sabato 27 marzo 2010

The elephant man

di Emiliano Sportelli

















Il tema del diverso è sempre stato un punto di riferimento per chi fa cinema. La ricerca di qualcosa che è lontana dalla nostra concezione di normalità ha da sempre attratto il pubblico; fa parte dell’essere umano il chiedersi se oltre il nostro orizzonte visivo ci sia qualcosa che ci sfugge, qualcosa che deve essere capito e che è portatore di bei sentimenti. È lecito farsi queste domande, la voglia di sapere è insita nella natura stessa dell’uomo. Ma a volte accade che questa voglia di conoscenza cada in qualcosa che non si era calcolato all’inizio e si trasformi in una semplice ricerca di vedere un ”altro” noi; lo sguardo allora si sterilizza e si fa vano portando lo spettatore ad utilizzare solo gli occhi per riuscire a vedere.

Questo è ciò che capita a chiunque posi lo sguardo su John Merrick (John Hurt) un ventunenne che dalla nascita è affetto da mali incurabili: il suo corpo è ricoperto da escrescenze tumorali, il cranio sproporzionato rispetto al resto del corpo e la colonna vertebrale deformata; a causa del suo aspetto esteriore è stato ribattezzato “l’uomo elefante”.
Dapprima schiavo del suo padrone che lo esibisce come fenomeno da baraccone in un circo ambulante, poi accolto in un ospedale londinese sotto la tutela del dottor Frederick Treves (Anthony Hopkins), John vedrà cambiare la sua esistenza sentendosi parte integrante di quel mondo che per troppo tempo ha solo visto e mai vissuto.
In verità l’idea di una vita comune sarà per John soltanto un’illusione; lo stesso dottore infatti, anche se nutre per lui un sincero affetto, è più attratto da Merrick in quanto caso clinico da studiare.
Questo porta a chiederci se esista davvero una differenza tra la violenza dell’ex padrone di John e la curiosità del dottore; entrambi mirano verso la ricerca di un profitto: il denaro per il primo, la fama e prestigio per il secondo.

Ecco allora che il tema del “diverso” diventa di grande attualità in questo contesto; il cercare l’altro per trovare poi noi stessi porta il dottore a scavare nell’animo di quella creatura, cercando non più di vederlo come un caso da curare, ma come un uomo dall’animo gentile e profondo intrappolato in un mondo che non riesce a vederlo veramente.
Spesso le cose sono diverse da quelle che appaiono, il tema del film è senza dubbio questo; la mostruosità esteriore di John Merrick fa da specchio al suo buon cuore e porta lo spettatore a confrontarsi con un nuovo “io” il quale riesce a capire il vero significato della parola bellezza.

Il “visionario” David Lynch ci consegna uno dei film più toccanti e profondi di sempre, un lavoro che ci lascia perplessi di fronte alla leggerezza di alcuni nei confronti di altri; un film sulla dignità e nobiltà d’animo.
La mano sapiente del regista descrive con grande accuratezza questo panorama, facendo sprofondare lo spettatore in una realtà troppo spesso sottovalutata o a volte dimenticata. L’idea di girare il film interamente in bianco e nero ricalca alla perfezione lo scenario della Londra vittoriana tanto ben raffigurato dal regista. Una pellicola per capire il senso stesso della bontà che con John Merrick raggiunge la più alta espressione possibile.

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