltre alla provenienza romana, nulla si sa dell’identità della coppia rimasta rigorosamente anonima, condizione fondamentale per chi fa arte illegale.
I due artisti sono gli ideatori della cosiddetta “Hole School”, una tecnica dello stencil che utilizza la carta velina più resistente sui muri e la mezza-tinta ottenuta attraverso immagini composte da punti, pixel e linee che conferiscono una visione a più strati a seconda della distanza da cui si osservano: da vicino l’immagine appare astratta, allontanandosene invece si configura in tutta la sua interezza ed appare sempre più realistica e viva.


Proprio per queste innovazioni nel 2008 furono invitati a Londra da Banksy in persona, che aveva affittato un tunnel di Waterloo Station per uno show di due giorni, il “Can’s Festival”, dove i più grandi artisti di strada si esibivano dal vivo: “La Santa” di Sten&Lex fu dipinta a fianco al “Buddha” dell'artista di Bristol davanti a 56 mila persone. Da quell’episodio anche le quotazioni dei loro lavori sono schizzate vorticosamente alle stelle.
Gli inediti presenti in galleria partono dallo studio del soggetto recuperato dagli archivi fotografici storici dell’Italia degli anni ’60 e ’70, e rappresentano una tappa successiva nel work in progress della coppia. La nuova tecnica utilizzata è quella dello “Stencil-Poster”, che si sviluppa in tre passaggi fondamentali: parte da una rielaborazione dello stencil applicata su poster, in seguito sintetizzata nella pratica del decollage alla Jaques Villeglé o alla Mimmo Rotella, una volta essiccata la colla, dando vita all’opera finale e configurandole un segno tanto primitivo quanto invecchiato. Il segno del tempo su queste figure diventa un passaggio obbligato. Ogni opera di strada (sebbene qui in veste da casa) deve deteriorarsi, invecchiare, scomparire, più velocemente di ogni altra forma d’arte. È una questione di supporto e di intemperie. «Sono tracce che vivono per morire».



Lina Rignanese

domenica 28 marzo 2010

IL FOTOGRAFO e le storie di guerra












Il fotografo
Emmanuel Guibert – Didier Lefèvre – Frédéric Lemercier
Prefazione di Adriano Sofri
Postfazione di Sergio Cecchini (Medici Senza Frontiere Italia)
A colori
280 pagine
Coconino 2010

È edito da “Coconino Press” il “Il Fotografo”, imperdibile per gli amanti del fumetto e della buona lettura. Opera a sei mani con fotografie di Didier Lefèvre, disegni di Emmanuel Guibert, e realizzazione grafica di Frédéric Lemercier, finalmente in Italia in versione integrale, comprendente i tre volumi già pubblicati in Francia dal 2003 al 2006. Il libro che rientra nel genere del “graphic journalism” sperimenta il connubio tra vignette e fotografie, così il tratto realistico e sintetico dei disegni, (una sorta di “linea chiara” aggiornata sulla tecnica fotografica) convive, supporta ed integra il reportage fotografico.


Nelle quasi 300 pagine viene raccontato il viaggio che Didier Lefèvre (morto d’infarto nel 2007) ha compiuto in Afghanistan nel 1986, durante la guerra tra sovietici e Moudjahidin, al seguito di una spedizione di “Medici senza Frontiere”; l’obiettivo della missione era individuare un sito dove allestire un ospedale. L’autore non compare mai nella struttura narrativa del libro, rimane del tutto assente, a parlare infatti è Didier attraverso la sua esperienza realmente vissuta. Guibert si limita a sintetizzare senza tradire la soggettività e le percezioni dell’amico. Ciò che, infatti, sta alla base del lavoro documentaristico dell’autore francese è proprio l’attenzione verso la memoria dell’uomo e con essa dell’umanità. È inevitabile non strizzare l’occhio all’indispensabile “Maus” di Art Spiegelman. Già in precedenza l’autore si era cimentato nel “fumetto di testimonianza” con il libro “La Guerra di Alan” (3 volumi, anch’essi editi per “Coconino Press”), nato dopo lunghi anni di incontri e di scambi di missive con l’amico Alan Ingram Cope, ex soldato americano che sul volgere della seconda guerra mondiale combatté sul fronte europeo. In entrambi questi lavori la cornice è sempre la guerra, ma il vero tema resta la memoria, l’esperienza e, soprattutto, la qualità dell’esistenza di chi ha saputo vivere una vita per illuminare gli altri – un amico o una comunità – con la forza del proprio esserci. In conclusione, il nodo centrale della ricerca di Guibert la si può riassumere con le sue stesse parole: “L’essenziale è che delle persone possano dire qualcosa dell’esperienza umana, e che questo rimanga”.

Lina Rignanese

sabato 27 marzo 2010

The elephant man

di Emiliano Sportelli

















Il tema del diverso è sempre stato un punto di riferimento per chi fa cinema. La ricerca di qualcosa che è lontana dalla nostra concezione di normalità ha da sempre attratto il pubblico; fa parte dell’essere umano il chiedersi se oltre il nostro orizzonte visivo ci sia qualcosa che ci sfugge, qualcosa che deve essere capito e che è portatore di bei sentimenti. È lecito farsi queste domande, la voglia di sapere è insita nella natura stessa dell’uomo. Ma a volte accade che questa voglia di conoscenza cada in qualcosa che non si era calcolato all’inizio e si trasformi in una semplice ricerca di vedere un ”altro” noi; lo sguardo allora si sterilizza e si fa vano portando lo spettatore ad utilizzare solo gli occhi per riuscire a vedere.

Questo è ciò che capita a chiunque posi lo sguardo su John Merrick (John Hurt) un ventunenne che dalla nascita è affetto da mali incurabili: il suo corpo è ricoperto da escrescenze tumorali, il cranio sproporzionato rispetto al resto del corpo e la colonna vertebrale deformata; a causa del suo aspetto esteriore è stato ribattezzato “l’uomo elefante”.
Dapprima schiavo del suo padrone che lo esibisce come fenomeno da baraccone in un circo ambulante, poi accolto in un ospedale londinese sotto la tutela del dottor Frederick Treves (Anthony Hopkins), John vedrà cambiare la sua esistenza sentendosi parte integrante di quel mondo che per troppo tempo ha solo visto e mai vissuto.
In verità l’idea di una vita comune sarà per John soltanto un’illusione; lo stesso dottore infatti, anche se nutre per lui un sincero affetto, è più attratto da Merrick in quanto caso clinico da studiare.
Questo porta a chiederci se esista davvero una differenza tra la violenza dell’ex padrone di John e la curiosità del dottore; entrambi mirano verso la ricerca di un profitto: il denaro per il primo, la fama e prestigio per il secondo.

Ecco allora che il tema del “diverso” diventa di grande attualità in questo contesto; il cercare l’altro per trovare poi noi stessi porta il dottore a scavare nell’animo di quella creatura, cercando non più di vederlo come un caso da curare, ma come un uomo dall’animo gentile e profondo intrappolato in un mondo che non riesce a vederlo veramente.
Spesso le cose sono diverse da quelle che appaiono, il tema del film è senza dubbio questo; la mostruosità esteriore di John Merrick fa da specchio al suo buon cuore e porta lo spettatore a confrontarsi con un nuovo “io” il quale riesce a capire il vero significato della parola bellezza.

Il “visionario” David Lynch ci consegna uno dei film più toccanti e profondi di sempre, un lavoro che ci lascia perplessi di fronte alla leggerezza di alcuni nei confronti di altri; un film sulla dignità e nobiltà d’animo.
La mano sapiente del regista descrive con grande accuratezza questo panorama, facendo sprofondare lo spettatore in una realtà troppo spesso sottovalutata o a volte dimenticata. L’idea di girare il film interamente in bianco e nero ricalca alla perfezione lo scenario della Londra vittoriana tanto ben raffigurato dal regista. Una pellicola per capire il senso stesso della bontà che con John Merrick raggiunge la più alta espressione possibile.

giovedì 18 marzo 2010

Da BILBOLBUL in poi









di Lina Rignanese

(da il quotidiano "Il Paese Nuovo", 18mar2010)

“Bilbolbul”, il Festival Internazionale del Fumetto svoltosi a Bologna dal 4 al 7 marzo (con una lunga coda di esposizioni che si protrarrà sino ad aprile), è diventato ormai un importante punto d’incontro per fumettisti, case editrici, riviste, appassionati, critici e giornalisti. Giunto alla IV edizione, è riuscito a creare una forte complicità tra pubblico e autori, infatti, lunghe e partecipate sono state le dedicaces, momenti di caccia al disegnino firmato trasformati in interessanti incontri tra autore e pubblico.
Quest’anno la retrospettiva è stata dedicata a David B., diminutivo di David Beauchard. Sono diversi i motivi che fanno dell’autore francese uno dei più grandi narratori a fumetti contemporanei. Conta sicuramente il ruolo storico che ha avuto nella fondazione nel 1990 dell’ “Association”, tra le più importanti ed innovative case editrici europee di fumetto indipendenti, ma conta ancor più la personalità del suo stile, raffinatissimo nella sua accentuata stilizzazione delle figure e nel gioco compositivo dei bianchi e neri. La sua opera ha contribuito ad affermare il filone autobiografico nel fumetto contemporaneo, anche se il suo approccio non rischia mai di scadere nel puro racconto minimale e quotidiano né nella rappresentazione narcisistica di sé, ma diventa invece strumento per indagare il rapporto tra individuo e Storia, tra realtà e finzione. Numerosi i premi e i riconoscimenti attribuitigli, a livello europeo e mondiale, tra cui il premio come miglior libro per “Il grande male” al Festival di Angoulême e quello come migliore autore agli Ignatz Awards. Al Museo Civico Archeologico di Bologna sarà esposta fino al 18 aprile la sua prima antologica italiana, “Complotti notturni”.
Nello stesso museo e nello stesso periodo sarà possibile visitare la personale dedicata ad un grande fumettista italiano, Paolo Bacilieri, autore in grado di spaziare dal fumetto di ricerca alla dimensione del seriale ma sempre affermando la propria traccia stilistica, che mescola una dimensione realistica, quasi scultorea, a un approccio grottesco e underground. Soprattutto nelle avventure dell’alter ego Zeno Porno, attraverso storie in bilico tra il metaforico e un fantastico quotidiano, Bacilieri ci avverte sulla precarietà e la complessità del vivere contemporaneo. Per le sue opere, pubblicate in Francia, Belgio, Spagna, Germania, Danimarca, Olanda, Brasile e Stati Uniti, ha ricevuto numerosi premi, tra cui quello come miglior autore al salone di Lucca Comics nel 2006.
Molto divertente l’incontro con Liniers, pseudonimo di Riccardo Siri, argentino e autore di “Macanudo” (cioè “Fantastico” in slang castellano), un autore sui generis, gran divagatore e paroliere dotato di una spiccata verve umoristica. Caratteristiche che si vedono nel suo lavoro, in cui l’autore recupera l’innocenza sviluppando ogni possibilità nell’osservare il mondo, le persone, le cose. Spesso si tratta di uno sguardo surreale, spiazzante, insolito. «Con il tempo si diventa più cinici, dobbiamo cercare un pizzico di innocenza perduta», racconta l’autore. Lo sguardo di Liniers è adulto, ma ripulito da pregiudizi. Gli piace osservare le piccole cose che capitano a tutti con un gusto esistenzialista e spesso malinconico, venato di una poesia che rimanda a Chaplin spesso citato come ispiratore della sua filosofia. All’Aemilia Hotel, non solo ci sarà fino al 28 marzo una mostra delle tavole originali e dei disegni di Liniers, ma sarà possibile visitare una personalizzata “stanza d’artista” realizzata dall’autore durante la sua permanenza, un’esperienza artistica inaugurale di un progetto che intende proseguire con il coinvolgimento di altri artisti di linguaggi diversi nei prossimi anni.
Degno di nota il lavoro del duo Emmanuel Guibert e Didier Lefèvre. Guibert appartiene a quella generazione di autori che negli anni Novanta hanno rinnovato il panorama editoriale d’Oltralpe. Artista curioso ed eclettico, si è misurato con progetti differenti collaborando sia come disegnatore sia come sceneggiatore con David B., Joan Sfar e Marc Boutavant. Con alcune delle sue ultime opere ha approfondito temi storici e affrontato una personale forma di reportage capace di far interagire con successo il fumetto e la fotografia. La mostra è inedita in Italia, e si concentra su “Il fotografo” (ristampato da Coconino Press in occasione di Bilbolbul), capolavoro che si basa sull’esperienza in Afghanistan negli anni della guerra russo-afgana, del fotogiornalista Didier Lefèvre, attivo al seguito della spedizione di Medici Senza Frontiere. L’opera è una particolare forma di graphic journalism, dove il disegnatore con la continua supervisione del fotografo, riesce a rappresentare il vissuto attraverso una sceneggiatura che integra le foto nella narrazione, e si fa forte della profonda intesa tra i due autori, amici da sempre. Questa mostra sarà aperta al pubblico fino al 12 aprile presso la Cineteca di Bologna.
Altro lavoro a quattro mani, presentato in questi giorni, “La zona del silenzio” di Alessio Spataro e Checchino Antonini, questi giornalista di “Liberazione”, autore di un libro reportage sul caso di Federico Aldrovandi, il giovane ferrarese ucciso dalla polizia nel 2005, da cui il fumettista ha ricavato la sceneggiatura e i disegni.
Tra gli altri autori presenti al Festival, occorre ricordare Marco Ficarra, Marina Girardi, Koren Shadmi, Marc Boutavant, Hannes Pasqualini, Pierre La Police, Joanna Hellgren, Giacomo Monti, Lorenzo Mattotti. La vivace aria respirata durante i giorni del festival è dovuta anche alla bella realtà bolognese in campo di fumetto, che conta all’attivo una decina di case editrici, un centinaio di artisti, tra i quali molti giovani, una settantina di aziende medie e piccole, realtà di multiservice editoriale e tipografie altamente specializzate. Che il capoluogo emiliano sia la capitale italiana della cultura indipendente lo dimostrano sempre di più i fatti e l’alto livello degli eventi organizzati.

domenica 14 marzo 2010

"INTRODUB"

















Musica e sociale. Il connubio nasce spontaneo se in una serata dedicata alle morti sul lavoro si chiamano i 24grana a riscaldare gli animi del centro sociale Acrobax (ex-cinodromo). Ad aprire la serata è la cantautrice romana Giulia Anania, accompagnata sul palco dal chitarrista Max Trani e dal batterista Filippo Schininà. Voce rotonda e graffiante, con sonorità che si rifanno al folk-rock indipendente americano ed ai cantautori italiani. Attualmente è in fase di ultimazione il suo album d’esordio con la produzione artistica di Daniele Sinigallia e Filippo Gatti. Una promessa.
Il live dei 24Grana inizia con alcuni pezzi dell’ultimo album “Ghostwriters” (2008), lavoro con cui la band vince il premio come migliore album indie-rock al Meeting delle Etichette Indipendenti (MEI) del 2008, oltre al premio PIMI come miglior gruppo. L’attuale formazione vede Francesco Di Bella (chitarra e voce), Armando Cotugno (basso), Renato Minale (batteria), Giuseppe Fontanella (chitarra). Il nome si riferisce alla moneta in uso nel regno di Ferdinando d’Aragona, moneta povera, a sottolineare il legame tanto con la tradizione partenopea quanto la vicinanza a una cultura che al denaro dà poco valore. La band napoletana si forma nella metà degli anni’90, un periodo di fermento sociale e culturale che trova la sua dimensione musicale più propizia nelle posse e nel dub. Caratterizzati da uno stile variopinto che va dal rock-new wave al psychedelic-blues, dal dub al reggae, passando dal pop, e tenuti insieme dal filo rosso dei testi poetici e intimisti. Una carriera prolifica con sei album da studio e tre live, caratterizzati da una pulsione al cambiamento e dal rifiuto a presentarsi uguali a se stessi. Sonorità dub nel loro primo album “Loop” (1997). Un rock scuro, dai toni aspri e rabbiosi in “Metaversus” (1999), album che la rivista “Il Mucchio Selvaggio” ha annoverato tra i 100 dischi più importanti della storia italiana di sempre. In “K-Album” (2001) i tonisi pacano, accentuando l’aspetto melodico e malinconico dei brani. “Underpop” (2003), nel quale molti testi sono in italiano, è il loro album più pop. “Ghostwriters” (2008) lascia alle spalle l’irruenza degli anni giovanili, e il sound si fa più calmo, avvolgente e passionale. Volendo inquadrare i 24Grana, occorrerebbe pensare al “melting-pop”, ovvero all’idea anglosassone di commistione e integrazione tra spinte culturali differenti.

Lina Rignanese

sabato 13 marzo 2010

Il seme della follia

di Emiliano Sportelli












Spesso il male scaturisce da eventi o cose che non sempre hanno a che vedere con esso, elementi di pazzia che ci portano in una realtà estranea a noi, ma spesso, per certi aspetti, voluta. Il confine che c’è tra il reale e il fantastico è, a volte, molto labile e questo porta ad affrontare situazioni inaspettate che mettono l’individuo di fronte ai propri peggiori incubi che, non sempre possono essere sconfitti.
“Il seme della follia” induce lo spettatore a confrontarsi con una realtà inaspettata, a prendere le distanze dalla razionalità delle cose e delle persone. La pazzia è, a mio modo di pensare, un’arma; un potere che porta a vedere in modo più profondo le vicende che ci vedono ogni giorno protagonisti; le conseguenze delle nostre azioni non sono calcolate quando si ha la follia dalla nostra parte e questo ci porta a viverle a pieno.
Per John Carpenter invece la pazzia è vista, almeno apparentemente, come un male; come un qualcosa che porta il “malato” (se lo posso chiamare così) ad essere considerato un reietto della società, e quindi da curare.
In questo contesto il reietto è un detective privato John Trent (Sam Neill) che ha il compito di ritrovare Sutter Cane, scrittore di racconti dell’orrore, misteriosamente scomparso. Ma un mistero avvolge la vicenda, la lettura dei libri di Sutter Cane porta alla follia mentale. Trent è uno scettico che non crede tanto alle voci che lo circondano, ma è più che convinto di trovare una risposta razionale ai mali che assediano la realtà. A sue spese il detective scoprirà che, a volte, la realtà nella quale siamo abituati a vivere, non coincide con quella in cui davvero viviamo.
Oggetti con cui siamo continuamente in contatto possono trasformarsi così in armi a doppio taglio e scatenarsi contro chi li usa, o peggio ancora possono essere usati dai nostri stessi incubi e diventare veri e propri mezzi con cui dobbiamo confrontarci. In questo contesto l’oggetto in questione è il libro, che unito alle incursioni malvagie della nostra mente, può diventare un ponte di lancio verso un folle universo.

Questo lavoro di Carpenter è stato spesso accostato alle opere dello scrittore dell’orrore H.P.Lovecraft; in effetti i personaggi del film, così come quelli creati da Lovecraft, sentono di essere delle prede nei confronti di forze molto più grandi di loro; forze che possono portare la mente umana alla follia. Altro accostamento sta nella tensione generata sia dalla penna dello scrittore, che dalla pellicola del regista; i due infatti non ci fanno mai “vedere il male”, ma entrambi giocano con l’immaginazione del lettore/spettatore facendo scaturire un’angoscia palpabile in qualsiasi momento.

Il film, diretto nel 1995, è forse una delle opere più complesse e ambiziose di Carpenter, un lavoro in cui la visione apocalittica e degenerativa dell’umanità raggiunge il classico punto del non-ritorno.
Con questa pellicola Carpenter completa la cosiddetta “Trilogia dell’Apocalisse” iniziata con “La cosa” e portata avanti con “Il signore del male”.
“Il seme della follia” ci fa comprendere la sottile linea che divide normalità da pazzia; un confine in vera sostanza inesistente che, alla fine, tutti noi attraversiamo.

giovedì 11 marzo 2010

“GRAECIA CAPTA FERUM VICTOREM CEPIT”


Busto cd. di Dioniso dalla Villa dei Papiri di Ercolano (Napoli, Museo Archeologico Nazionale)













“L’Età della Conquista. Il fascino dell’arte greca a Roma”
Dal 13 marzo al 5 settembre 2010
Roma, Musei Capitolini, Piazza del Campidoglio, 1

Ente promotore: Ministero per i Beni Culturali e le Attività Culturali, Comune di Roma, Assessorato alle Politiche Culturale e della Comunicazione – Sovraintendenza ai Beni Culturali
Collaborazione: Banche Tesoriere del Comune di Roma
Direzione scientifica: Dott. Claudio Presicce, Prof. Eugenio La Rocca
Organizzazione: Zétema Progetto Cultura, MondoMostre
Catalogo: Skira


A partire dal 13 marzo, i Musei Capitolini ospiteranno un’importante mostra sull’arte greca e romana con capolavori provenienti da vari Musei italiani ed europei. “L’Età della Conquista. Il fascino dell’arte greca a Roma” è il primo capitolo di un progetto quinquennale che ripercorrerà in chiave storico-artistica cinque secoli di storia romana, dalla fine del III a.C. al IV d.C. «Gli intenti», spiegano i curatori della mostra, Eugenio La Rocca e Claudio Presicce, «sono quelli di far conoscere il mondo romano anche ad un pubblico di non addetti ai lavori, in modo preciso e semplice, e che riesca ad andare oltre gli stereotipi che, soprattutto il cinema americano negli ultimi anni ha contribuito a costruire». La mostra si estenderà per cinque sezioni tematiche: “Dèi e santuari”, “Monumenti onorari”, “Vivere alla Greca”, “Costumi funerari”, attraverso i quali sarà interessante osservare un’evoluzione socio-culturale in concomitanza dell’espansione geo-politica e militare. Trasformazione ben evidente nei mutamenti artistici ed architettonici, sia nello stile sia nell’uso dei materiali. Si passa, infatti, dalla terracotta alla pietra lavica “peperina”, come di tradizione, all’uso innovativo di marmo, metalli o pietre preziose. Lo stesso stile passa da temi tradizionali, come ad esempio le raffigurazioni di togati nei monumenti funebri alla scultura d’imitazione greca. Il costo della mostra si è aggirato intorno al milione di euro (ha precisato l’assessore Umberto Croppi), e considerando l’importanza della stessa, si sarebbe potuto migliorare l’aspetto didascalico e informativo. Carenti le indicazioni di percorso. Molte le lacune nella traduzione in inglese, ad esempio termini come “terracotta” vengono lasciati in italiano, con ovvie difficoltà di comprensione per gli spettatori stranieri. Mancanti i pannelli in altre lingue. Inoltre nell’esposizione sono del tutto assenti i riferimenti alle influenze magno-greche e a quelle etrusche o italiche. Insomma, una mostra che vuole mostrare l’aspetto imperiale di Roma tralasciando però la penisola italica e dimenticando una parte di Grecia, quello Magna, dunque. Come non ricordare, a questo punto, le celebri parole di Orazio: “Graecia capta ferum victorem cepit et artes intulit agresti Latio” (“La Grecia conquistata [dai Romani], conquistò il feroce vincitore e le arti portò nel Lazio agreste”).

Lina Rignanese

sabato 6 marzo 2010

Alice in Wonderland

di Emiliano Sportelli

















Chiudi gli occhi, fai un salto e poi cadi giù ancora e ancora. Fin dove la tua immaginazione potrà portarti? Se riesci a tenere “sveglia” la mente vedrai le cose come non mai, e se sei davvero pronto allora avrai fatto quel passo in più rispetto agli altri e ti sentirai a casa; la casa dove insegui un coniglio bianco, dove accarezzi un gatto che non c’è, dove prendi il tè con un cappellaio che per tua fortuna è davvero matto. La casa sognata da tutti coloro che usano la pazzia per uscire dal tunnel della ragione che spesso è nemica della verità. Alice in Wonderland è tutto questo, un film che ti prende per mano e che per due ore ti fa dimenticare i tuoi impegni di domani, un viaggio che certo non ha eguali e che ti lascia sognare proprio come fa il tuo nipotino all’asilo. È un inno al ritorno del fanciullo interiore; un fanciullo che rimane intrappolato dalle pressioni di una famiglia che ha smesso di credere e vuol trascinarlo in un mondo che per lui è troppo stereotipato.
È questo che accade ad Alice; la sua caduta nella tana del bianconiglio si trasforma in un’ancora di salvataggio, che la fa approdare lontano da una realtà che, ormai, di nuovo non aveva più niente da offrirle, e lo fa seguendo il suo istinto di bambina che, per fortuna, non l’ha mai abbandonata.
Seguire l’esempio di Alice può farci comprendere, attraverso le sue avventure che la metteranno di fronte ai suoi sogni miscelati con i suoi incubi, il significato della parola “libertà”; tanto bramata, ma spesso, per pigrizia, rifiutata.
Alice diviene così la nostra guida lungo un sentiero sconnesso, ma allo stesso tempo capace di indirizzare i nostri passi verso una nuova visione di noi stessi.
Il suo ritorno a casa segna poi una nuova presa di coscienza da parte della protagonista, avrà imparato a seguire quello che realmente vuole senza preoccuparsi troppo del futuro; seguire il suo istinto per riuscire a trovare la sua vera identità, un altro spunto questo che ci porta a riflettere su chi realmente saremo un giorno.

Non poteva certo mancare la firma di uno dei più eccentrici registi, Tim Burton, a dare al film quell’atmosfera per certi versi cupa che tanto ha contraddistinto i suoi lavori; il regista riesce, infatti, ad infondere un’aria di sublime fantasia che già di per sé fa parte dell’opera stessa di Lewis Carroll. A mio avviso ottima anche l’idea del regista di far interpretare il ruolo di Alice ad un’attrice che in pratica era al suo primo film come protagonista (una delicata Mia Wasikowska che sicuramente d’ora in avanti farà parlare di sé), forse con l’intento di infondere in Alice stessa un’inesperienza che tanto le si addice. E poi non dimentichiamo Danny Elfman, autore delle musiche del film, che ormai è diventato un punto fermo nei progetti di Burton, riesce con sapiente maestria, a miscelare con la dolcezza delle sue note la fantasia e la stravaganza che il film sprigiona.

Alice in Wonderland ci fa rispolverare i ricordi della nostra infanzia che per anni ci hanno accompagnato e che a volte dimentichiamo; ma i ricordi ritornano, ed allora ci accorgiamo che altro non sono che la realtà di cui siamo noi i soli protagonisti.