lunedì 18 gennaio 2010

«Uniti in mille forse possiamo fare almeno un mezzo Pasolini»

LA RIVOLTA DELLA POESIA

di Pietro Spataro

Da Bari e da Torino. Da Bologna e dall'Aquila. Da Ancona e da Milano. Sono arrivati da tutta Italia, in macchina e in treno: tutti a spese proprie. Si sono ficcati, pigiati uno addosso all'altro, dentro un piccolo locale di San Lorenzo a Roma e sono stati per sei ore a discutere di questo Paese spezzato, dell'odio contro gli immigrati, della scuola malata, della cultura depredata, della tv che comanda. Lo hanno nominato poco, ma dietro ogni discorso c'era lui: Silvio Berlusconi. I protagonisti di questa «rivolta delle parole» sono poeti.

Quei trenta che due mesi fa scrissero poesie per l'antologia «Calpestare l'oblio» (che abbiamo pubblicato su l'Unità) più tanti altri che si sono aggiunti strada facendo. Più tanti altri ancora che non scrivono poesie ma le amano e le leggono e che soprattutto non sopportano la cappa di piombo che oggi pesa sull'Italia. Oltre cento in tutto.

Già questo è un fatto strano. Mentre il quartiere romano della movida si prepara alla lunga notte dei pub, dei locali e delle osterie, più di cento persone mettono in scena la loro protesta. Ci sono tantissimi giovani, la maggioranza: non hanno nemmeno trent'anni e si sentono defraudati del proprio futuro. Hanno studiato, si sono laureati e ora arrancano in una società che premia i grandi fratelli ma non fa nulla per quelli che hanno faticato sui libri sperando di fare cosa giusta e utile. Evelina De Signoribus è una di queste: viene da Cupra Marittima, è laureata in Lettere e sta studiando per la seconda laurea. «La scuola è un vero disastro - dice - La Gelmini la sta distruggendo e alla fine noi non riusciamo a trovare uno straccio di lavoro».

Davide Nota, che è il giovanissimo padre di questa ribellione nata sul web, era preoccupato ma alla fine osserva soddisfatto la platea e il piccolo palco. «Vedi, tutta questa gente è la dimostrazione che i poeti possono smetterla di fare le monadi - spiega - e devono confrontarsi con la realtà che sta lì fuori». Lui crede con tutta l'anima che bisogna battersi contro il consumismo che «riduce l'individuo a un ruolo». Franco Buffoni è poeta assai rodato, ha sessant'anni e si muove agilmente in mezzo a questi ragazzi jeans e maglietta che vogliono cambiare il mondo cambiando le «piccole cose». «Il danno più grande - spiega - è la rimozione della cultura. Un tempo la tv educava, poi sono arrivate le tv commerciali e allora è iniziato il declino». Ironizza Flavio Santi, trentenne friulano: «Siamo in una situazione in cui possiamo dire, con Homer Simpson: tutto quel che so l'ho imparato dalla tv. È un dramma».

Questo giovane movimento è nato dal verso di un ottantenne come Roberto Roversi: «Calpestare l'oblio / il viaggio dei ricordi non è mai finito / là c'ero anch'io». Difesa della memoria, battaglia contro chi vuole cancellare la storia, e tutti dalla parte della Costituzione: il progetto è qui. I ragazzi osservano un Paese che è diventato cinico e razzista (basta guardare a Rosarno), che si è votato al consumismo e ha spezzato ogni legame sociale. È ormai il luogo dove trionfa l'individualismo. «Usatela la poesia - dice Rosemary Liedl, vedova di Antonio Porta - Abbiate il coraggio di ritrovare la forza di fare». Aggiunge Maria Grazia Calandrone: «Come diceva Borsellino parlando di mafia: uniamoci, non potranno ammazzarci tutti». Enrico Piergallini, poeta vicesindaco a Grottammare, indica un compito: «Penetrare nella coscienza dei cittadini».

Ma è questo il ruolo di un poeta? È questo. Perché di poeti cuore-amore, pensano, ne abbiamo sopportati troppi. Perché di fronte allo sfascio del Paese occorre sporcarsi le mani con la realtà. Come dice Gianni D'Elia: «Uniti in mille forse possiamo fare almeno un mezzo Pasolini». Poeti così non piacciono. Non piacciono ai giornali della destra (Giornale e Foglio) che li hanno attaccati duramente. Ma nemmeno ai giornali come il Corriere e a tutti gli altri che infatti li ignorano. Pensano che la poesia debba stare al posto suo: lontana dai drammi della vita, lontana dalla politica. Invece, come ha detto qualche mese fa proprio su questo giornale Andrea Zanzotto, «la poesia ha un ruolo fondamentale in questa melma di disvalori: crerare le connessioni tra passato e futuro».

Questi ragazzi venuti da ogni parte d'Italia lo sanno e infatti vanno avanti con passione. La strada sarà lunga. Ma forse anche in mezzo a loro, così come in mezzo al «popolo viola», l'opposizione potrà ritrovare il filo del verso giusto.
pspataro@unita.it

(fonte: http://giubberosse.blog.unita.it//La_rivolta_della_poesia_898.shtml)

mercoledì 13 gennaio 2010

“J’accuse!...”


di Lina Rignanese

Il 13 gennaio 1898, Emile Zola pubblicò, sul quotidiano socialista francese “L’Aurore”, uno dei testi più importanti per la storia moderna e contemporanea. Scrisse il “J’Accuse…!”, una lettera aperta all’allora Presidente francese, Félix Faure, in difesa di Alfred Dreyfus, l’ufficiale francese vittima di uno degli scandali politico-giudiziari più ingarbugliati. La sua vicenda, l’affaire, nata nel 1894, si sciolse in 12 anni, passati in isolamento e sotto stretta sorveglianza sull’isola di Caienna, nella Guyana Francese, la cosiddetta “Isola del diavolo”.

Fu propri questo testo a scuotere le coscienze di politici militari intellettuali ed una parte dell’opinione pubblica. Fu in questo pamphlet che Zola fece i nomi e cognomi dei politici e militari coinvolti nella terribile macchinazione di una vicenda losca che necessitava di un capro espiatorio per salvaguardare qualche alto grado dello stato maggiore, e lo trovarono, per l’appunto, nel giovane ebreo-alsaziano, Dreyfus.

Quelli erano gli anni in cui la Francia, isolata politicamente, covava in sé il germe dell’antisemitismo, infatti nel 1886 era apparso il libro antisemita di E. Dumont, “La France juive”, che con la sua equazione “ebreo=traditore per definizione”, ebbe un vasto successo. Nei primi anni 90, si era radicalizzato il nazionalismo, in chiave aggressiva, nei confronti dei lavoratori stranieri immigrati (in particolar modo verso gli italiani, numerosi nella Francia meridionale; sanguinosi furono gli episodi di Aigues-Mortes nel 1893 e quello di Lione nel ‘94).

Erano gli anni in cui il concetto di “democrazia” si andava formando e con esso anche quello di “diritti umani” e, per di più, emerse con veemenza il potere della stampa, il “quarto potere”, capace di influenzare e creare l’opinione pubblica. L’affaire Dreyfus fu la prima battaglia politica condotta attraverso i mass-media, e rappresentò la prima volta che un intellettuale, che un movimento di intellettuali fosse politicamente impegnato; fu anche la prima volta che venne fuori l’aberrazione per la cosiddetta “ragion di stato”, che concedeva agli alti ranghi politico-militari e clericali di poter sacrificare vite umane a proprio piacimento e per i propri interessi.

Il testo dello scrittore francese, è molto forte ed incisivo. Gli costò un anno di carcere e il pagamento di una multa di 3000 franchi. La stessa morte di Zola, avvenuta il 5 ottobre 1902, si ipotizza, possa essere avvenuta per mano di qualcuno che avesse voluto vendicarsi di quell’affaire: morì, infatti, asfissiato a causa di una canna fumaria volontariamente manomessa da un fumista.

Dreyfus fu scagionato e reintegrato solo nel 1906, quando la Corte di Cassazione annullò la sentenza dell’appello e lo dichiarò innocente. Ma solamente nel 1995, le alte cariche dell’esercito francese, si pronunciarono dichiarando l’assoluta innocenza dell’ufficiale.

Di seguito il testo.

“J’accuse…!”

«Monsieur le Président,

permettetemi, grato, per la benevola accoglienza che un giorno mi avete fatto, di preoccuparmi per la Vostra giusta gloria e dirvi che la Vostra stella, se felice fino ad ora, è minacciata dalla più offensiva ed inqualificabile delle macchie». (…)

«È finita, la Francia ha sulla guancia questa macchia, la storia scriverà che sotto la Vostra presidenza è stato possibile commettere questo crimine sociale. E poiché è stato osato, oserò anche io. La verità, la dirò io, poiché ho promesso di dirla, se la giustizia, regolarmente osservata non la proclamasse interamente. Il mio dovere è di parlare, non voglio essere complice. Le mie notti sarebbero abitate dallo spirito dell'uomo innocente che espia laggiù nella più spaventosa delle torture un crimine che non ha commesso. Ed è a Voi signor presidente, che io griderò questa verità, con tutta la forza della mia rivolta di uomo onesto. In nome del Vostro onore, sono convinto che la ignoriate. E a chi dunque denuncerò se non a Voi, primo magistrato del paese? Per prima cosa, la verità sul processo e sulla condanna di Dreyfus. Un uomo cattivo, ha condotto e fatto tutto: è il luogotenente colonnello del Paty di Clam.» (…)

«Dichiaro semplicemente che il comandante del Paty di Clam incaricato di istruire la causa Dreyfus, come ufficiale giudiziario nel seguire l'ordine delle date e delle responsabilità, è il primo colpevole del terribile errore giudiziario che è stato commesso. L'elenco era già da tempo nelle mani del colonnello Sandherr direttore dell'ufficio delle informazioni, morto dopo di paralisi generale. Ebbero luogo delle fughe, carte sparivano come ne spariscono oggi e l'autore dell'elenco era ricercato quando a priori si decise poco a poco che l'autore non poteva essere che un ufficiale di stato maggiore e un ufficiale dell'artiglieria: doppio errore evidente che mostra con quale spirito superficiale si era studiato questo elenco, perché un esame ragionato dimostra che non poteva agire soltanto un ufficiale di truppa. Si cercava dunque nella casa, si esaminavano gli scritti come un affare di famiglia, un traditore da sorprendere dagli uffici stessi per espellerlo. E senza che voglia rifare qui una storia conosciuta solo in parte, entra in scena il comandante del Paty di Clam da quando il primo sospetto cade su Dreyfus.»

«A partire da questo momento, è lui che ha inventato il caso Dreyfus, l'affare è diventato il suo affare, si fa forte nel confondere le tracce, di condurlo all'inevitabile completamento. C’è il ministro della guerra, il generale Mercier, la cui intelligenza sembra mediocre; c’è il capo dello stato maggiore, il generale de Boisdeffre che sembra aver ceduto alla sua passione clericale ed il sottocapo dello stato maggiore, il generale Gonse la cui coscienza si è adattata a molti. Ma in fondo non c’è che il comandante di Paty di Clam che li conduce tutti perché si occupa anche di spiritismo, di occultismo, conversa con gli spiriti. Non si potrebbero concepire le esperienze alle quali egli ha sottomesso l'infelice Dreyfus, le trappole nelle quali ha voluto farlo cadere, le indagini pazze, le enormi immaginazioni, tutta una torturante demenza. Ah! Questo primo affare è un incubo per chi lo conosce nei suoi veri dettagli! Il comandante del Paty di Clam, arresta Dreyfus e lo mette nella segreta. Corre dalla signora Dreyfus, la terrorizza dicendole che se parla il marito è perduto. Durante questo tempo, l'infelice si strappava la carne, gridava la sua innocenza. E la vicenda è stata progettata così come in una cronaca del XV secolo, in mezzo al mistero, con la complicazione di selvaggi espedienti, tutto ciò basato su una sola prova superficiale, questo elenco sciocco, che era soltanto una tresca volgare, che era anche più impudente delle frodi poiché i ”famosi segreti” consegnati erano tutti senza valore. Se insisto è perché il nodo è qui da dove usciva più tardi il vero crimine, il rifiuto spaventoso di giustizia di cui la Francia è malata.» (…)

«Accuso il luogotenente colonnello de Paty di Clam di essere stato l'operaio diabolico dell'errore giudiziario.» (…) «Accuso il generale Mercier di essersi reso complice, almeno per debolezza di spirito, di una delle più grandi iniquità del secolo. Accuso il generale Billot di aver avuto tra le mani le prove certe dell'innocenza di Dreyfus e di averle soffocate, di essersi reso colpevole di questo crimine di lesa umanità e di lesa giustizia, per uno scopo politico e per salvare lo stato maggiore compromesso. Accuso il generale de Boisdeffre ed il generale Gonse di essersi resi complici dello stesso crimine, uno certamente per passione clericale, l'altro forse con questo spirito di corpo che fa degli uffici della guerra l'arcata santa, inattaccabile. Accuso il generale De Pellieux ed il comandante Ravary di avere fatto un'indagine scellerata, intendendo con ciò un'indagine della parzialità più enorme, di cui abbiamo nella relazione del secondo un imperituro monumento di ingenua audacia. Accuso i tre esperti in scrittura i signori Belhomme, Varinard e Couard, di avere presentato relazioni menzognere e fraudolente, a meno che un esame medico non li dichiari affetti da una malattia della vista e del giudizio. Accuso gli uffici della guerra di avere condotto nella stampa, particolarmente nell'Eclair e nell'Eco di Parigi, una campagna abominevole, per smarrire l'opinione pubblica e coprire il loro difetto. Accuso infine il primo consiglio di guerra di aver violato il diritto, condannando un accusato su una parte rimasta segreta, ed io accuso il secondo consiglio di guerra di aver coperto quest’illegalità per ordine, commettendo a sua volta il crimine giuridico di liberare consapevolmente un colpevole
Formulando queste accuse, non ignoro che mi metto sotto il tiro degli articoli 30 e 31 della legge sulla stampa del 29 luglio 1881, che punisce le offese di diffamazione. Ed è volontariamente che mi espongo. Quanto alla gente che accuso, non li conosco, non li ho mai visti, non ho contro di loro né rancore né odio. Sono per me solo entità, spiriti di malcostume sociale. E l'atto che io compio non è che un mezzo rivoluzionario per accelerare l'esplosione della verità e della giustizia. Ho soltanto una passione, quella della luce, in nome dell'umanità che ha tanto sofferto e che ha diritto alla felicità. La mia protesta infiammata non è che il grido della mia anima. Che si osi dunque portarmi in assise e che l'indagine abbia luogo al più presto. Aspetto.

Vogliate gradire, signor presidente, l'assicurazione del mio profondo rispetto»

giovedì 7 gennaio 2010

Atlantide

di Lina Rignanese

L’ennesima occasione persa nel 2009. Il summit di Copenhagen rappresentava un punto di svolta, il momento per i leader del mondo di dimostrare con i fatti la volontà politica di cambiar rotta in ambito ambientale ed energetico. Invece, abbiamo assistito al solito giro di boa, tutti pronti, a vele spiegate, a prendere altro tempo. Ci si aspettava di fissare dei vincoli legislativi, dei termini di verifiche, ma non si è riuscito ad andare oltre l’Accordo teorico (dal momento che non è politicamente vincolante), di diminuire le emissioni globali del 50 per cento entro il 2050.

Gli scienziati avvertono: se le temperature aumenteranno di oltre 2°C, rispetto al 1990, i cambiamenti climatici non saranno più controllabili. Ci troveremmo dunque a vivere quello che è il mito di Atlantide: la furia della natura si abbatterebbe contro l’Uomo, spazzandolo via con tutta la sua arrogante ingordigia. Già oggi, gli impatti climatici cui assistiamo sono ben al di là delle previsioni; il fattore antropico ha accelerato quelle che sono le naturali dinamiche di mutazioni climatiche, apportando caotiche e distruttive alterazioni che sono tuttora visibili in alcune parti del mondo: siccità, inondazioni, scioglimento dei ghiacciai, indicano che gli impatti ci stanno già colpendo, “ora e qui”.

Eppur qualcosa teoricamente si muoverebbe, infatti, a livello internazionale i Paesi firmatari del Protocollo di Kyoto si impegnano a ridurre, nel periodo 2008-2012, le emissioni di gas serra in una misura non inferiore al 5% rispetto al 1990; per quanto riguarda i non firmatari di Kyoto, gli USA si impegneranno a ridurre del 17% e il Giappone del 25% entro il 2020. E in ambito europeo, dal marzo 2007, è entrato in vigore il pacchetto legislativo che intende consentire all’UE di ridurre di almeno il 20% le emissioni di gas serra e porta al 20% la quota di rinnovabili nel consumo energetico entro il 2020. Queste riduzioni per gli scienziati sono insufficienti, infatti, si dovrebbero tagliare le emissioni entro il 2020 del 25-40%. Stando agli impegni presi attualmente, una riduzione così modesta spingerebbe la temperatura ad un aumento di 3°C.

Quello che si evince dalla prospettiva futura è che l’Era delle fonti fossili (carbone, petrolio, gas), le maggiori emittenti di gas serra, è in fase terminale, anche se le corporazioni dei poteri forti continuano a mantenerle in vita, falsificando il mercato con sussidi (spesso statali) che rendono i combustibili fossili convenienti e più a buon mercato rispetto alle fonti rinnovabili. In questo mercato drogato dovrebbero intervenire i governi per eliminare le barriere (burocratiche e commerciali) innalzate ai danni dell’energia pulita ed imporre maggiori tasse per quelle compagnie che inquinano di più, aggiungendo ad essi al costo di mercato anche i costi socio-sanitari ed ambientali.

È un mercato drogato anche quello italiano, monopolizzato dai due colossi delle energia: Enel Spa ed Eni spa (di cui lo Stato dispone quote intorno al 30%). E il gruppo guidato da Piero Gnudi ha tutto l’interesse di rafforzare la propria quota di energia prodotta dal carbone (con le nuove centrali di Saline Joniche, Porto Tolle, Fiume Santo e Vado Ligure, Rossano Calabro e la riconversione della centrale di Torrevaldaliga, a nord di Civitavecchia) ed affermarsi nel campo del nucleare, dove è già presente in altri Paesi (Spagna, Slovacchia, Francia, Romania, Russia) attraverso partecipazioni ad altre società energetiche. Oppure gli interessi di Eni nella realizzazione di nuovi gasdotti, come l’ultimo contratto di 300 milioni di euro firmato il 22 dicembre scorso in favore di Snam Rete Gas (caposettore del gruppo Eni che si occupa del trasporto e della commercializzazione del gas), finanziato al 50% dalla Banca europea, per la realizzazione di due nuovi gasdotti, uno sorgerà in Puglia tra Massafra e Biccari, mentre l'altro in Lombardia, tra Cremona e Sergnano.

Finché il governo non stilerà un Piano Energetico Nazionale a dettare le linee guida dello sviluppo energetico dei prossimi anni, saranno gli infidi interessi economici a dettar legge a scapito del benessere collettivo e della reale situazione italiana. È importante inoltre che il governo garantisca la pluralità tra i soggetti che effettuano operazioni di produzione, trasmissione e dispacciamento di elettricità e gas.

Il futuro è nelle rinnovabili, dunque, ma l’Italia sembra non accorgersene e guarda indietro alla mancata stagione del nucleare, o al miracolo del carbone pulito, o al gas. Questa mancanza di lungimiranza è gravissima ed irresponsabile e mostra che il nostro Paese è vecchio, arteriosclerotico e non affatto saggio.

mercoledì 6 gennaio 2010

LO SQUALO


Regia Steven Spielberg

Sceneggiatura Carl Gottlieb, Peter Benchley

Fotografia Bill Butler

Musiche John Williams

Produzione Zanuck/Brown Production, Universal

Distribuzione CIC Video

Attori Roy Scheider, Robert Shaw, Richard Dreyfuss







Un thriller-horror, ecco come si potrebbe classificare “Lo Squalo”, uno dei film più importanti di Spielberg e tratto dal romanzo di Peter Benchley. Annunciato come un B-movie, “Lo Squalo” fu il film più visto del 1975 (suo anno d’uscita), è tutt’oggi considerato un classico della storia del cinema ed è al 48° posto nella lista dei cento miglior film statunitensi di sempre.


È la tensione la sua “arma” in più, Spielberg è stato un maestro in questo; lo squalo appare nel film poche volte, ma il gioco è proprio questo impressionare il pubblico con sguardi ed urla, oltre ovviamente ad una inquietante colonna sonora che meritò l’Oscar.


Una delle regie migliori a mio avviso, uno Spielberg giovane, (appena ventisettenne) ma già in grado di suscitare tremende fantasie negli spettatori; l’alta sfida che mette in scena con “Lo Squalo” riprende la classica diatriba tra l’uomo e la natura, una specie di “Moby Dick” riportato su pellicola, non a caso Quint (Robert Shaw) sembra proprio essere un “nuovo” capitano Achab.


Emiliano Sportelli

martedì 5 gennaio 2010

FARSA DI POTERE

di Lina Rignanese

Che farsa. Stiamo proprio delirando. È l’ennesimo insulto all’intelligenza umana e l’ennesima presa in giro del popolo italiano. A pochi giorni dall’annuncio da parte dell’ENAC (Ente nazionale per l’aviazione civile) dell’ordinanza (Ref No. 26/2009 e 79320/DIRGEN/DG) in base alla quale sarà possibile circolare via aerea nelle rotte domestiche anche con la licenza di pesca o di caccia, oggi Frattini, Ministro degli esteri, annuncia di essere favorevole all’utilizzo dei body scanner negli aeroporti. È una ridicola contraddizione, dunque, se da un lato si richiede massima sicurezza per le norme anti-terrosmo, d’altro lato si consente di volare senza un valente documento di riconoscimento. In settimana si svolgerà una riunione dei Ventisette per discutere delle misure di sicurezza da adottare. Afferma il ministro: “Il coordinamento europeo resta indispensabile”. Già, speriamo nel buon senso europeo!

Se ne faccia una ragione questo governo, le cose non vanno come loro le immaginano, la realtà è ben diversa da quella che stanno cercando di costruire; così facendo affosseranno ancora di più l’Italia – che di per sé, da anni, ahimè, non gode certo di buona salute né di buona stima all’estero.

Proprio dalla prospettiva estera, a mio avviso, dovremmo osservarci e notare che siamo fermi ai tempi del Neorealismo, ai Fellini, ai Pasolini, per non parlare poi del Rinascimento o dell’Impero Romano. Già, oggi l’Italia è conosciuta all’estero per il calcio, per la mafia, per le porcate del Premier, per la catastrofe de L’Aquila, per le minacce contro la Costituzione… insomma, i nostri punti deboli, il fango che ci attanaglia diventano il nostro il marchio di riconoscimento e questo non va. Proprio non va.

venerdì 1 gennaio 2010

"Per amore del mio popolo"


















di Lina Rignanese

Mi piacerebbe iniziare il 2010 ricordando un prete massacrato dalla guerra di camorra, un uomo che ha messo la sua vita nelle mani dell'impegno civile, della lotta alla criminalità organizzata, della costruzione di un mondo migliore dove giustizia sociale e amore siano principi fondamentali e realtà possibili: don Peppe Diana.

Don Peppe aveva 36 anni, quando il giorno del suo onomastico, il 19 marzo 1994, mentre si accingeva a celebrare la messa del mattino nella sua chiesa, due killer fecero irruzione nella sagrestia e gli spararono 4 colpi. Don Peppe morì all'istante.

Il suo impegno civile e religioso contro la camorra ha lasciato un segno profondo. Il suo scritto più noto è la lettera "Per amore del mio popolo", diffusa a Natale del 1991 in tutte le chiese di Casal di Principe e della forania di Casal di Principe, un manifesto dell'impegno sociale contro la criminalità organizzata.

Occorre non dimenticare gli eroi del nostro tempo, eroi che non sono semidei o figli di divinità pagane, ma semplicemente uomini, come tutti, e che più degli altri hanno saputo vivere come "un segno di contraddizione", come la voce fuori coro che sveglia le coscienze, che cerca di scuotere l'intera comunità verso un più gusto e legale senso di vita.

Di seguito il testo:

“PER AMORE DEL MIO POPOLO”

Siamo preoccupati

Assistiamo impotenti al dolore di tante famiglie che vedono i loro figli finire miseramente vittime o mandanti delle organizzazioni della camorra.
Come battezzati in Cristo, come pastori della Forania di Casal di Principe ci sentiamo investiti in pieno della nostra responsabilità di essere “segno di contraddizione”.
Coscienti che come chiesa “dobbiamo educare con la parola e la testimonianza di vita alla prima beatitudine del Vangelo che è la povertà, come distacco dalla ricerca del superfluo, da ogni ambiguo compromesso o ingiusto privilegio, come servizio sino al dono di sé, come esperienza generosamente vissuta di solidarietà”.

La Camorra

La Camorra oggi è una forma di terrorismo che incute paura, impone le sue leggi e tenta di diventare componente endemica nella società campana.
I camorristi impongono con la violenza, armi in pugno, regole inaccettabili: estorsioni che hanno visto le nostre zone diventare sempre più aree sussidiate, assistite senza alcuna autonoma capacità di sviluppo; tangenti al venti per cento e oltre sui lavori edili, che scoraggerebbero l’imprenditore più temerario; traffici illeciti per l’acquisto e lo spaccio delle sostanze stupefacenti il cui uso produce a schiere giovani emarginati, e manovalanza a disposizione delle organizzazioni criminali; scontri tra diverse fazioni che si abbattono come veri flagelli devastatori sulle famiglie delle nostre zone; esempi negativi per tutta la fascia adolescenziale della popolazione, veri e propri laboratori di violenza e del crimine organizzato.

Precise responsabilità politiche

E’ oramai chiaro che il disfacimento delle istituzioni civili ha consentito l’infiltrazione del potere camorristico a tutti i livelli. La Camorra riempie un vuoto di potere dello Stato che nelle amministrazioni periferiche è caratterizzato da corruzione, lungaggini e favoritismi.
La Camorra rappresenta uno Stato deviante parallelo rispetto a quello ufficiale, privo però di burocrazia e d’intermediari che sono la piaga dello Stato legale. L’inefficienza delle politiche occupazionali, della sanità, ecc; non possono che creare sfiducia negli abitanti dei nostri paesi; un preoccupato senso di rischio che si va facendo più forte ogni giorno che passa, l’inadeguata tutela dei legittimi interessi e diritti dei liberi cittadini; le carenze anche della nostra azione pastorale ci devono convincere che l’Azione di tutta la Chiesa deve farsi più tagliente e meno neutrale per permettere alle parrocchie di riscoprire quegli spazi per una “ministerialità” di liberazione, di promozione umana e di servizio.
Forse le nostre comunità avranno bisogno di nuovi modelli di comportamento: certamente di realtà, di testimonianze, di esempi, per essere credibili.

Impegno dei cristiani

Il nostro impegno profetico di denuncia non deve e non può venire meno.
Dio ci chiama ad essere profeti.
- Il Profeta fa da sentinella: vede l’ingiustizia, la denuncia e richiama il progetto originario di Dio (Ezechiele 3,16-18);
- Il Profeta ricorda il passato e se ne serve per cogliere nel presente il nuovo (Isaia 43);
- Il Profeta invita a vivere e lui stesso vive, la Solidarietà nella sofferenza (Genesi 8,18-23);
- Il Profeta indica come prioritaria la via della giustizia (Geremia 22,3 -Isaia 5)
Coscienti che “il nostro aiuto è nel nome del Signore” come credenti in Gesù Cristo il quale “al finir della notte si ritirava sul monte a pregare” riaffermiamo il valore anticipatorio della Preghiera che è la fonte della nostra Speranza.

NON UNA CONCLUSIONE: MA UN INIZIO

Appello

Le nostre “Chiese hanno, oggi, urgente bisogno di indicazioni articolate per impostare coraggiosi piani pastorali, aderenti alla nuova realtà; in particolare dovranno farsi promotrici di serie analisi sul piano culturale, politico ed economico coinvolgendo in ciò gli intellettuali finora troppo assenti da queste piaghe”
Ai preti nostri pastori e confratelli chiediamo di parlare chiaro nelle omelie ed in tutte quelle occasioni in cui si richiede una testimonianza coraggiosa;
Alla Chiesa che non rinunci al suo ruolo “profetico” affinché gli strumenti della denuncia e dell’annuncio si concretizzino nella capacità di produrre nuova coscienza nel segno della giustizia, della solidarietà, dei valori etici e civili (Lam. 3,17-26).
Tra qualche anno, non vorremmo batterci il petto colpevoli e dire con Geremia “Siamo rimasti lontani dalla pace… abbiamo dimenticato il benessere… La continua esperienza del nostro incerto vagare, in alto ed in basso,… dal nostro penoso disorientamento circa quello che bisogna decidere e fare… sono come assenzio e veleno”.

Forania di Casal di Principe (Parrocchie: San Nicola di Bari, S.S. Salvatore, Spirito Santo - Casal di Principe; Santa Croce e M.S.S. Annunziata - San Cipriano d’Aversa; Santa Croce – Casapesenna; M. S.S. Assunta - Villa Literno; M.S.S. Assunta - Villa di Briano; SANTUARIO DI M.SS. DI BRIANO )