giovedì 26 maggio 2011

I TEMPI CHE CAMBIANO

Può un sentimento come quello dell’amore portare un tale cambiamento nella vita di chi lo vive tale da far compiere azioni prima mai neanche pensate? Può trasformare, far morire, rinascere e morire di nuovo; lasciar andare per poi ritornare e quindi finalmente trovare e ri-trovare qualcuno perso per strada o forse soltanto messo in disparte; ma quando il sentimento è quello vero, quando ciò che si prova scaturisce davvero dal profondo, ecco allora che il tempo viene spezzato e tutto torna come deve essere: infinito.
Il film “ I tempi che cambiano”, pellicola fuori concorso al Festival del cinema Europeo, si basa proprio sul rapporto che si instaura tra il sentimento dell’amore e l’uomo stesso e su come questo sentimento può influire sulla persona; lo fa mettendo in mostra vari “modi” d’amare: quello più classico tra uomo e donna, l’amore che può esserci tra due sorelle gemelle e l’amore/passione tra due ragazzi.
Protagonista della storia è Antoine, un ingegnere edile appena atterrato a Tangeri dopo una vita passata in giro per il mondo a lavorare, alle prese adesso in Africa con una nuova avventura di lavoro; qui ritrova Cecile, il suo primo ed unico amore, la sola che abbia davvero contato qualcosa nella sua vita. In realtà Antoine (Gerard Depardieu) è alla ricerca di Cecile (Catherine Deneuve) ormai da anni, quando la ritrova, la donna ha già una famiglia; è sposata con un medico di Tangeri ed è madre di un figlio omosessuale. Antoine inizia a corteggiarla come un ragazzino senza dar peso al fatto che Cecile abbia già una famiglia; dapprima lei molto restia al ritorno dell’uomo lo respinge, ma, in seguito, una dolce passeggiata tra i boschi, insieme ai ricordi che affiorano e sono sempre più chiari, le faranno capire a chi appartiene davvero il suo cuore. Intrecciata a questa storia d’amore si sviluppano in simbiosi sia l’affetto che lega due sorelle gemelle divise tra Parigi e Tangeri, che la spirale di passione tra Sami, figlio di Cecile, con Said suo vecchio amico d’infanzia.
Ciò che il regista Andrè Techinè ci propone con questo suo lavoro è dunque un viaggio all’interno dell’animo stesso dell’uomo; con “I tempi che cambiano” ci offre la possibilità di rispondere ad uno degli interrogativi più ardui: esiste il vero amore? Possono due persone, se pur distanti nel tempo e nello spazio, continuare ad amarsi come se nulla fosse cambiato dal loro primo incontro? Certo la risposta è molta difficile da ricercare, ma è nostro dovere sperare e basare tutto sul concetto che il tempo non può e non deve ledere quello che il cuore ha creato.

Emiliano Sportelli

SCREAM 4

Il cinema horror ha da sempre collegato il fattore dello spavento con quello della sorpresa, punto d'incontro di questi due stati d'animo è sicuramente l'urlo; il grido, nato dal nostro più profondo, echeggia nei corridoi di un hotel, nelle sale d'attesa di un ospedale o in stanze affollate di adolescenti rumorosi che non odono con il loro orecchio la paura proveniente da chi, invano, cerca aiuto in sguardi anonimi.
“Scream 4” è l'ultimo lavoro del maestro del grido Wes Craven ideatore e regista di una delle più fortunate saghe horror degli anni Novanta che ha “allietato” le caldi e lunghe notti estive di chi, piuttosto che uscire con gli amici, non aspettava altro che l’inizio di Notte Horror.

Ritorna Ghostface, il killer che ha terrorizzato la tranquilla cittadina di Woodsboro e lo fa mettendo in mostra le sue armi migliori, quelle che da sempre hanno caratterizzato il suo personaggio, ossia: un bel coltello affilato e… un telefono cellulare. Lo scenario che Craven ci presenta è pressappoco lo stesso che ha caratterizzato i primi tre film: l’inizio (o meglio la ripresa) di omicidi seriali, una serie di indagini per portare alla luce il vero volto di Ghostface e il classico finale, quello a cui non avevi minimamente pensato e che rende chiara tutta la trama. Ritorna la protagonista dell'intera saga, Sidney Prescott (Neve Campbell) la quale, nel presentare il suo primo libro si trova nuovamente faccia a faccia con chi ha tormentato le sue notti di adolescente, con chi è stato al centro dei suoi incubi peggiori; anche questa volta Syd sarà affiancata da Dewey Riley (David Arquette) il polizziotto un po' impacciato ora divenuto sceriffo e ovviamente non poteva mancare la famosa scrittrice Gale Weathers (Courteny Cox); insieme i tre proveranno a salvarsi dalla lama di Ghostface e a salvare la vita degli ignari adolescenti di Woodsboro.

Oltre al già citato coltello e telefono cellulare, Craven pensa bene di inserire, adattandosi alla generazione del 2.0, una nuova arma a disposizione del cattivo di turno: la telecamera. In questo episodio, infatti, l'assassino ricorrerrà all'uso dell'occhio artificiale per filmare le sue vittime con l'intento di riuscire a girare l'horror perfetto seguendo gli stereotipi chiave del genere. Anche questa volta, però, Craven mischierà un po' le carte, distoglierà l'attenzione su alcuni personaggi e ne metterà in luce altri con l'obiettivo di fuorviare lo spettatore e farlo arrivare il pù tardi possibile a chiudere il cerchio e sbrogliare così la trama del film; si può ben dire che anche questa volta il regista è riuscito nel suo intento, difatti fino alle ultime battute il “vero” killer rimarrà sempre nell'ombra. Bella anche l’idea iniziale del regista che si diverte non poco con lo spettatore, facendogli assistere a diversi e possibili inizi del film; un Craven che si dimostra un professionista del genere, attento a tutti i dettagli e che ci fa rimpiangere gli anni Novanta targati Notte Horror.

Emiliano Sportelli

LIE TO ME









La menzogna è parte dell’uomo; nel bene e nel male fa da cornice alla nostra vita, ci porta ad affrontare situazioni non desiderate, a compiere azioni proibite. Volute o non volute, tali azioni, vengono eseguite proprio perché sappiamo mentire, forse ci consola il fatto che c’è sempre una via di scampo da queste situazioni e, magari apparirà un po’ strano, ma la fuga è proprio rappresentata dalla bugia. La bugia detta a fin di bene, quella detta per nascondere un tradimento, un furto, un omicidio… tutto questo, ed altro ancora, è umano.
La serie televisiva “Lie to me” si basa proprio su questo pregio/difetto dell’uomo e lo fa mettendo in scena i casi più disparati; le situazioni più diverse, sia singolari che comuni, sono all’ordine del giorno per il Lightman Group e il cercare di smascherare il falso diventa la loro sfida maggiore.
“Lie to me” riesce a conciliare i tratti caratteristici di un vero e proprio thriller psicologico; ogni episodio è infatti incentrato su situazioni che hanno a che vedere con la giustizia: tentati omicidi, violenze o minacce di ogni genere sono le sfide affrontate dal gruppo Lightman, ma non è solo questo; importanti, infatti, diventano i piccoli drammi quotidiani, quelli più comuni come tradimenti o litigi. È proprio in contesti del genere che la “scienza dei gesti e dei segni” riesce a dare il meglio di sé. Tutto quello che può apparire superfluo e passare inosservato agli occhi dei “comuni mortali”, non sfugge invece agli addetti ai lavori: la postura delle mani, il cambiamento del tono della voce o una semplice contrazione dei muscoli del viso diventano segni inequivocabili che portano allo smascheramento del colpevole.
Molto originale e ben studiata è inoltre la scelta di paragonare, attraverso brevi fotogrammi, i casi presenti in ogni puntata con quelli della vita reale: presidenti, sportivi o personaggi dello spettacolo, fotografati mentre “ammettevano” con il linguaggio del corpo un tradimento o una truffa, rendono ancor più chiara ed interessante, per lo spettatore, le teorie esposte in ogni singola puntata.
È probabilmente da questo ultimo tratto che la serie tv riesce a stabilire uno stretto legame con il pubblico a casa, legame che porta ad immedesimarci con lo scienziato Cal LIghtman e con la sua “voglia” di smascherare i bugiardi. Iniziando, così, a fare maggiore attenzione alle persone che ci circondano, cerchiamo di scoprire ogni minimo gesto o micro-espressione che ci riveli una menzogna o un qualsiasi sentimento umano.
E poi ovviamente c’è il cast: nonostante la dottoressa Gillian Foster e i due assistenti Eli Locker e Ria Torres siano ben interpretati rispettivamente da Kelli Williams, Brendan Hines e Monica Raymund, i loro personaggi vengono, a volte, oscurati dal vero e solo protagonista Tim Roth. Il camaleontico attore inglese dà prova di grande duttilità artistica; riesce a calarsi alla perfezione nelle panni dell’eccentrico e pieno di sé Cal Lightman, mettendo in mostra un personaggio sempre sopra le righe, senza peli sulla lingua e che guarda tutti dall’alto verso il basso. Ma Tim Roth non è certo una nuova scoperta; già nel film “Four Rooms” (solo per citarne un titolo) l’attore era riuscito ad inscenare, con enormi capacità, un lunatico fattorino alle prese con quattro diverse situazioni paradossali, compito questo molto arduo se pensiamo al fatto che l’ultimo dei quattro episodi vede come regista Tarantino.
Una serie quindi di alto livello e caldamente consigliata, che unisce l’ottima sceneggiatura di Samuel Baum con un’idea finalmente originale ed un cast di tutto rispetto.

Emiliano Sportelli

mercoledì 25 maggio 2011

ELDORADO – UN ROMANZO POP SULL’OMOFOBIA

Dopo un libro autobiografico e uno di favole, Vladimir Luxuria tenta la strada del romanzo con ‘Eldorado’ (Bompiani). L’artista ed ex-parlamentare affronta un viaggio nella storia del Novecento, dagli anni Trenta agli anni Ottanta, attraverso il protagonista Raffaele Palumbo, transgender foggiano trasferitosi a Milano. Oltre ad alcuni aspetti autobiografici che si possono riscontrare in Raffaele, le vicende rievocano e ripercorrono una vicenda storica alquanto drammatica, come l’irruzione delle SS nell’Eldorado, storico locale omosessuale berlinese in cui Raffaele lavorava come ballerino en travesti insieme ai due amici/“sorelle” Karl e Franz, chiuso dai nazisti nel 1933 e anticipatore della deportazione di migliaia di gay in carceri, ospedali e campi di concentramento. Raffaele verrà rispedito in Italia, mentre i suoi due amici tedeschi verranno torturati e deportati ad Auschwitz.
L’occasione che portò l’artista a scoprire l’Eldorado (una sorta di Muccassassina della Berlino anni Trenta dove aveva cantato anche Marlene Dietrich), fu l’invito, di qualche anno fa, a Palazzo Valentini, in occasione della giornata della memoria, per parlare delle deportazioni di 30.000 omosessuali nei campi di concentramento nazisti, circa la metà di essi non fece mai più ritorno. In particolare Luxuria venne colpita dalla foto di una drag queen dell’epoca “che sembrava mi guardasse negli occhi e mi dicesse ‘racconta questa storia’”. Alla fine del libro, in un’appendice, si può scorrere la lista di alcune delle persone gay sterminate, in quanto omosessuali, durante la Seconda Guerra Mondiale.
L’input che nel romanzo riconduce la memoria del protagonista a questi tragici ricordi è stata l’aggressione subita da Raffaele, gay settantenne nella Milano degli anni Ottanta. Una sera egli dà un passaggio in auto a un ragazzo che sembra intenzionato a sedurlo, ma appena giunti in periferia estrae il coltello e lo deruba, lo picchia e gli porta via la macchina. Una simile disavventura era capitata all’amico Aldo, da qui nasce il viaggio a ritroso nel tempo fino agli anni Trenta, seguendo un filo di violenza che dalle pazzie ideologiche del Nazismo continuano quasi ininterrotte fino ai giorni nostri.
A fare da contraltare, a controbilanciare la drammaticità della storia, vi è l’ironia del protagonista, nonostante gli insulti, i drammi, la ferocia degli altri subita sulla propria pelle, Raffaele non è mai diventato un “cinico” o un “cattivo”, ma, attraverso la lente del distacco dell’ironia, ha saputo difendersi abilmente e intelligentemente dagli stupidi attacchi da parte della gente.
Un romanzo per riflettere, un viaggio nella Storia, ma anche un modo per parlare della vecchiaia, della solitudine e dell’Amore vero, che può arrivare quando ormai si sono perse tutte le speranze di felicità. Un “romanzo pop sull’olocausto”, lo ha definito l’autrice. Un romanzo pop sull’omofobia tout court, aggiungerei.

Lina Rignanese

sabato 14 maggio 2011

IL SIGNOR VASQUES E LA RUA DOS DOURADORES

















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Il principale, il signor Vasques. Sento spesso, inspiegabilmente, l'ipnosi del signor Vasques. Ma che cosa è per me quest'uomo, oltre all'ostacolo occasionale di essere padrone delle mie ore, nello spazio diurno della mia vita? Mi tratta con simpatia, mi si rivolge con gentilezza, salvo che in certi inaspettati momenti di preoccupazione, allorché non è gentile con nessuno. Sì, ma perché mi preoccupa? È un simbolo? È una ragione? Cosa è?
Il principale, il signor Vasques. Ho già il suo ricordo proiettato nel futuro con la nostalgia che proverò allora. Io allora vivrò in pace in una casetta alla periferia di qualcosa, godendomi una tranquillità in cui non dovrò fare il lavoro che comunque anche ora non faccio e cercando, per continuare il mio non fare niente, scuse diverse da quelle con le quali oggi evito il confronto con me stesso. Oppure sarò ricoverato in un ospizio per poveri, pago della mia completa sconfitta e confuso fra quei relitti umani che pensavano di essere geniali e invece erano solo mendicanti carichi di sogni; io, insieme alla massa anonima di coloro che non ebbero la forza per vincere e neppure la generosa rinuncia per vincere alla rovescia. Dovunque sia, proverò nostalgia per il principale, il signor Vasques, per questa stanza di Rua dos Douradores. E la monotonia della vita quotidiana sarà per me come il ricordo degli amori che non ebbi, o dei trionfi che non sarebbero stati miei.
Il principale, il signor Vasques. Oggi lo vedo da quell’allora, come lo vedo oggi esattamente da qui: statura media, tarchiato, rozzo, con le sue doti e i suoi limiti, franco e astuto, brusco e affabile, un padrone, oltre che per i suoi soldi, anche per quelle sue mani villose e lente, dalle vene sporgenti come piccoli muscoli colorati, col collo robusto ma non grasso, con le guance colorite eppure lisce sotto la barba scura sempre accuratamente rasata. Lo vedo, vedo i suoi gesti lenti ed energici, i suoi occhi che portano dentro di lui le cose dell’esterno; colgo il turbamento del momento in cui mi disapprova, e il mio animo si rallegra per un suo sorriso, un sorriso vasto e umano, come l’applauso di una folla.
Forse sarà perché non ho vicino a me una figura più importante del signor Vasques che, spesso, questa figura comune e perfino volgare mi si inserisce nella mente e mi distrae da me stesso. Credo che egli sia un simbolo. Credo, sono quasi certo, che da qualche parte, in una vita remota, quest’uomo sia stato nella mia vita qualcosa di più importante di ciò che oggi non sia.

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Ah, ho capito!il signor Vasques è la Vita. La Vita, monotona e imprescindibile, legiferante e sconosciuta. Quest’uomo banale rappresenta la banalità della Vita. Egli, all’esterno, è tutto per me, perché la Vita per me è tutta all’esterno. E se l’ufficio di Rua dos Douradores per me rappresenta la Vita, questo secondo piano dove alloggio, nella stessa Rua dos Douradores, rappresenta per me l’Arte. Sì, l’Arte che alloggia nella stessa strada della Vita, però in un luogo diverso; l’Arte che allevia dalla Vita senza alleviare dal vivere, e che è tanto monotona quanto la vita, ma soltanto in un luogo diverso. Sì, questa Rua dos Douradores abbraccia per me l’intero senso delle cose, la soluzione di tutti gli enigmi, posto che esistano enigmi; fatto, questo, che non può avere soluzione.


NOTE:
i numeri stanno a indicare la posizione all’interno delle due versioni di riferimento:
- F. Pessoa,‘Il libro dell’inquietudine di Bernardo Soares', prefazione di A. Tabucchi, ed. Feltrinelli, 2008.
- I numeri tra parentesi da: F. Pessoa, ‘Livro do Desassosego por Bernardo Soares’, prefacio e organização de Jacinto do Prado Coelho, Ática, Lisboa, 1982, 2 voll.

LR

mercoledì 11 maggio 2011

NERONE - LA MOSTRA


(Simulazione proiezione notturna sulla Curia da via dei Fori Imperiali. A cura di Livia Cannella)







A due anni dalla mostra su Vespasiano, continua il viaggio tra gli imperatori romani proposto e curato dalla Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma e in particolare da Rossella Rea e Maria Antonietta Tomei. Il nuovo protagonista, fino al 18 settembre, sarà Nerone.
Personalità imponente, ingombrante ed eccentrica, intorno alla cui figura molte fonti letterarie e la tradizione cattolica hanno intessuto una leggenda nera. Accusato di aver bruciato Roma, di aver ucciso sua madre, sua moglie, numerosi collaboratori e avversari politici, di aver condannato a morte centinaia di cristiani, tra i quali i santi Pietro e Paolo, solo per citarne alcuni. Gli studiosi sono però, sempre più concordi nel ridimensionare la portata di molte efferatezze e di discolparlo in vari casi, per la cronaca non prese a calci Poppea fino a ucciderla, ma la sua amatissima seconda moglie morì probabilmente di parto.
Ricordato soprattutto per atti di ferocia e follia, poche volte si menziona il suo ingegno, il suo talento, e la vasta attività edilizia che portò alla costruzione, sotto il suo regno (54-68 dC), di numerose opere architettoniche e dell’impostazione urbanistica, ancora oggi evidente a Roma.
L’idea centrale della mostra è proprio quella di far rivivere Lucio Domizio Enobarbo in quei luoghi che lo hanno visto protagonista come aristocratico prima, come imperatore poi, e le fasi che hanno caratterizzato le sue straordinarie costruzioni, prima e dopo quell’evento che ne segnò vita e memoria.


(Progetto Katatexilux 2011)

La mostra interessa gran parte dell’area archeologica centrale: Foro Romano, Palatino, Colosseo. All’interno della Curia Iulia sono raccolti ritratti antichi, oltre a dipinti e sculture di età moderna che ne dimostrano la fama. Continuando nel Tempio di Romolo ci si imbatte in un video-wall dove viene proiettata una selezione di film a lui dedicata. Nel Criptoportico Neroniano si affronta il tema del lusso sfrenato e della propaganda, che vide l’assimilazione dell’imperatore al Sole e la sua celebrazione come vincitore dei Parti. Nel Museo Palatino è illustrata la fastosità della Domus Transitoria, il palazzo fatto costruire da Nerone prima dell’incendio del 64, non solo attraverso affreschi e marmi policromi, ma anche (e per la prima volta), con un video che ne ipotizza una ricostruzione in 3D. Il viaggio termina al II ordine del Colosseo con la ricostruzione del grande incendio fondata sui materiali rinvenuti nei recenti scavi. Essi hanno permesso di risalire alla situazione della valle del Colosseo il giorno prima della catastrofe, il giorno stesso (18 luglio 64) e poi all’inizio della costruzione sull’area. In questa sezione viene, inoltre, esaminata la straordinaria Domus Aurea, un complesso residenziale che si estendeva per circa 250 ettari.
Nel percorso non mancano alcune chicche, come la possibilità di osservare settori ancora in corso di scavo. Ad esempio negli Orti Farnesiani dove sono emersi importanti resti della Domus Tiberiana, come il portico colonnato che circonda una grande vasca polilobata, rivestita di lastre di marmo bianco e risalenti all’imperatore Claudio. In questo palazzo Lucio Domizio visse con il patrigno Claudio, che lo adottò, e alla madre Agrippina, e dove fu proclamato imperatore. Ancora, a Vigna Barberini è possibile osservare dall’alto (e guardare un filmato) quanto resta dell’ipotizzata ‘Coenatio Rotunda’, la famosa sala da pranzo girevole di cui parla Svetonio, riemersa dagli scavi alla fine del 2009.
Un percorso di circa un’ora e mezza, una discreta passeggiata e un tuffo profondo due millenni tra reperti e luoghi che conservano ancora tutta la possanza della Storia e al tempo stesso l’aleatoria consistenza di un personaggio immerso nel mito.

Lina Rignanese

venerdì 6 maggio 2011

VITA DA FREELANCE

Vita da freelance
I lavoratori della conoscenza e il loro futuro
Dario Banfi
Sergio Bologna
Feltrinelli
Pagine: 288
Prezzo: Euro 17,00








Chi sono i freelance? Come si organizzano? Come si rapportano con il mondo esterno? A questi e ad altri interrogativi rispondono Dario Banfi e Sergio Bologna nel libro ‘Vita da freelance’.
La parola ‘freelance’ significa propriamente ‘soldato di ventura’, ‘mercenario’. Oggi per estensione il termine indica la categoria dei lavoratori autonomi, dei precari, quelli dei call-center, dei contratti a termine o a progetto, il popolo delle partite iva, i giornalisti sottopagati o non pagati e tutti quei ‘brain workers’ (lavoratori della conoscenza) che oggi fanno fatica a emergere e a farsi pagare per le prestazioni concesse. Sono i cosiddetti lavoratori indipendenti “di seconda generazione”.
Nella confusione mediatica e politica si tende, spesso ed erroneamente, a includere nella definizione anche quei lavoratori non subordinati di “prima generazione”: coltivatori diretti, commercianti, artigiani, professioni liberali protette da ordini.
Ecco, la distinzione più evidente tra le due “generazioni”, appare essere quella legata alla rappresentanza politica, sindacale o professionale (albi o ordini). I freelance sono completamente lasciati allo sbaraglio: non ci sono forze politiche né sindacali che abbiamo realmente capito l’importanza di farsi portavoce di questa marea di gente – per lo più giovani al primo lavoro –, né di portare avanti una battaglia per la riconquista di quei diritti che per un lavoratore dipendente risultano, invece, essere basilari e sacrosanti.
Quella che è una parte dei lavoratori di oggi, e che si appresta a diventare la maggioranza nel futuro, vuole il pieno riconoscimento di un sistema di protezione sociale che garantisca i diritti fondamentali di maternità, di malattie, di ferie pagate, di disoccupazione, di pensione.
In questa situazione di vuoto rappresentativo, che dimostra l’ennesimo ritardo del nostro Paese rispetto agli esempi esteri presi in esame nel libro (Inghilterra, Francia, Germania, USA), i due autori vedono come indispensabile, oltre che come naturale sviluppo, l’autorganizzazione, la coalizione, il farsi portavoce di se stessi, uniti trasversalmente nella moltitudine delle categorie coinvolte. Solo nella conquista della parità dei diritti (con i lavoratori dipendenti) il freelance potrà essere libero di scegliere se essere flessibile oppure stabile e subordinato. Flessibilità non può essere sinonimo di precarietà. Non si costruisce il futuro dei singoli o di una Nazione sulla precarietà, di contro, lo si abbatte sul nascere.
“Non resta che unirsi” – sentenzia Banfi – e ridare nobiltà e decoro costituzionale al Lavoro oggi reso degradante e viziato.

Lina Rignanese