Da qualche tempo il cinema americano si sta confrontando con il tema dell’apocalisse; pellicole come “The mist”o “The day after tomorrow” si basano sull’idea della fine di tutto e del tutto, la cancellazione dell’esistenza e quindi dell’umanità è il traguardo che si è raggiunto a causa (ironia della sorta) dell’uomo stesso. Il film “The Road”, uscito nelle sale italiane nel maggio del 2010, affronta anch’esso il tema della fine, ma lo fa con alcune varianti che rendono il lavoro di John Hillcoat forse unico nel suo genere.
Caratteristica tipica del film, che poi diventa la sua arma più efficace e meglio riuscita, è sicuramente l’incertezza; i mille punti interrogativi che fa nascere nello spettatore diventano allo stesso tempo il suo punto di forza: capire il perché di questo viaggio, perché si è arrivati a questo punto, perché continuare ad andare avanti? Sono questi le domande che ci poniamo guardando il film e che non trovano tutti una risposta alla fine; i dubbi e le incomprensioni finali restano infatti, ma il bello è anche questo.
In un’America dove la catastrofe, la desolazione e la paura di vivere diventano lo specchio del mondo, dove gli alberi cadono ormai morti sul terreno e il grigiore del cielo e della terra tutta è l’unico colore riconoscibile ed anche l’umanità è ridotta a zero; gli ultimi uomini rimasti hanno infatti perso anche le piccole briciole della loro coscienza. Si lotta per sopravvivere e l’istinto di sopravvivenza delle persone le ha trasformato in bestie portandole così a cibarsi dei propri simili per riuscire a vivere; chi invece rinuncia al cannibalismo decide, senza scrupoli o ripensamenti di togliersi la vita. Homo homini lupus. Come si è arrivati a tutto questo sarà un mistero che accompagnerà lo spettatore per tutta la durata del film.
È proprio in quest’aria di sofferenza, di follia mista a dolore che comincia il viaggio di un uomo insieme a suo figlio – dei due non sapremo mai i nomi, fatto questo che sta quasi ad indicare una perdita di personalità – alla ricerca di un luogo più sicuro e meno ostile per vivere. Il loro cammino non sarà inteso soltanto come un tentativo di fuga dalle difficoltà e dalle atrocità del mondo che purtroppo sono costretti ad abitare, ma porterà i due a confrontarsi anche con loro stessi; chi davvero essi siano e quanta umanità li è rimasta dentro diverranno interrogativi che, nel bene o nel male, riempiranno le menti dei due viaggiatori. A tal proposito, diventa significativa la scena in cui il padre abbandona nudo e senza cibo un viandante, condannandolo a morte certa, decisione questa non condivisa dal figlio che ha ancora un cuore “umano” che gli batte dentro; la speranza sembra, infatti, non aver ancora lasciato il piccolo; al contrario l’uomo cerca soltanto di mantenere in vita più possibile sia lui che il figlio non curandosi di altro né di altri. Questo confronto, o se vogliamo questa diversa visione delle cose sarà presente per tutto il film, facendo anche immedesimare lo spettatore nei due pellegrini: cosa avrei fatto io se fossi stato nei loro panni?
Lo stesso finale lascia alcuni dubbi che, come già detto, rendono il film ancor più grande: infatti, alla sorte ormai certa del padre si accompagna l’incerto futuro del figlio (Kodi Smit-McPhee) recuperato su una spiaggia da un uomo ed una donna pieni di buone intenzioni, ma con altri due figli da sfamare…
L’ottima fotografia di Javier Aguirresarobe rende ancor più soffocante e crudo il mondo nel quale si è giunti. Viggo Mortensen riesce a dare il meglio di sé nei panni di un padre e di un uomo, tirando fuori tutta la durezza possibile del suo volto ormai segnato dalla fame e dal freddo e senza lasciar trasparire sorrisi e dolci sguardi appartenenti ad un remoto passato che purtroppo non ha ancora dimenticato.
Emiliano Sportelli
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