mercoledì 23 febbraio 2011

IL GRINTA

Era la prima volta che mi si dava la possibilità di vedere un vero film western al cinema; assaporare, seduto in poltrona, il genere cinematografico americano per antonomasia era certo un’occasione che non potevo perdermi. È stato grazie ai Coen, i due fratelli registi e padroni della commedia grottesca, che questo sogno (chiamiamolo così) si è potuto realizzare. “Il Grinta” (True Grit), uscito nelle sale italiane pochi giorni fa, richiama alla perfezione i vecchi film western che spesso la televisione passa ancora, anche se (forse è inutile dirlo) con quel tratto caratteristico che solo Joel e Ethan Coen sanno creare.
Se con “Non è un paese per vecchi” i due registi ci avevano già fatto pregustare qualche singolare tratto western, omaggiandone il genere in un Texas contemporaneo, con “Il Grinta”, remake dell’omonimo film di Henry Hathaway che valse l’Oscar al leggendario John Wayne, i Coen sono riusciti nell’impresa di unire fucili, whisky e speroni con battute e scene grottesche come solo loro sanno fare. Certo dimenticatevi i Coen che vi hanno fatto ridere con “Burn after reading” o che con “Ladykillers” vi hanno fatto immedesimare nelle vicende di una nonna assassina perché qui non li troverete; le scene alla Coen (come le chiamo io) si possono infatti contare sulle dita di una mano, ma di sicuro valgono il prezzo del biglietto.
Trasportato dalla nostalgica e patriottica colonna sonora di Carter Burnwell, “Il Grinta” riporta una nuova luce su di un genere che forse aveva già esaurito (a malincuore) le armi a propria disposizione e lo fa anche grazie ad un cast di attori di prima scelta che riesce a richiamare alla perfezione i vecchi attori western degli anni Cinquanta, con le loro storie da raccontare, la bottiglia di whisky nel taschino del giaccone e la fedele colt nella fondina.
La scelta degli cast è, infatti, stata impeccabile. Jeff Bridge riesce quasi a far dimenticare del tutto l’amato John Wayne, con un’interpretazione davvero eccellente; il suo fare da burbero indomabile, rude con la voce roca, pieno di rabbia seppur con un cuore tenero creerà da oggi in poi una “nuova versione” rispetto al Bridge che anche in passato siamo riusciti ad apprezzare; il suo Rooster Cogburn è stato fenomenale. Ed accanto lui Matt Damon che riesce finalmente a svestire i panni del classico biondo/palestrato e a calarsi alla perfezione nei panni del ranger texano La Boeuf, strafottente e pieno di sé. Una menzione merita inoltre Josh Brolin (Tom Chaney) che dà il meglio di sé in un’apparizione di alto livello seppur breve.
Ovviamente accanto a tre “super-duri” non poteva mancare la figura femminile che in questo caso non ha più di quattordici anni; stiamo parlando di Mattie Ross, bambina audace e temeraria, una spina nel fianco di qualsiasi imbroglione; forse poco attraente, ma intelligente e saggia come poche alla sua età, riuscirà ad ingaggiare lo stesso Grinta con l’intento di scovare l’assassino di suo padre. Complimenti dunque alla giovane spavalda Hailee Steinfeld giustamente candidata all’Oscar come miglior attrice non protagonista.
Dunque un western moderno ed affascinate, forse unico per alcuni tratti dove, oltre alle sparatorie e alle cavalcate notturne, c’è una storia d’amicizia tra un vecchio ubriaco ed una ragazzina che farà da cornice a tutto il film.

Emiliano Sportelli

lunedì 7 febbraio 2011

THE ROAD

Da qualche tempo il cinema americano si sta confrontando con il tema dell’apocalisse; pellicole come “The mist”o “The day after tomorrow” si basano sull’idea della fine di tutto e del tutto, la cancellazione dell’esistenza e quindi dell’umanità è il traguardo che si è raggiunto a causa (ironia della sorta) dell’uomo stesso. Il film “The Road”, uscito nelle sale italiane nel maggio del 2010, affronta anch’esso il tema della fine, ma lo fa con alcune varianti che rendono il lavoro di John Hillcoat forse unico nel suo genere.
Caratteristica tipica del film, che poi diventa la sua arma più efficace e meglio riuscita, è sicuramente l’incertezza; i mille punti interrogativi che fa nascere nello spettatore diventano allo stesso tempo il suo punto di forza: capire il perché di questo viaggio, perché si è arrivati a questo punto, perché continuare ad andare avanti? Sono questi le domande che ci poniamo guardando il film e che non trovano tutti una risposta alla fine; i dubbi e le incomprensioni finali restano infatti, ma il bello è anche questo.
In un’America dove la catastrofe, la desolazione e la paura di vivere diventano lo specchio del mondo, dove gli alberi cadono ormai morti sul terreno e il grigiore del cielo e della terra tutta è l’unico colore riconoscibile ed anche l’umanità è ridotta a zero; gli ultimi uomini rimasti hanno infatti perso anche le piccole briciole della loro coscienza. Si lotta per sopravvivere e l’istinto di sopravvivenza delle persone le ha trasformato in bestie portandole così a cibarsi dei propri simili per riuscire a vivere; chi invece rinuncia al cannibalismo decide, senza scrupoli o ripensamenti di togliersi la vita. Homo homini lupus. Come si è arrivati a tutto questo sarà un mistero che accompagnerà lo spettatore per tutta la durata del film.
È proprio in quest’aria di sofferenza, di follia mista a dolore che comincia il viaggio di un uomo insieme a suo figlio – dei due non sapremo mai i nomi, fatto questo che sta quasi ad indicare una perdita di personalità – alla ricerca di un luogo più sicuro e meno ostile per vivere. Il loro cammino non sarà inteso soltanto come un tentativo di fuga dalle difficoltà e dalle atrocità del mondo che purtroppo sono costretti ad abitare, ma porterà i due a confrontarsi anche con loro stessi; chi davvero essi siano e quanta umanità li è rimasta dentro diverranno interrogativi che, nel bene o nel male, riempiranno le menti dei due viaggiatori. A tal proposito, diventa significativa la scena in cui il padre abbandona nudo e senza cibo un viandante, condannandolo a morte certa, decisione questa non condivisa dal figlio che ha ancora un cuore “umano” che gli batte dentro; la speranza sembra, infatti, non aver ancora lasciato il piccolo; al contrario l’uomo cerca soltanto di mantenere in vita più possibile sia lui che il figlio non curandosi di altro né di altri. Questo confronto, o se vogliamo questa diversa visione delle cose sarà presente per tutto il film, facendo anche immedesimare lo spettatore nei due pellegrini: cosa avrei fatto io se fossi stato nei loro panni?
Lo stesso finale lascia alcuni dubbi che, come già detto, rendono il film ancor più grande: infatti, alla sorte ormai certa del padre si accompagna l’incerto futuro del figlio (Kodi Smit-McPhee) recuperato su una spiaggia da un uomo ed una donna pieni di buone intenzioni, ma con altri due figli da sfamare…
L’ottima fotografia di Javier Aguirresarobe rende ancor più soffocante e crudo il mondo nel quale si è giunti. Viggo Mortensen riesce a dare il meglio di sé nei panni di un padre e di un uomo, tirando fuori tutta la durezza possibile del suo volto ormai segnato dalla fame e dal freddo e senza lasciar trasparire sorrisi e dolci sguardi appartenenti ad un remoto passato che purtroppo non ha ancora dimenticato.

Emiliano Sportelli

venerdì 4 febbraio 2011

LA VERSIONE DI BARNEY

Che sia il fato, il destino o semplicemente il naturale corse degli eventi (fate un po’ voi) il fattore che spesso ci mette lo zampino e ci fa finalmente vedere le cose così come stanno, che ci spalanca le porte di una verità che per lungo tempo è stata offuscata. Ed ecco all’improvviso tutto ci risulta più chiaro e limpido e magari ci fa anche sorridere un po’, dissipando dubbi ed incertezze che ci siamo portati dentro per tutta una vita.
La versione di Barney è un film che si concentra proprio sulla misteriosa morte di un uomo e su tutte le vicende legate ad essa: come è avvenuta, chi ne è stato l’artefice e cosa ha comportato. Dietro di essa c’è (come spesso accade) una donna la quale, nel bene e nel male, contribuisce ad innescare una serie di eventi (sia drammatici che comici) che mai si sarebbero creduti possibili, portando così il film a diventare una storia divertente, ma senza celare una tristezza che, in fin dei conti, rende questo lavoro degno di nota.
Il film, tratto dall’omonimo romanzo di Mordecai Richler, è diretto da Richard J. Lewis (davvero ottimo questo suo primo lavoro) e racconta la vita di Barney, interpretato con la solita bravura a cui ci ha abituato da Paul Giamatti che con il suo faccione buffo e gli occhi pieni di vita si adatta alla perfezione al personaggio di Barney, un ebreo un po’ fuori dalle righe. Tutto il film si concentra sui suoi momenti più belli e su quelli più tristi: le birre svuotate al bar con gli amici a guardare la partita di hockey, i suoi viaggi in giro per il mondo, il rapporto con i suo figli e con suo padre (un grande e sempreverde Dustin Hoffman) ed ovviamente, non potevano mancare, i suoi amori. L’amore, insieme alle sue amicizie, risulta essere infatti il pezzo fondamentale del puzzle della vita di Barney; di fatto tutto parte da questi due sentimenti che vanno a braccetto nel cuore del protagonista e lo portano a fare delle scelte, a volte avventate ed istintive, ma che risultano sempre essere le migliori.
Il suo smodato amore per Miriam (Rosamund Pike) diventa la cornice di tutta la sua esistenza; un amore che va al di là del semplice stare insieme; infatti sembra quasi che grazie a Miriam, la vita di Barney si sia data un’assestata sui binari del vivere bene, ma la gelosia del protagonista nei confronti della moglie, porterà il buffo Barney a perdersi nuovamente e a rimpiangere i suoi errori fatti nei confronti di Miriam. E poi c’è il suo caro amico Boogie (Scott Speedman), il loro rapporto fraterno destinato a frantumarsi e la sua morte che creerà enormi interrogativi, destinati poi a dissiparsi nel finale.
Un film tenero nei contenuti, ma comico allo stesso tempo; Paul Giamatti è un grande e la voce di Leonard Cohen fa da colonna sonora per tutto il viale della vita di Barney.

Emiliano Sportelli