lunedì 19 settembre 2011

SUPER 8

Finalmente qualcosa nel cinema riprende a muoversi, dopo un lungo periodo estivo dove le buone pellicole sono state una vera rarità, ecco che ci pensa il regista J.J. Abrams a restituire alla “settima arte” una nuova luce, arricchendo con un piccolo capolavoro il suo repertorio già, comunque, di un certo spessore.
Parliamo ovviamente di “Super 8”, pellicola diretta appunto dal quarantacinquenne newyorkese, ma forgiata dall'unico ed indiscusso Steven Spielberg.

Siamo nell'estate del 1979 ed un gruppo di ragazzini con la loro fedele super 8, lavora alla realizzazione di uno zombie movie; proprio durante le loro riprese, i giovani si ritrovano coinvolti in un incidente ferroviario che riescono, quasi per caso, a filmare; da lì in avanti nella loro cittadina cominciano ad accadere una serie di eventi inspiegabili: automobili ed elettrodomestici che spariscono, persino gli animali sembrano impauriti; ed il colpevole? Una creatura malvagia che tenta con strani mezzi di distruggere la città, o forse qualcuno che è rimasto prigioniero sulla Terra e cerca soltanto di far ritorno a casa?

Il film è un crescendo di emozioni: drammaticità, humour, violenza e sentimento fanno da cornice all'intera pellicola di Abrams il quale, ha la grande idea, sempre dietro consiglio di Spielberg, di dar voce ai più piccoli, a coloro che hanno ancora tutto da imparare, che agiscono seguendo il loro istinto d'avventura e soprattutto il loro cuore e che, proprio per questo, diventano i più adatti per una “missione” di questo tipo.
Sì perché in “Super 8” nonostante Spielberg sia segnalato solo come produttore, risulta chiara la sua aura di mistero e magia che ha da sempre contraddistinto le sue opere cinematografiche.
L'errore poteva soltanto essere uno, quello di ricadere in un “già visto” (alcune scene del film richiamano per certi versi il più celebre E.T.), ma per fortuna così non è stato; Super 8 è senza ombra di dubbio un film degno di nota, un'emozionante ritorno all'età infantile, quando tutto ci sembrava possibile perché eravamo noi gli unici protagonisti.

Emiliano Sportelli

venerdì 16 settembre 2011

NOAM CHOMSKY E L'11 SETTEMBRE



















Guardando all'11/9 dieci anni dopo: gli Usa sono i migliori alleati di Bin Laden

di Noam Chomsky

(traduzione di Paola Lepori)

Siamo al decimo anniversario delle orrende atrocità dell’11 settembre 2001 che, si ritiene comunemente, hanno cambiato il mondo. Il primo maggio, la presunta mente del piano criminale, Osama Bin Laden, veniva assassinato in Pakistan da un commando Statunitense d’elite, i Navy SEALs, dopo essere stato catturato, senza protezione e disarmato, nell’operazione Geronimo.
Un certo numero di analisti ha osservato che, benché Bin Laden fosse stato finalmente ucciso, aveva ottenuto alcuni importanti successi nella sua battaglia contro gli Usa. “Ha sostenuto più volte che l’unica maniera di tenere gli Stati Uniti fuori dal mondo Musulmano e sconfiggere i suoi satrapi era trascinare gli Americani in una serie di piccole ma costose guerre che li avrebbero infine portati alla bancarotta”, scrive Eric Malgoris. “‘Dissanguando gli Stati Uniti’ testuali parole”. Gli Stati Uniti, prima sotto George W. Bush e poi sotto Barack Obama, sono andati dritti incontro alla trappola di Bin Laden… Spese militari grottescamente ingigantite, e l’assuefazione al debito… potrebbero essere l’eredità più perniciosa dell’uomo che pensava di poter sconfiggere gli Stati Uniti” – soprattutto dal momento che l’estrema destra sta cinicamente sfruttando il debito, con l’acquiescenza dell’establishment Democratico, per minare quello che rimane dei programmi sociali, dell’istruzione pubblica, dei sindacati, e, in generale, ciò che resta degli ostacoli alla tirannia delle corporation.
Che Washington fosse destinata a realizzare i ferventi desideri di Bin Laden fu subito chiaro. Come trattato nel mio libro Undici settembre, scritto poco dopo gli attacchi, chiunque avesse familiarità con la regione poteva arrivare alla conclusione “che un attacco massiccio alla popolazione Musulmana sarebbe la risposta alle preghiere di Bin Laden e dei suoi affiliati, e condurrebbe gli Stati Uniti e i loro alleati in una ‘diabolica trappola,’ come ha detto il ministro degli esteri Francese”.
Il funzionario della Cia responsabile della caccia a Osama Bin Laden dal 1996, Michael Scheuer, scrisse poco dopo che “Bin Laden è stato preciso nel descrivere le ragioni per cui ha deciso di muoverci guerra. [Lui] si propone di alterare drasticamente le politiche Statunitensi e Occidentali verso il mondo Islamico,” e ha avuto un ampio margine di successo: “Le forze armate e le politiche Statunitensi stanno completando la radicalizzazione del mondo Islamico, qualcosa che Osama Bin Laden sta provando a fare con grande, sebbene incompleto, successo dai primi anni Novanta. Di conseguenza, penso sia ragionevole concludere che gli Stati Uniti d’America rimangono il solo alleato indispensabile di Bin Laden.” E senza dubbio è ancora così, persino dopo la sua morte.

Il primo 11 Settembre

Esisteva un’alternativa? Con ogni probabilità il movimento Jihadista, gran parte del quale estremamente critico riguardo Bin Laden, poteva essere diviso e indebolito dopo l’11 Settembre. Il ‘’crimine contro l’umanità,’’ com’è stato giustamente definito, poteva essere affrontato come un crimine, con un’operazione internazionale per prendere in custodia i probabili sospettati. Questo venne riconosciuto all’epoca, ma l’idea non fu nemmeno presa in considerazione.
In Undici settembre, ho citato la conclusione di Robert Fisk che “l’orrendo crimine” dell’11 Settembre era stato commesso con ‘’cattiveria e crudeltà inaudita,’’ un giudizio accurato. E’ utile ricordare che i crimini avrebbero potuto essere anche peggiori. Si pensi, per esempio, se l’attacco fosse arrivato al punto di coinvolgere la Casa Bianca, uccidendo il presidente, imponendo una brutale dittatura militare che avesse ucciso decine di migliaia di persone e torturato altre decine di migliaia costituendo al contempo un centro del terrore internazionale che avrebbe aiutato a imporre altrove Stati del terrore e della tortura dello stesso tipo e realizzato una campagna internazionale di omicidi; e come scossa ulteriore, avesse coinvolto un team di economisti – chiamateli ‘i ragazzi di Kandahar’ – che avrebbero rapidamente portato l’economia ad una delle peggiori depressioni della sua storia.
Questo, francamente, sarebbe stato molto peggio dell’11 Settembre.
Sfortunatamente non è un caso ipotetico. E’ successo. L’unica inesattezza di questo breve resoconto è che il numero dovrebbe essere moltiplicato per 25 per ottenere i corrispettivi pro capite, la misura appropriata. Sto ovviamente parlando di quello a cui in America Latina ci si riferisce spesso come “il primo 11 Settembre”: 11 Settembre 1973, quando gli Stati Uniti riuscirono nel loro intenso sforzo di far cadere il regime democratico di Salvador Allende in Cile con un golpe militare che mise al potere il brutale regime del Generale Pinochet. L’obiettivo, nelle parole dell’amministrazione Nixon, era uccidere il “virus” che avrebbe potuto incoraggiare tutti quegli “stranieri [che] hanno in mente d fregarci” per ottenere il controllo delle loro risorse e impedire che perseguissero un’intollerabile politica di sviluppo autonomo. Sullo sfondo, l'opinione del Consiglio di Sicurezza Nazionale secondo cui, se gli Stati Uniti non avessero controllato l’America Latina, non avrebbero poturo aspettarsi di “ottenere un ordine positivo altrove nel mondo.”
Il primo 11 Settembre, diversamente dal secondo, non ha cambiato il mondo. Non fu “nulla di rilevante”, come Henry Kissinger assicurò al suo capo pochi giorni dopo.
Questi eventi di scarsa rilevanza non si limitavano al golpe militare che ha distrutto la democrazia cilena e messo in moto la storia di orrori che ne seguì. Il primo 11 Settembre non è stato altro che l'atto di una tragedia iniziata nel 1962, quando John F. Kennedy cambiò la missione dell’esercito in America Latina da “difesa emisferica” – un retaggio anacronistico della Seconda Guerra Mondiale – a “sicurezza interna,” un concetto interpretato in maniera agghiacciante dai circoli latinoamericani dominati dagli Stati Uniti.
In ‘’Storia della Guerra Fredda’’ pubblicata di recente dall’Università di Cambridge, lo studioso dell'America Latina John Coatsworth scrive che da allora sino al “collasso Sovietico nel 1990, il numero di prigionieri politici, vittime di tortura, ed esecuzioni di dissidenti politici non-violenti in America Latina, superò di gran lunga lo stesso numero dell'Unione Sovietica e dei suoi satelliti dell’Est Europeo,” includendo anche molti martiri religiosi e omicidi di massa, sempre col supporto o per iniziativa di Washington. L’ultimo grande atto di violenza fu il brutale omicidio di sei intellettuali di rilievo latinoamericani, preti gesuiti, pochi giorni dopo la caduta del muro di Berlino. I responsabili erano i membri di un battaglione salvadoregno d’elite che aveva già lasciato una scioccante scia di sangue. Freschi di corso d'addestramento alla Jfk School of Special Warfare, avevano agito su ordine diretto dell’alto comando di uno stato cliente degli Stati Uniti.

Dal rapimento e la tortura all’omicidio

Tutto ciò, e molto altro ancora, è archiviato come elemento di scarsa rilevanza, e dimenticato. Coloro la cui missione è dominare il mondo possono beneficiare di uno scenario più confortante, ben spiegato nel numero corrente del prestigioso (e prezioso) giornale del Royal Institute of International Affairs di Londra. L’articolo principale tratta del “visionario ordine internazionale” della “seconda metà del Ventesimo Secolo” caratterizzato dalla “universalità della visione statunitense della prosperità commerciale.” C’è qualcosa di vero in questo resoconto, ma non illustra il punto di vista di coloro che si trovano all’estremità sbagliata delle armi da fuoco.
Lo stesso vale per l’omicidio di Osama Bin Laden, che chiude se non altro una fase della “guerra al terrore” ri-dichiarata dal presidente George W. Bush dopo il secondo 11 Settembre. Passiamo ad alcuni pensieri su quell’evento e sulla sua rilevanza.
Il Primo Maggio 2011, Osama è stato ucciso nel suo pressoché sguarnito complesso da 79 incursori del Navy SEAL, entrati in Pakistan in elicottero. Dopo che molte oscure versioni sono state diffuse dal governo e poi smentite, i rapporti ufficiali hanno reso sempre più evidente come l’operazione sia stata un omicidio pianificato, che ha violato ripetutamente norme di diritto internazionale elementari, a cominciare dall’invasione stessa.
Sembra ci sia stato il tentativo di arrestare la vittima, che era disarmata, cosa che presumibilmente i 79 membri del commando, che non si erano trovati di fronte alcuna resistenza– tranne che, scrivono nei rapporti, da parte di sua moglie, disarmata anch’essa, cui hanno sparato per legittima difesa quando si è gettata contro di loro, secondo quanto dichiarato dalla Casa Bianca – avrebbero potuto facilmente fare.
Una ricostruzione plausibile degli eventi è fornita dal corrispondente Yochi Dreazen, veterano del Medio Oriente, e da colleghi di Atlantic. Dreazen, ex corrispondente militare per il Wall Street Journal, è corrispondente anziano per il National Journal Group, che si occupa di affari militari e sicurezza nazionale. Secondo la loro inchiesta, il piano della Casa Bianca sembra non avesse mai preso in considerazione di catturare Bin Laden vivo: “Secondo un ufficiale Statunitense anziano a conoscenza dei fatti, l’amministrazione aveva chiarito al clandestino Joint Special Operations Command dell’esercito che voleva Bin Laden morto. Un alto funzionario informato sull’attacco disse che i SEALs sapevano che la loro missione non era prenderlo vivo.”
L’autore aggiunge: “Per molti di quelli che al Pentagono e alla CIA avevano speso quasi un decennio nella caccia a Bin Laden, uccidere il militante era un atto di vendetta necessario e giustificato.” Inoltre, “catturare Bin Laden vivo avrebbe procurato all’amministrazione una serie di fastidi politici e legali.” Meglio, quindi, ucciderlo, scaricare il suo corpo in mare senza l’autopsia considerata necessaria dopo un’uccisione – una mossa che, com’era prevedibile, ha provocato rabbia e dubbi in gran parte del mondo Musulmano.
Come l’inchiesta pubblicata da Atlantic ha osservato: “La decisione di uccidere Bin Laden immediatamente è stata finora l’immagine più chiara di un aspetto della politica contro il terrorismo dell’amministrazione Obama passato inosservato. L’amministrazione Bush catturò migliaia di militanti sospetti e li spedì nei campi di detenzione in Afghanistan, Iraq e Guantanamo. Di contro, l’amministrazione Obama si è concentrata sull’eliminazione di singoli terroristi piuttosto che cercare di catturarli vivi.” Questa è una differenza sostanziale tra Bush e Obama. Gli autori citano l’ex cancelliere della Germania Ovest Helmut Schmidt, il quale “ha dichiarato alla tv tedesca che il raid Usa è stato ‘chiaramente una violazione del diritto internazionale’ e che Bin Laden avrebbe dovuto essere detenuto e processato,” provocando la reazione del procuratore generale americano Eric Holder, il quale “ha difeso la decisione di uccidere Bin Laden benché non rappresentasse una minaccia immediata per i Navy SEALs, dicendo a una commissione della Casa Bianca che l’attacco era stato perfettamente legale, legittimo e appropriato da ogni punto di vista.”
L’eliminazione del corpo senza autopsia è stata anch’essa motivo di critica da parte degli alleati. L’avvocato inglese Geoffrey Robertson, che gode di grande considerazione e che si era già espresso a favore dell'operazione e contro l’esecuzione per mere considerazioni di pragmatismo, ha descritto la dichiarazione di Obama “è stata fatta giustizia” come “un’assurdità” che sarebbe dovuta risultare ovvia a un ex professore di diritto costituzionale. La legge Pakistana “richiede un’indagine in caso di morte violenta, e la legge internazionale sui diritti umani stabilisce che il ‘diritto alla vita’ richieda un’indagine ogni qualvolta una morte violenta sia causata dall’azione del governo e della polizia. Gli Stati Uniti si trovano perciò nell’obbligo di aprire un’inchiesta che chiarisca al mondo le vere circostanze dell’uccisione.”
Molto opportunamente, Robertson ci ricorda che “non è sempre stato così. Quando venne il momento di prendere in considerazione il destino di uomini ben più malvagi di Osama Bin Laden – i massimi dirigenti del nazismo – il governo britannico li avrebbe voluti impiccati entro sei ore dalla cattura. Il presidente Truman era riluttante e citò l’affermazione del giudice Robert Jackson che un’esecuzione di massa ‘si dimostrerebbe difficile da digerire per le coscienze americane e non sarebbe ricordata con orgoglio dai nostri figli… l’unica via è dimostrare l’innocenza o la colpevolezza degli accusati dopo un’udienza tanto imparziale e scevra di passioni quanto lo permettono i tempi e dopo un verdetto che renda le nostre ragioni e le nostre motivazioni chiare.’”
Eric Margolis commenta che “Washington non ha mai reso pubbliche le prove che Osama Bin Laden fosse dietro agli attacchi dell’11 Settembre,” presumibilmente questa è una delle ragioni per cui “i sondaggi mostrano che un terzo degli Americani intervistati credono che dietro agli attacchi dell’11 Settembre ci sia il governo Usa e/o Israele,” mentre nel mondo musulmano lo scetticismo è più diffuso. “Un processo a porte aperte negli Stati Uniti o all’Aia avrebbe mostrato queste affermazioni alla luce del giorno,” continua, una ragione pratica per cui Washington avrebbe dovuto attenersi alla legge.
Nelle società che professano il rispetto della legge, i sospetti presi in custodia sono sottoposti a un processo equo. Sottolineo “sospetti”. Nel Giugno 2002, il capo del Fbi Robert Mueller, in quella che il Washington Post descrisse come “una delle sue dichiarazioni pubbliche più dettagliate sull’origine degli attacchi,” poté solo dire che “gli investigatori ritengono che l’idea degli attacchi dell’11 Settembre al World Trade Center e al Pentagono venne ai leader di al-Qaeda in Afghanistan, la reale cospirazione venne messa a punto in Germania e i finanziamenti giunsero attraverso gli Emirati Arabi Uniti dall’Afghanistan.”
Ciò che l’Fbi credeva e pensava nel Giugno del 2002, non era di loro conoscenza otto mesi prima, quando Washington rigettò le timide offerte dei talebani (non sappiamo quanto serie) di consegnare Bin Laden affinché venisse processato se fossero state sottoposte loro delle prove. Perciò non è vero, come ha dichiarato il presidente Obama nel suo discorso alla Casa Bianca dopo la morte di Bin Laden, che “appurammo rapidamente che gli attacchi dell’11 Settembre erano stati opera di al-Qaeda.”
Non c’è mai stata ragione di dubitare di ciò che riteneva l’Fbi a metà 2002, ma questo ci lascia ben lontani dalla prova di colpevolezza che si richiede nelle società civili – e qualsiasi siano le prove, queste non garantiscono comunque la liceità dell’uccisione di un sospetto che, a quanto sembra, avrebbe potuto essere facilmente preso in custodia e processato. Ciò rimane vero per le prove prodotte da allora. Così, la Commissione per l’11 Settembre fornì ampie prove circostanziali del ruolo di Bin Laden nell’11 Settembre, perlopiù sulla base di ciò che era stato riferito delle confessioni dei prigionieri di Guantanamo. E’ oggetto di dubbio che questo materiale possa essere accettato da una corte indipendente, considerando la maniera in cui furono ottenute le confessioni. In ogni caso, la conclusione dell’indagine autorizzata dal Congresso, comunque ci si possa lasciar convincere da essa, è molto lontana dall’essere emessa da una corte credibile, quella che cambierebbe la categoria dell’accusato da sospetto a prigioniero.
Si è fatto un gran parlare della “confessione” di Bin Laden, ma quella era una vanteria, non una confessione, con lo stesso grado di credibilità della mia “confessione” di aver vinto la maratona di Boston. La vanteria ci dice molto sul personaggio ma nulla sulla sua effettiva responsabilità di quello che riteneva un grande successo, del quale voleva prendersi il merito.
Chiaramente, tutto ciò a prescindere dai giudizi sulla sua colpevolezza, che sembrava evidente persino prima dell’inchiesta dell'Fbi e continua ad esserlo.

Crimini di aggressione

E’ opportuno aggiungere che la responsabilità di Bin Laden fu riconosciuta in gran parte del mondo musulmano, e condannata. Un esempio significativo è l’illustre religioso Libanese Sheikh Fadlallah, molto rispettato da Hezbollah e dai gruppi sciiti in generale, anche fuori dal Libano. Lui aveva una certa esperienza sugli omicidi. Era stato l’obiettivo di un attentato: per mezzo di un’autobomba di fronte ad una moschea, in un’operazione organizzata dalla Cia nel 1985. Lui si salvò ma altre 80 persone vennero uccise, per lo più donne e bambine che lasciavano la moschea – uno di quegli innumerevoli crimini che non rientrano negli annali a causa dell'“informazione asimmetrica”. Sheikh Fadlallah condannò aspramente gli attacchi dell’11 Settembre.
Uno dei maggiori specialisti del movimento Jihadista, Fawaz Gerges, suggerisce che il movimento avrebbe potuto essere diviso allora, se gli Stati Uniti avessero saputo sfruttare l’opportunità che gli si presentava anziché mobilitare il movimento, in particolare con l’attacco all’Iraq, una fortuna inaspettata per Bin Laden, che portò a un deciso incremento del terrorismo, come le agenzie di intelligence avevano previsto. Alle udienze Chilcot che si occupavano dei retroscena dell’invasione dell’Iraq, per esempio, l’ex capo dell’agenzia di intelligence Britannica MI5 testimoniò che sia l’intelligence inglese che quella Usa sapevano che Saddam non rappresentava alcuna minaccia concreta, che era probabile che l’invasione avrebbe causato un aumento del terrorismo, e che l’invasione dell’Iraq e dell’Afghanistan avrebbe radicalizzato parte di una generazione di musulmani che interpretavano le azioni militari come un “attacco all’Islam”. Come spesso accade, la sicurezza non era una priorità alta nell’agenda di Stato.
Potrebbe essere utile chiederci come avremmo reagito se un commando Iracheno fosse atterrato nel complesso di George W. Bush, l’avesse ucciso, e gettato il suo corpo nell’Atlantico (dopo i rituali di sepoltura appropriati, naturalmente). Indiscutibilmente, non era un “sospettato” ma il “mandante” che diede l’ordine di invadere l’Iraq – cioè di commettere “il crimine internazionale supremo che differisce dagli altri crimini di guerra solo in quanto racchiude tutto il male possibile”, la formula per cui i criminali nazisti vennero impiccati: centinaia di migliaia di morti, milioni di rifugiati, distruzione di gran parte del paese e del suo retaggio culturale, e il sanguinoso conflitto settario che si è ora diffuso nel resto della regione. Altrettanto indiscutibilmente, questi crimini superano di gran lunga qualsiasi cosa sia stata attribuita a Bin Laden.
Affermare che tutto ciò sia incontrovertibile, come di fatto è, non significa che non ci sia chi lo nega. L’esistenza di sostenitori della teoria secondo cui la terra è piatta non cambia il fatto che, senza ombra di dubbio, la terra non è piatta. Allo stesso modo, è incontrovertibile che Stalin e Hitler si siano resi responsabili di crimini orrendi, benché i loro partigiani possano negarlo. Tutto ciò dovrebbe essere troppo ovvio per essere commentato, e lo sarebbe, salvo che in un’atmosfera di isteria così estrema da annichilire il pensiero razionale.
Ugualmente, è indiscutibile che Bush e i suoi complici abbiano commesso il “crimine internazionale supremo” – il crimine d’aggressione. Questo crimine fu definito piuttosto chiaramente dal giudice Robert Jackson, Capo di Consiglio per gli Stati Uniti a Norimberga. Un “aggressore”, aveva proposto Jackson al Tribunale nel suo discorso d’apertura, è lo Stato che per primo commette l’atto di invadere con le sue forze armate, con o senza dichiarazione di guerra, il territorio di un altro stato…” Nessuno, nemmeno i più accesi sostenitori dell’aggressione, negano che Bush e i suoi complici abbiano fatto esattamente questo.
Inoltre, potremmo far bene a ricordare le eloquenti parole di Jackson a Norimberga sul principio d’universalità: “Se determinati atti in violazione dei trattati sono crimini, lo sono sia che vengano compiuti dagli Stati Uniti o dalla Germania, e non possiamo sancire una regola di condotta criminale contro gli altri, che non possa essere invocata contro di noi.”
E’ altrettanto chiaro che le dichiarazioni d’intenzioni sono irrilevanti, anche se sono in buona fede. Documenti interni rivelano che i fascisti giapponesi fossero convinti che, devastando la Cina, stessero lavorando per renderla un “paradiso terrestre”. E anche se sembrerebbe difficile da immaginare, è concepibile che Bush e gli altri credessero di proteggere il mondo dalla distruzione delle armi nucleari di Saddam. Tutto irrilevante, benché ardenti partigiani da ogni lato possano cercare di convincersi del contrario.
Ci restano due possibilità: o Bush e soci sono colpevoli del “crimine internazionale supremo”, inclusi tutti i mali che hanno prodotto come conseguenza, oppure decidiamo che i processi di Norimberga furono una farsa e che gli alleati si siano resi colpevoli di omicidio giudiziario.

La Mentalità Imperiale e l’11 Settembre

Pochi giorni dopo l’assassinio di Bin Laden, Orlando Bosch è morto pacificamente in Florida, dove risiedeva col suo complice Luis Posada Carriles e molti altri affiliati del terrorismo internazionale. Dopo essere stato accusato di decine di crimini terroristici dall'Fbi, Bosch ottenne il perdono presidenziale da Bush I, malgrado le obiezioni del dipartimento di Giustizia che arrivò alla conclusione “inevitabile che sarebbe pregiudizievole per l’interesse pubblico che gli Stati Uniti costituissero un rifugio sicuro per Bosch.” La coincidenza di queste morti richiama alla mente la dottrina di Bush II – “già… una norma non scritta delle relazioni internazionali,” secondo l’illustre specialista di relazioni internazionali di Harvard Graham Allison – che revoca “la sovranità degli stati che forniscono rifugio ai terroristi.”
Allison si riferisce alla dichiarazione di Bush II, diretta ai talebani, che “coloro che danno rifugio ai terroristi sono altrettanto colpevoli dei terroristi stessi.” Questi Stati perciò hanno perso la loro sovranità e sono oggetto legittimo di bombardamenti e terrore – per esempio, lo stato che ha dato rifugio a Bosch e ai suoi affiliati. Quando Bush proclamò questa nuova “norma non scritta delle relazioni internazionali,” nessuno si acorse che stava invitando all’invasione e alla distruzione degli Stati Uniti e all’uccisione del suo presidente.
Nulla di tutto ciò, naturalmente, rappresenta un problema se rigettiamo il principio di universalità del giudice Jackson, e adottiamo invece il principio secondo cui gli Stati Uniti si sono auto-immunizzati contro il diritto internazionale e le convenzioni – come, di fatto, il governo ha messo in chiaro di frequente.
Vale anche la pena di riflettere sul nome che è stato dato all’operazione Bin Laden: Operazione Geronimo. La mentalità imperiale è così radicata che pochi sembrano essere capaci di intuire che la Casa Bianca glorifica Bin Laden chiamandolo “Geronimo” – il capo indiano Apache che guidò la coraggiosa resistenza agli invasori delle terre Apache.
La scelta casuale del nome riporta alla mente la disinvoltura con cui diamo alle armi mortali i nomi delle vittime dei nostri crimini: Apache, Blackhawk… potremmo reagire diversamente se la Luftwaffe avesse chiamato i suoi aerei da combattimento “Ebreo” o “Zingaro”.
L’esempio menzionato ricadrebbe nella categoria dell’ “eccezionalismo Americano,” non fosse per il fatto che la disinvolta soppressione dei propri crimini e praticamente onnipresente tra le potenze, tranne quelle che sono sconfitte e costrette a riconoscere la realtà.
Forse l’omicidio era percepito dall’amministrazione come un “atto di vendetta,” come conclude Robertson. E forse il rigetto dell’opzione legale del processo riflette la differenza tra la cultura morale del 1945 e quella di oggi, come suggerisce ancora. Qualsiasi fossero i motivi, difficilmente avevano a che fare con la sicurezza. Come nel caso del “crimine internazionale supremo” in Iraq, l’omicidio di Bin Laden dimostra che la sicurezza non è una priorità alta nell’agenda dello stato, contrariamente a quanto generalmente sostenuto dalla dottrina.


(Noam Chomsky è Professore emerito presso il Dipartimento di Linguistica e Filosofia del Mit. E’ autore di numerosi bestseller di politica tra cui: 11 Settembre: c’era un’alternativa.)

(articolo pubblicato su TomDispatch)

lunedì 12 settembre 2011

BLONDE REDHEAD@PIPER (11/09/2011)

Si è concluso nello storico club romano il tour estivo dei Blonde Redhead, che ha attraversato tutta l’Europa fino in Israele per terminare in Italia con le ultime quattro date. Un pienone di pubblico ha accolto la band italo-nippo-americana.
La serata è stata aperta dal duo dark-pop (forse la definizione è un po’ azzardata) italiano dei Blanche Alchemie, akas Federico Albanese (chitarra e piano) e Jessica Einaudi (voce e figlia del pianista Ludovico Einaudi, che ha prodotto il loro secondo album “Galactic Boredom”), presentatisi in formazione da tre con bassista. Accolti senza interferenza, ma anche senza entusiasmi di sorta dal pubblico impaziente di vedere sul palco gli amati Kazu Makino e i gemelli Pace.
Cambio di palco et voilà… il live prende subito il volo nella dimensione dreamy di ‘Black Guitar’ e ‘Here Sometimes’. Se l’impronta del trio negli ultimi tre lavori, quelli sotto l’etichetta 4AD per intenderci, ha visto lo smussamento della spigolosità, che ha caratterizzato le produzioni degli anni Novanta, e ammorbidito i toni con una ricerca più intima e cantautoriale, il muro sonoro, fatto di chitarre, a tratti acerbe, a tratti dai riff magnetici e di drumming continuo, resta ancora in piedi a scaraventare d’impatto lo spettatore/ascoltatore in atmosfere ruvide e al tempo stesso addolcite da una malinconica melodia.
Il concerto non ha tradito le aspettative. La band si è dimostrata all’altezza della fama da cult-band e lo spettacolo è stato emozionante. Luci basse, lampadine accese a incorniciare con scampoli di luce le figure spesso poco illuminate dei tre musicisti. Ben presenti sulla scena, dalle movenze sinuose, delicate e decise della front-woman (voce, chitarre e tastiera), all’eleganza di Amedeo che si destreggia tra chitarre e tastiere, a Simone, estatico dietro la batteria.
Nessuna interruzione tra una canzone e l’altra, tranne i doverosi ringraziamenti, una nota di merito che ha permesso di non far svanire l’alchimia noise-rock/dream-pop che si è generata per un’ora e mezza sopra e sotto il palco. La scaletta si è basata su brani tratti dagli ultimi quattro album.
Il momento più intenso si è forse avuto con la sincopata e tagliente ‘In particular’ (anche nota come ‘XX’ per via del ritornello ossessivo), seguita da ‘SW’, fino a chiudere con la sensuale e dirompente ‘23’. Tre i bis concessi, sulle note di ‘Silently’, ‘Messenger’ e ‘Misery is a Butterfly’.

Lina Rignanese













domenica 4 settembre 2011

IL CASO ANNA HAZARE VISTO DA ARUNDHATI ROY



















Chi è Anna Hazare e quale la causa che lo porta a digiunare? Cos'è la Jan Lokpal, la legge contro la corruzione, che vorrebbe far discutere (e approvare da) in Parlamento? Dalle parole di Arundhati Roy, scrittrice e attivista indiana di fama mondiale, emerge una figura molto diversa da quella del "nuovo Gandhi" che i media italiani (occidentali?) ci propongono. Di sotto l'intervento di A.R. sul quotidiano indiano 'The Hindu'.

INDIA - UNA RIVOLUZIONE IMBARAZZANTE: IL CASO ANNA HAZARE

di Arundhati Roy

Anna Hazare, scrive Arundhati Roy sull’indiano “The Hindu”, è stato paragonato a un nuovo Gandhi. Ma non illudetevi: se i mezzi sono gandiani, le sue richieste non lo sono affatto.

Se quella che stiamo vedendo in TV è davvero una rivoluzione, allora è senz’altro una delle rivoluzioni più imbarazzanti e incomprensibili di questi ultimi tempi. Per motivi completamente diversi fra loro, e in modi completamente diversi, si potrebbe dire che i maoisti e i sostenitori del disegno di legge contro la corruzione – noto come jan lokpad – hanno una cosa in comune: entrambi vogliono rovesciare lo stato indiano. Uno dal basso, attraverso una lotta armata condotta da un esercito formato in maggioranza da adivasi (le popolazioni tribali originarie dell’India), cioè composto dai più poveri dei poveri. L’altro dall’alto, attraverso un colpo di mano gandiano senza spargimento di sangue, guidato da un santo di nuovissimo conio e da un esercito di abitanti delle città, quindi di persone sicuramente meno povere. Il tutto con la collaborazione del governo, che sta facendo il possibile per rovesciare se stesso.

Lo scorso aprile, quando Anna Hazare aveva cominciato da poco il suo primo “digiuno fino alla morte”, il governo, in cerca di un modo per distrarre l’attenzione dell’opinione pubblica dalla sfilza di scandali per corruzione che ne avevano scosso la credibilità, ha invitato il Team Anna – è il marchio scelto da questo gruppo della “società civile” – a partecipare a una commissione congiunta incaricata di redigere il progetto di una nuova legge contro la corruzione. Pochi mesi dopo, però, ha abbandonato quella strada e ha presentato in Parlamento un suo progetto di legge talmente pieno di difetti che era impossibile prenderlo sul serio.

Poi il 16 agosto, la prima mattina del suo secondo “digiuno fino alla morte”, ancor prima di dare il via all’iniziativa o di commettere qualsiasi infrazione alla legge, Anna Hazare è stato arrestato e messo in prigione. Ed ecco che la lotta per jan lokpal si è trasformata in una lotta per il diritto a protestare: la lotta per la democrazia. Nel giro di qualche ore dall’inizio di questa “seconda lotta per la libertà”, Anna è stato rilasciato. Astutamente ha rifiutato di uscire dal carcere di Tihar, a New Delhi, ed è rimasto lì in qualità di ospite riverito. Ha cominciato un digiuno per rivendicare il diritto a digiunare in un luogo pubblico. Per tre giorni, mentre fuori dal carcere di massima sicurezza si assiepavano la folla e i furgoni delle TV, esponenti del Team Anna facevano la spola avanti e indietro portando i suoi video-messaggi da mandare in onda su tutti i canali della TV nazionale (a chi altro sarebbe stato concesso questo lusso?). Nel frattempo, 250 dipendenti del comune di Delhi, 15 camion e sei ruspe lavoravano senza soste trasformare la melma del piazzale Ramlila in un palcoscenico degno del grandioso spettacolo in programma per il fine settimana. Adesso Anna, servito di tutto punto, seguito dai medici più pagati di tutta l’India, ha cominciato la terza fase del suo digiuno fino alla morte. “Dal Kashmir a Kanyakumari, l’India è una”, ci ripetono i conduttori televisivi.

I metodi di Anna Hazare saranno anche gandiani, ma le sue rivendicazioni proprio no. Contrariamente alle idee di Gandhi sul decentramento del potere, il progetto di legge jan lokpal è un provvedimento draconiano, il quale prevede tra l’altro che una commissione attentamente selezionata amministri una burocrazia gigantesca, con migliaia di dipendenti e con il potere di sorvegliare tutti, dal primo ministro ai membri del potere giudiziario e del parlamento e a tutta l’amministrazione, giù fino al più oscuro funzionario governativo. La jan lokpal avrà il potere di indagare, sorvegliare e perseguire. Salvo per il fatto che non avrà carceri proprie, sarà un’amministrazione indipendente volta a contrastare l’amministrazione elefantiaca, irresponsabile e corrotta che già abbiamo. Due oligarchie al posto di una, insomma.

Se funzionerà o no, dipende dall’idea che abbiamo della corruzione. Si tratta di una semplice questione di legalità, d’irregolarità finanziarie e di bustarelle, o invece è la moneta di una transazione sociale in una società colpevolmente iniqua in cui il potere continua a essere concentrato nelle mani di una minoranza sempre più esigua? Immaginate, per esempio, una città di grandi magazzini dove siano state vietate le bancarelle nelle strade. Un ambulante passa bustarelle al poliziotto di quartiere e al funzionario del comune per poter violare la legge vendendo la sua mercanzia a chi non può permettersi di comprare nei negozi. E’ così terribile? In futuro dovrà pagare anche il rappresentante del Lokpal? Insomma, la soluzione dei problemi che affliggono le persone comuni sta nell’affrontare e risolvere le disuguaglianze strutturali, oppure nel creare un’ennesima struttura di potere di fronte a cui le persone dovranno inchinarsi?

Intanto gli arredi scenici e le coreografie, il nazionalismo aggressivo e lo sventolio di bandiere della “rivoluzione” di Anna sono tutti presi in prestito dalle proteste anti-reservation (esplose nel 2006 contro la decisione del governo di riservare alle caste inferiori quote in certi istituti di istruzione superiore), dalla parata per la vittoria ai mondiali di cricket e dai festeggiamenti per gli esperimenti nucleari. Il segnale che ci mandano è che se non appoggiamo il Digiuno con la d maiuscola non siamo “veri indiani”. Le TV che trasmettono 24 ore su 24 hanno deciso che in India non c’è nessun altro avvenimento degno di essere riferito nei notiziari.

Naturalmente “Digiuno” non significa quello che Irom Sharmila fa ormai da più di dieci anni (adesso è sottoposta a nutrizione forzata) contro la legge sui servizi speciali delle forze armate, che dà licenza ai militari di Manipur di uccidere in base a un semplice sospetto. Non significa lo sciopero della fame a staffetta condotto proprio in questo momento da decine di migliaia di abitanti dei villaggi del Koodankulam, nel Tamil Nadu, per protestare contro la centrale nucleare in costruzione. E “popolo” non indica la popolazione di Manipur che appoggia il digiuno di Irom Sharmila, né le migliaia di persone che tengono testa ai poliziotti armati e alle mafie del settore minerario a Jagatsinghpur, a Kalinganagar, a Niyamgiri, a Bastar, a Jaitapur. Non si parla delle vittime della fuga di gas di Bhopal né degli abitanti della valle di Narmada, espropriati per costruire la diga. Né degli agricoltori che resistono contro gli espropri delle terre. No, “popolo2 indica solo il pubblico che si è riunito per assistere allo spettacolo di un settantaquattrenne che minaccia di digiunare a morte se il suo disegno di legge jan lokpal non viene discusso e approvato dal Parlamento. “Popolo” sono le decine di migliaia di persone che le nostre TV hanno miracolosamente moltiplicato in milioni, come Cristo moltiplicò i pani e i pesci per dar da mangiare agli affamati. “Un miliardo di voci ha parlato”, ci vengono a dire. “L’India è Anna”.

Ma chi è veramente questo nuovo santo, questa Voce del Popolo? Stranamente, non gli abbiamo sentito dire neanche una parola su questioni di grande urgenza: nulla sui suicidi degli agricoltori vicino al suo villaggio, né sull’operazione Green Hunt un po’ più in là. Nulla su Singur (dove la Tata motor aveva in progetto di produrre la sua auto economica). Nandigram (dove 14 persone che si opponevano all’esproprio delle terre in favore di una centrale chimica sono state uccise), Lalgarh (teatro di un’operazione di polizia contro i maoisti), nulla sulla Posco (che intende costruire un grande impianto siderurgico nell’Orissa a cui gli abitanti si oppongono), sulle rivolte contadine o sul flagello delle zone a economia speciale. A quanto pare non ha un’opinione sulle intenzioni del governo di dispiegare l’esercito nelle foreste dell’India centrale. Però appoggia la xenofobia di Raj Thackeray, il fondatore del partito di destra Marathi, e ha elogiato “il modello di sviluppo” del primo ministro del Gujarat, che ha sovrinteso al pogrom del 2002 contro i musulmani (dopo le polemiche Anna ha ritirato le sue dichiarazioni, ma presumibilmente non la sua ammirazione).

Malgrado il baccano, i giornalisti seri hanno fatto il loro dovere. E così adesso conosciamo i passati rapporti di Anna con l’ RSS (un corpo paramilitare volontario di nazionalisti indù). Abbiamo potuto sentire quel che dice Mukul Sharma, che ha studiato le istituzioni comunitarie del villaggio di Anna, Ralegan Siddhi, dove in questi venticinque anni non si sono mai tenute elezioni del gram panchayat (organo di autogoverno locale), né della società cooperativa. Sappiamo qual è l’atteggiamento di Anna nei confronti degli harjan (figli di dio, così Gandhi chiamava gli intoccabili): “Nella concezione del mahatma Gandhi, ogni villaggio dovrebbe avere un chamar (sottocasta dei dalit e conciatori per tradizione), un sunar (casta di orafi), un kumhar (casta di ceramisti). Costoro dovrebbero svolgere un lavoro corrispondente alle loro qualifiche e funzioni, così che il villaggio possa essere completamente autosufficiente, E’ quello che pratichiamo noi a Relegan Siddhi”.

Sorprende forse che alcuni componenti del Tean Anna abbiano anche rapporti con Youth for Equality, il movimento che nel 2006 ha guidato le proteste antireservation? La campagna è guidata da persone che gestiscono un pugno di ong che ricevono generosi finanziamenti provenienti fra l’altro da Coca Cola e Lehman Brothers. Tra i finanziatori delle campagne contro la corruzione ci sono aziende e fondazioni proprietarie di industrie che producono alluminio, costruiscono porti e zone economiche speciali, gestiscono imprese immobiliari e sono legate a filo doppio a esponenti politici che controllano imperi finanziari miliardari. Alcuni di loro sono indagati per corruzione e altri reati. Ma cos’hanno tutti da essere tanto entusiasti?

Non dimentichiamo che la campagna per la Jan Lokpal si è intensificata più o meno quando sono esplose le imbarazzanti rivelazioni di Wikileaks e una serie di scandali compresa la grande truffa delle licenze per i cellulari di seconda generazione, detta “2G spectum”, in cui alcuni grandi gruppi industriali, giornalisti, ministri, parlamentari e politici del partito nazionalista Bharatya Janata hanno colluso in vari modi per far sparire dalle casse dell’erario miliardi di rupie. In tanti anni, è la prima volta che certi giornalisti-lobbisti vengono svergognati, e sembra che alcuni capitani d’industria potrebbero addirittura finire in prigione. Tempismo perfetto per un’agitazione popolare contro la corruzione…o no?

Nel momento in cui lo stato abdica ad alcune sue funzioni tradizionali (erogazione dell’acqua e dell’elettricità, trasporti, telecomunicazioni, attività mineraria, assistenza sanitaria e istruzione), ed esse vengono svolte al suo posto dalle ong; nel momento in cui il potere spaventoso dei mezzi d’informazione dei grandi gruppi industriali cerca di controllare anche l’immaginazione delle persone, ci si aspetterebbe che queste istituzioni – corporation, stampa e ong – venissero incluse nella giurisdizione di una legge come la Jan Lokpal, e invece il disegno di legge ci lascia completamente fuori. E adesso sono abilmente riuscite a scagionarsi strillando più forte di tutti gli altri e pompando una campagna che cavalca il tema dei politici cattivi e della corruzione del governo. Ma c’è di peggio: demonizzando solo il governo, si sono costruite un pulpito da cui invocare l’ulteriore abdicazione dello stato della sfera pubblica e una nuova serie di riforme: più privatizzazioni, più accesso alle infrastrutture pubbliche e alle risorse naturali del paese.

Ma gli 830 milioni di persone che vivono con 20 rupie al giorno trarranno qualche vantaggio da un insieme di scelte politiche le rendono ancora più povere e spongono il paese verso una guerra civile? Questa crisi spaventosa è figlia del completo fallimento della democrazia rappresentativa indiana, in cui gli organi legislativi sono composti da criminali e politici milionari, che hanno smesso di rappresentare il popolo. Non lasciatevi ingannare dallo sventolio di bandiere: sotto i nostri occhi vediamo smembrare l’India in una lotta per la signoria più letale di qualsiasi battaglia combattuta dai signori della guerra in Afghanistan. Salvo che qui la posta in gioco è molto, molto più alta.

Da sapere
Chi è Anna Hazare? Ex autista dell’esercito, Anna hazare – il suo vero nome è Kisan Buburao – è nato nel 1934 a Ralegan Siddhi, un villaggio rurale del Maharashtra, nell’India orientale. Nel 1965, durante la guerra indo-pachistana, dopo essere stato l’unico sopravvissuto a un attentato contro un veicolo su cui viaggiava, ha deciso di cambiare radicalmente vita, “mettendosi al servizio degli altri”. Si è occupato di migliorare le condizioni di vita nel suo villaggio natale, arrivando a farne un modello attraverso metodi discutibili: tra le altre cose ha vietato la vendita e l’uso di alcolici e tabacco, imponendo ai trasgressori pene durissime, anche fisiche. Negli anni ’90 ha cominciato a usare lo sciopero della fame a oltranza, strumento reso famoso da Gandhi, contro i politici corrotti.

La protesta. Nell’aprile del 2011, dopo mesi segnati da vari scandali legati alla corruzione, Hazare ha cominciato un nuovo sciopero della fame, seguito da decine di migliaia di persone in tutto il paese, per chiedere, attraverso una legge ad hoc (jan lokpal), la creazione di un difensore civico che indaghi sui casi di corruzione. Il disegno di legge approvato è diverso da quello proposto da Hazare, che lo giudica troppo debole perché esclude il premier e le alte cariche dallo stato dalle indagini. Per questo l’attivista ha annunciato un nuovo digiuno.

Il 16 agosto, poche ore prima di cominciare il digiuno, Hazare è stato arrestato insieme a 1200 sostenitori che non avevano accettato una serie di condizioni poste dalle autorità, tra cui finire lo sciopero della fame dopo tre giorni. Subito dopo l’arresto, giustificato dal primo ministro Manmohan Singh come un atto dovuto, migliaia di persone sono scese in piazza. I principali quotidiani indiani hanno criticato duramente il governo, uno su tutti “The Hindu”, che l’ha definito “corrotto, repressivo e stupido”. Hazare, rimesso in libertà poco dopo, è rimasto in carcere dove ha cominciato a digiunare finché non gli fosse riconosciuto il diritto di scioperare ad oltranza. Giunti a un compromesso, Hazare ha ricominciato il digiuno pubblico e il 23 agosto ha chiesto di discutere la legge con dei mediatori del governo.

venerdì 2 settembre 2011

MAUS


















Il termine “Graphic Novel” (o romanzo grafico) apparve per la prima volta negli Stati Uniti intorno agli anni Settanta; con esso si indicava appunto il racconto di una storia attraverso vignette e disegni appartenenti al classico fumetto conosciuto. L’idea che sta alla base del romanzo a fumetti è sia la rinuncia alla serialità tipica delle più famose “strisce”, sia l’abbandono del personaggio/protagonista come punto chiave della storia; mettere dunque da parte l’eroe invincibile che non muore mai e cominciare a trattari temi legati alla realtà umana attraverso fatti realmente accaduti. Si può benissimo dire che mai, prima della graphic novel, il fumetto si era spinto fino a questo punto; così, argomenti che in passato erano del tutto estranei al “mondo della vignetta”, divengono punti fondamentali per il fumetto stesso.
Nell’universo della graphic novel un posto di prim’ordine merita, senza ombra di dubbio, “Maus” dell’ottimo Art Spiegelman. Scritto nel 1973, il primo volume dell’opera esce nelle libreria intorno al 1986; il secondo, invece, vede la luce nel 1986 e diventa di “dominio pubblico” nel 1991. In Maus si raccontano due esistenze, due volti differenti di una stessa medaglia animati dallo stesso sangue, anche se, a volte, tanto distanti. Stiamo parlando di Vladek Spiegelman, padre dell’autore, che ha vissuto le terribili atrocità dell’Olocausto, e dello stesso Art, un figlio che vive il suo difficile rapporto con il padre. A creare una sorta di legame tra i due è proprio il progetto Maus: Art decide di raccogliere le testimonianze del padre e narrarle in prima persona, il tutto sotto forma di fumetto. Maus si trasforma, così, in una sorta di reportage, sospeso su due corde: sulla prima scorre il triste passato di Vladek nei campi di concentramento nazisti, sulla seconda viaggia invece l’eterno rapporto padre/figlio. È dunque una specie di autobiografia a fumetti quella che l’autore ci consegna, e lo fa non solo per far conoscere al grande pubblico gli orrori dell’Olocausto raccontandoli attraverso gli occhi di qualcuno che l’ha vissuto (Vladek), ma anche per “mettere in scena” una macchia indelebile della civiltà attraverso un mezzo del tutto nuovo ed inconsueto (il fumetto).
E poi c’è il segno indelebile di Maus rappresentato dai personaggi e dalle loro maschere. Spiegelman “cuce” infatti sui volti dei personaggi delle maschere da animale, maschere che stanno ad indicare l’indole stessa del popolo rappresentato e le sue caratteristiche tipiche. Ed ecco che gli ebrei vengono raffigurati con volti di topo, i tedeschi come gatti, i polacchi come maiali ed i francesi come rane. Una vera e propria metafora dunque che, per certi versi, può essere accostata alle metafore riformiste del Rinascimento che tanto abbondavano nelle famose xilografie, quando cioè i cattolici deridevano i protestanti rappresentandoli con tratti animaleschi.
Maus diventa così unico nel suo genere, un’opera che ci fa entrare nella vita segreta dell’autore e che getta un po’ di luce su una delle vicende più nere del mondo contemporaneo.

Emiliano Sportelli

giovedì 1 settembre 2011

LA GRANDE TRUFFA



















DEBITO PUBBLICO: LA GRANDE TRUFFA

di Giulietto Chiesa

Ma davvero dobbiamo tenerceli questi banchieri? A cosa servono le banche? Cos'e' la finanza? Perche' siamo tutti indebitati? Chi e' responsabile di questo debito? E' tutto normale in quello che sta accadendo, o c'e' qualcosa che non quadra?
Non si finirebbe piu' di fare domande quando si assiste alla commedia quotidiana delle borse che crollano, dei politici che si danno la colpa l'un l'altro, dei fantomatici “speculatori” che non si sa chi siano, salvo che sono certamente dei balordi miliardari che ci portano via i soldi dalle tasche.
Eppure tutto e' chiaro come il sole. Chi comanda il mondo occidentale (non il mondo, ma solo l'Occidente) sono le grandi banche. Le grandi banche sono solidali tra di loro e fanno parte di un pool molto ristretto. I “creditori”, apparentemente, sono loro. Sono loro che ormai dettano agli Stati quello che devono fare. E' la dittatura del denaro che ha cancellato ogni democrazia.
Ma e' poi vero che gli dobbiamo qualche cosa?
La risposta - la sanno tutti quelli che “sanno” - e' che siamo stati derubati. I grandi conglomerati finanziari dell'Occidente sono andati tutti in fallimento nel 2007. Sarebbero crollati tutti se la Federal Reserve, la Banca Centrale Europea e i paesi produttori di petrolio non fossero intervenuti, di fatto coprendo i loro crack. Hanno lasciato fallire la Lehman Brothers, per dare un contentino al grande pubblico ignaro. Tutti gli altri sono stati salvati. Con i soldi nostri.
Nessuna regola e' stata introdotta per tagliargli le unghie. E loro, una volta salvati dai governi, hanno chiesto di essere pagati una seconda volta. Certo i crediti, sulla carta, li hanno, ma sono i prestiti che hanno elargito sul niente. Producevano denaro con dei trucchi e lo prestavano facendosi pagare l'interesse da noi.
Quando si e' scoperto che bluffavano, hanno convocato i governi e i banchieri centrali (entrambi loro maggiordomi) e hanno detto: «siamo troppo grossi per fallire. Volete farci affondare? Peggio per voi. Niente piu' campagne elettorali gratis, niente piu' potere. Vi faremo fronteggiare le folle infuriate e scateneremo i nostri media contro di voi. Vi faremo a pezzi, pubblicheremo dove sono i vostri conti in banca, vi rinfacceremo i soldi che vi abbiamo dato sottobanco».
E governi e banche centrali hanno ovviamente ceduto, essendo i loro manutengoli. La Grecia, l'Irlanda, il Portogallo sono stati gli esperimenti preliminari. «Bisogna salvarli!», gridano tutti, altrimenti crolla l'euro, crolla l'Europa. Ma chi li deve salvare? Cioe' chi deve pagare i loro (falsi) debiti ai grandi banchieri? Gli Stati. Ma gli Stati sono gia' in rosso dopo i salvataggi delle banche del 2007-2008. Allora devono pagare le popolazioni. Anche l'Italia. Stanno dicendo ai popoli europei che e' finito il patto sociale che ha retto negli ultimi sessant'anni l'Europa occidentale.
Via il welfare, praticamente di colpo. E poi? Dicono: «poi si deve ricominciare a crescere».
Cioe' a consumare. Ma con quali soldi, se i redditi di tutti i lavoratori verranno falciati? E con quali beni, visto che dovremo privatizzare perfino il Colosseo, mentre le aste delle privatizzazioni saranno affollate di banchieri che verranno a comprare usando i nostri debiti, cioe' usando il denaro virtuale che loro hanno prodotto e noi abbiamo gia' pagato una volta.
Rapina bella e buona, o brutta e cattiva, se volete.
E noi che facciamo? I partiti, la sinistra non hanno nessuna idea alternativa, avendo da decenni ormai accettato tutti i ricatti possibili e immaginabili ed essendo parte della grande truffa.
La mia idea e' di mandarli tutti a quel paese e di organizzarci per impedire che ci esproprino. Bisogna dire, chiaro e tondo, che quei debiti sono illegali. Fatti da regimi corrotti alle nostre spalle. Cioe' non esigibili. Vogliamo sapere chi sono i creditori, vogliamo vederli in faccia, uno per uno. Vogliamo prima di tutto un “audit” indipendente. Poi vogliamo che cambino le regole. Uno Stato non e' equiparabile a una banca. Le vite di milioni di persone non sono quelle dei ricchi detentori delle maggioranze dei pacchetti azionari di una banca. Gli Stati devono avere accesso al denaro a tasso zero. Le banche devono avere riserve pari almeno alla quantita' di prestiti che erogano.
Eresia, eresia!, grideranno gli economisti che in tutti questi anni hanno tenuto bordone ai ladri.
Ma noi dobbiamo rispondere: «non pagheremo!».
Il problema e' come. La mia risposta e': difendere il nostro territorio. Come fanno i No tav della Val di Susa. Loro hanno capito e si sono organizzati. Facciamo la stessa cosa a Napoli e a Roma, a Palermo e a Bologna. Vedrete che li costringiamo a trattare.

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Per capire qualcosa di finanza, banche e debito pubblico, in maniera semplice ed efficace, guardate 'American Dream', documentario animato di Tad Lumpkin e Harold Uhl:

http://lascreeningroom.net/2011/06/american-dream-film-guarda-gratis-leggi-la-recensione/