lunedì 12 aprile 2010

QUANDO IL JAZZ AVEVA SWING














CASA DEL JAZZ – 11 aprile 2010 - Roma
“Quando il jazz aveva swing” di Lino Patruno

È stato presentato domenica 11 aprile, presso la Casa del Jazz di Roma, il libro di Lino Patruno “Quando il jazz aveva swing”, edito da Pantheon. A introdurre il lavoro del chitarrista calabrese lo storico Lucio Villari, che ha contestualizzato gli anni in cui lo “swing” nasceva. Il termine inglese che significa “oscillazione” fece la comparsa, per la prima volta, nel 1907 con il brano “Georgia’ Swing” di “Jelly” Roll Morton. Ma fu agli inizi degli anni ’30, in pieno “New Deal”, che lo swing prese piede e si affermò con successo nei locali americani. Due erano i poli fondamentali della musica swing di quegli anni: Kansas City con il sound nero e blues di Count Basie da un lato, e New York, con la bianca musica sinfonica di “Duke” Ellington.
A differenza dei sottogeneri jazz che lo hanno preceduto, nello swing si assiste ad una maggiore importanza della sezione ritmica, generalmente composta da chitarra, pianoforte, contrabbasso e batteria, la quale ha il compito di creare una base per le improvvisazioni dei solisti; si sviluppano inoltre le big band, costituite anche da 20-25 elementi e, soprattutto, le improvvisazioni si affrancano completamente dalla semplice variazione sul tema divenendo a loro volta temi nel tema. Nel dopoguerra avvenne una trasformazione: i locali da ballo (come lo storico “Cotton Club” di NY) che ospitavano le grandi orchestre dovettero chiudere. Le formazioni jazz si ridussero a terzetti o sestetti. Erano gli anni in cui i locali da ballo preferivano quel genere che iniziava a scalpitare tra i giovani: il rock’n’roll.
Il libro di Patruno è suddiviso in due parti: la prima racconta gli incontri e le curiosità dell’autore con i grandi della storia del jazz, da Joe Villari a Fats Waller, da Ellington a Miles Davis, da Armstrong a Nick La Rocca; la seconda parte è dedicata, invece, all’attività di Patruno di questi ultimi dieci anni.
Un po’ forti e autocelebrative le tesi proposte dall’autore, il quale nell’affermazione “il futuro del jazz è soltanto nella (sua) storia (quando aveva swing, ndr)” dimentica e cancella volutamente tutto ciò che il jazz è diventato dai ’60 in poi: dal be-bop al free, dal cool all’acid, dal latin all’hard bop, dal fusion all’afro beat. Una “damnatio memoriae” troppo ardita, per condividerla.

Lina Rignanese

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