L'[A]lter è un contenitore senza coperchio. Una finestra sull'underground e sulle controculture.
domenica 28 febbraio 2010
La lettera degli universitari e ricercatori "viola"
Di seguito la lettera che studenti universitari e ricercatori "viola" hanno indirizzato al Presidente della Repubblica Napolitano.
«Illustre Presidente della Repubblica,
il nostro Paese sta vivendo una fase critica di lotta interna che vede contrapposte le forze politiche in uno scontro che rasenta l’aggressione fisica e non invece disponibili ad un confronto dialettico costruttivo. In Parlamento e nei pubblici dibattiti, l’avversario politico è visto più come un nemico da annientare che come un soggetto con il quale instaurare un dialogo efficace per governare seriamente e serenamente il Paese. La società è spaccata. Si è perso il senso dello stato costitutivo di ogni paese democratico. Stato inteso come unica entità, unico organismo vitale in cui ogni parte funziona in sinergia armonica con le altre per il pubblico interesse, nel rispetto delle diversità sociali, culturali, sessuali e religiose.
Siamo gli studenti di oggi e i lavoratori, forse, di domani. Siamo i giovani precari, neo-laureati, ricercatori. Noi che rappresentiamo il futuro dell’Italia, vediamo un Paese divorato dalla corruzione e stretto nella morsa soffocante di una tribbia economica che non lascia intravedere altro futuro, se non all’estero. La situazione non lascia scampo. Le classi sociali meno abbienti sono sempre più vessate, la classe media s’impoverisce sempre di più, i licenziamenti dei lavoratori sono all’ordine del giorno (Alcoa, Eutelia, Termini Imerese). In questo contesto, l’interesse della cultura e l’istruzione è diventato sempre più marginale, ne è prova lo smantellamento progressivo della scuola, dell’università e dell’editoria. In questa drammatica e caotica situazione, tuttavia, il governo è più impegnato a risolvere celermente le beghe giudiziarie di qualcuno, piuttosto che lavorare nell’interesse comune, portando l’Italia fuori da questa crisi il prima possibile.
Al di là di tutto ciò, sono continui, dannosi, pericolosi, gli ormai spacciati attacchi ai principi e ai valori sanciti dalla Carta Costituzionale, che rappresentano le fondamenta della nostra democrazia. È in corso un vero e proprio tentativo di sovvertimento delle regole. Eclatante è l’attacco al principio di uguaglianza sancito dall’articolo 3, secondo cui, tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge. Lo dimostrano i ddl sul processo breve e sul legittimo impedimento. Il legittimo impedimento, come è noto, consente al premier di giustificare la sua assenza nei processi che lo vedono imputato, qualora le udienze coincidano con impegni istituzionali. Il codice di procedura penale di per sé, già contempla una legge del genere, ma per il ddl presto votato recentemente alla Camera, si prevede che sia lo stesso Consiglio dei Ministri ad accertare che l’impedimento sia continuativo e correlato allo svolgimento delle funzioni governative, così da indurre il giudice a rinviare il processo a udienza successiva. In questa prospettiva è il Presidente del Consiglio stesso che si arroga il diritto di giustificare la sua assenza all’udienza in questione per “legittimo impedimento” facendo ricorso ai suoi poteri istituzionali. In tale eventualità, nei confronti del Presidente del Consiglio non si applicherebbe lo stesso parametro di uguaglianza davanti alla legge che invece si applica per tutti i comuni cittadini.
Ci rivolgiamo quindi a lei, signor Presidente della Repubblica, invitandola con forza a non firmare questa legge-vergogna che attenta ai principi costituzionali, democratici, etici e civili della nostra società. Le chiediamo perciò di rimandarla alle Camere nel rispetto della Costituzione di cui lei è il sommo garante.
Studenti e ricercatori viola»
IL VIOLA CHE INVOGLIA
di Lina Rignanese
Roma, 27 febbraio – Arrivando in piazza del Popolo, munita di cappotto viola, sul bus un giovane universitario mi chiede come mai era stato scelto proprio questo colore; io non gli ho saputo dare che una risposta personale e opinabile. Appena giunta a destinazione provo a chiedere alla gente, e dopo vari «non saprei», alla fine becco un’organizzatrice che mi spiega: «Il viola rappresenta il colore dei bambini quando si sentono limitati nel diritto di espressione». Ora è tutto chiaro!
Saremmo stati in 50 mila, nonostante le adesioni sul web fossero state 200.000, ma «non importa il numero, l’importante è esserci» dice Silvia da Roma, che alla manifestazione è arrivata con marito, figlia di tre anni e i due genitori anziani. Già, il popolo viola non ha età, o meglio ha tutte le età, e per questo che è una festa pacifica. Tante le voci, in questo caldo pomeriggio. Luigi da Olbia: «L’Italia deve svegliarsi: basta pensare all’Isola dei Famosi e al Grande Fratello»; Anna da Napoli: «L’Italia ha toccato il fondo. È ora di risalire»; Lucia e Giovanni da Roma: «siamo qui perché non ne possiamo più di Berlusconi. Ora facciamo uno sciopero della Tv»; il simpatico Alvino da Caserta fa il verso a Minzolini con il suo “Scodinzolini”. Tanto viola, in tutte le salse, dalle maglie, alle sciarpe, dalle bandiere alle parrucche, dalle scarpe agli occhiali. E tanti striscioni o cartelloni, si va da un duro “Salario minimo garantito” ad un simpatico “Più che viola cianotici”, da un cantilenante “Berlusconi delinquente non sei il nostro presidente” ad un dubbioso “Falso, corruttore e puttaniere. Davvero ce lo meritiamo?”, da un ludico “Arrestiamo l’inarrestabile” ad un serioso “La giustizia e la libertà sono la base della dignità umana. Coltiviamo l’indignazione”, da un arrabbiato “Contro Berlusconi legittima difesa”ad un salutare “Cittadini di sana e robusta Costituzione”.
Sul palco si avvicendano in tanti. Mario Monicelli, definito dallo stesso popolo viola come un “portafortuna”, sempre arzillo e presente, dice: «Deve essere spazzata via tuta la classe dirigente. Non solo in politica, ma in tutti i campi c’è corruzione e clientelismo». Paolo Flores d’Arcais, direttore di MicroMega ricorda le parole di Indro Montanelli: «L’Italia berlusconiana è la peggiore che io ho mai visto, la volgarità la bassezza di questa Italia non l’avevo vista né sentita mai. Il berlusconismo è veramente la feccia che risale il pozzo». E continua, a parole sue: «Questa Italia della feccia che risale il pozzo si appresta al golpe finale con tre leggi, anzi tre nefandezze: processo breve, intercettazioni, legittimo impedimento». In maniera molto appassionata, Oliviero Beha ci ricorda che siamo una nazione di analfabeti e semianalfabeti, oltre che un paese calcistizzato e di tifosi. Importanti le questioni suscitate dal rappresentante dell’associazione Articolo 21: « L’art. 48 della Costituzione afferma che il voto deve essere libero e uguale. Ma è libero il voto del precario, del cittadino che vive in aree controllate dal sottogoverno e dalla mafia? È libero il telespettatore sottoposto ad un potere mediatico anticostituzionale e antidemocratico?». L’intellettuale Alberto Asor Rosa ragiona sulla natura della situazione italiana attuale. Provo a seguirne il filo: ad un capo corrotto corrisponde necessariamente una nazione infetta. Ed è una politica condotta in modo sbagliato a creare l’infezione, da questa, inoltre, nasce la corruzione. Bisogna, quindi «Riconquistare la politica. Bisogna affermare il principio che la politica esiste per i cittadini e non viceversa, che qualsiasi voto, che qualsiasi decisione deve essere sottoposta al controllo e alla partecipazione popolare».
Spero davvero che il prossimo passo sia d’azione politica. Il popolo viola ha dimostrato che dal basso e in maniera indipendente e apartitica si può smuovere la società civile. Ora però bisognerà passare dalle parole, necessarie, ai fatti, urgenti. Non so se sarà possibile costituirsi organo politico, ma prima o poi occorrerà farlo, poiché la classe dirigente, in ogni campo, dovrà essere destituito. Urge un vero cambiamento, prima del baratro totale. Chissà quando i tempi saranno maturi?
Un ponte per Terabithia
di Emiliano Sportelli
Osservare il mondo da un diverso punto di vista può essere la chiave per imparare ad ascoltare e a credere; il crescere e il diventare adulti possono, a volte, trasformarsi in qualcosa che da bambini certo non immaginavamo. Lasciarsi trasportare da un alito di vento, che nasce da chi meno te lo aspetti, diviene il punto di partenza per scoprire cosa realmente c’è oltre l’uscio della nostra normale e monotona esistenza.
“Un ponte per Terabithia” si trasforma in questo, divenendo il nostro alito di vento e il nostro punto di partenza.
Tratto dal romanzo della scrittrice Katherine Paterson, il film risulta essere un passaggio verso il sogno, un’altalena di magia e immaginazione.
La storia racconta di Jesse, un ragazzo di 13 anni amante del disegno che cerca con tutto se stesso di impegnarsi sia a scuola che a casa, il ragazzino però è preso di mira dai suoi compagni di classe e in famiglia è poco considerato, i suoi momenti più belli sono quelli che passa a metter su carta le sue fantasie. Ma l’arrivo della sua nuova e stravagante compagna di classe, Leslie, cambierà la sua triste situazione. Leslie gli insegnerà a far “volare la sua mente”, portando il piccolo Jesse ad esplorare sentieri infiniti e luoghi fantastici. Accomunati da una fantasia ed una voglia di fare fuori dal comune, i due insieme creeranno un mondo fantastico dove potersi rifugiare, lontano dalle liti familiari e dagli scherni degli altri ragazzi di scuola.
Il regista esordiente Gabor Csupo dirige con grande intelligenza un piccolo capolavoro, il film non risulta essere la classica pellicola per ragazzi; osservando le avventure che capitano ai due protagonisti ci si immerge in uno stato di autentica e dolce follia, che ci porta a guardare le piccole cose di tutti i giorni con occhi diversi dal solito.
Il film comunica la voglia di essere, quel modo di sognare una realtà differente da quella vissuta cercando poi di realizzarla e al tempo stesso crea un legame con lo spettatore il quale, a sua volta, rimane imprigionato in un universo fanciullesco che ormai ha dimenticato.
In un certo senso un film di denuncia nei confronti dei ragazzi “tecnologici” di oggi, che forse hanno perso (o peggio ancora non hanno mai trovato) il vero senso del gioco, dove il restare chiusi in camera di fronte ad un informe videogame è ormai la sola cosa che li rende felici, ragazzi che hanno dimenticato come sognare e che per riflesso hanno dimenticato ad usare la fantasia ormai nascosta in loro da ore ed ore passata al computer.
Ritornare ad essere semplici ragazzi di un tempo che ormai non è più risulta oggi essere un po’ difficile, ma se si chiudono gli occhi e si tiene la mente ben aperta forse avremmo anche noi la possibilità di creare un piccolo mondo incantato.
“Un ponte per Terabithia” diventa così anche un mezzo per far posto ad un po’ di sana immaginazione e riaccendere, almeno per qualche ora, le luci colorate della nostra fantasia.
Osservare il mondo da un diverso punto di vista può essere la chiave per imparare ad ascoltare e a credere; il crescere e il diventare adulti possono, a volte, trasformarsi in qualcosa che da bambini certo non immaginavamo. Lasciarsi trasportare da un alito di vento, che nasce da chi meno te lo aspetti, diviene il punto di partenza per scoprire cosa realmente c’è oltre l’uscio della nostra normale e monotona esistenza.
“Un ponte per Terabithia” si trasforma in questo, divenendo il nostro alito di vento e il nostro punto di partenza.
Tratto dal romanzo della scrittrice Katherine Paterson, il film risulta essere un passaggio verso il sogno, un’altalena di magia e immaginazione.
La storia racconta di Jesse, un ragazzo di 13 anni amante del disegno che cerca con tutto se stesso di impegnarsi sia a scuola che a casa, il ragazzino però è preso di mira dai suoi compagni di classe e in famiglia è poco considerato, i suoi momenti più belli sono quelli che passa a metter su carta le sue fantasie. Ma l’arrivo della sua nuova e stravagante compagna di classe, Leslie, cambierà la sua triste situazione. Leslie gli insegnerà a far “volare la sua mente”, portando il piccolo Jesse ad esplorare sentieri infiniti e luoghi fantastici. Accomunati da una fantasia ed una voglia di fare fuori dal comune, i due insieme creeranno un mondo fantastico dove potersi rifugiare, lontano dalle liti familiari e dagli scherni degli altri ragazzi di scuola.
Il regista esordiente Gabor Csupo dirige con grande intelligenza un piccolo capolavoro, il film non risulta essere la classica pellicola per ragazzi; osservando le avventure che capitano ai due protagonisti ci si immerge in uno stato di autentica e dolce follia, che ci porta a guardare le piccole cose di tutti i giorni con occhi diversi dal solito.
Il film comunica la voglia di essere, quel modo di sognare una realtà differente da quella vissuta cercando poi di realizzarla e al tempo stesso crea un legame con lo spettatore il quale, a sua volta, rimane imprigionato in un universo fanciullesco che ormai ha dimenticato.
In un certo senso un film di denuncia nei confronti dei ragazzi “tecnologici” di oggi, che forse hanno perso (o peggio ancora non hanno mai trovato) il vero senso del gioco, dove il restare chiusi in camera di fronte ad un informe videogame è ormai la sola cosa che li rende felici, ragazzi che hanno dimenticato come sognare e che per riflesso hanno dimenticato ad usare la fantasia ormai nascosta in loro da ore ed ore passata al computer.
Ritornare ad essere semplici ragazzi di un tempo che ormai non è più risulta oggi essere un po’ difficile, ma se si chiudono gli occhi e si tiene la mente ben aperta forse avremmo anche noi la possibilità di creare un piccolo mondo incantato.
“Un ponte per Terabithia” diventa così anche un mezzo per far posto ad un po’ di sana immaginazione e riaccendere, almeno per qualche ora, le luci colorate della nostra fantasia.
venerdì 26 febbraio 2010
LA STORIA SIAMO NOI
Piazza d’Italia
dal romanzo di Antonio Tabucchi
regia Marco Baliani
Produzione Teatro di Roma
con Patrizia Bollini (Asmara), Daria Deflorian (Esterina), Gabriele Duma (Garibaldo I, Garibaldo II, ) Simone Faloppa (Ottorino, Melchiorre), Renata Mezenov (Anita,Zelmira), Mariano Nieddu (Plinio, Gavure), Alessio Piazza (Apostolo Zeno, Don Milvio), Naike Anna Silipo (Esperia), Alexandre Vella (Quarto, Volturno, Venerio)
scene e costumi Carlo Sala
assistente scene e costumi Roberta Monopoli
Musiche Mirto Baliani
drammaturgia Maria Maglietta
Piazza d’Italia, s’inserisce nell’ambito delle iniziative dedicate al 150° anniversario dell’Unità d’Italia e fa parte del progetto “Fratelli d’Italia”, il cui secondo episodio “La Repubblica di un solo giorno” sarà presentato al Teatro Festival di Napoli.
Una casacca rossa. Uno sparo. L’uomo con la casacca rossa viene avanti, barcollando. Cade all’indietro, di lato. Facce solcate, braccia temprate a sorreggerlo in un sincronico e sussultante movimento corale… Inizia con una morte lo spettacolo di Marco Baliani e termina con la stessa. Un gioco rotondo, passionale, fatto di Storia. Quella che, appunto, s’intreccia tra i paesani di un Borgo toscano e le grandi vicende dell’Italia, dall’unità fino agli anni 60. Al centro della narrazione vi è una famiglia, di fede garibaldina, vividamente resa nel suo susseguirsi generazionale. I personaggi vengono delineati con le pennellate fugaci e sfumate del ricordo, così nonni e nipoti, padri e figli, si confondono in un ritorno di fatti, in una ciclicità, a tratti magica, che rimanda alla famiglia Buendìa della marqueziana Macondo. La ciclicità è ovunque, dal girevole box nero al centro della scena, agli attori che escono per poi rientrare con un personaggio diverso, dal calesse che trasporta i caduti, alla profezia di fatti futuri, dalle lotte contro i regali a quelle di classe. Un altro elemento di questo “dramma di narrazione” è la coralità dei personaggi: ogni figura agisce come singolo tassello di un disegno più grande, come le acque del fiumiciattolo che confluiscono in mare, diventando esse stesse mare, così la storia dei singoli si fonde con quella collettiva, in un’azione corale che porta alle rivoluzioni o alle evoluzioni della Storia… Lasciando l’India, suggestiva cornice da archeologia industriale, si fa avanti la sensazione nostalgica di un’azione storica che io e la mia generazione non abbiamo vissuto, a rendere ancora più estraneo questo presente in cui sembra che la Storia la facciano in pochi e ai tanti, invece, non resti che il misero dispiacere di subirla.
Lina Rignanese
mercoledì 24 febbraio 2010
NO FAIDA DAY - "Ogni conflitto nel momento in cui si manifesta, porta con sé la possibilità di essere risolto"
Il Gargano si ribella alla faida. A Monte Sant’Angelo (Fg), il 25 febbraio, la manifestazione NO FAIDA DAY. Tra i presenti Don Luigi Ciotti, Presidente nazionale di Libera. Il 25 febbraio a Monte Sant’Angelo (Fg), alle ore 17.30, si terrà una manifestazione cittadina per dire NO ALLA FAIDA, che da troppo tempo insanguina questo territorio. Tutto il Gargano sfilerà in corteo per “gridare” il proprio dissenso a tutte le forme di criminalità. Insieme ai cittadini sfileranno tutte le istituzioni e sarà presente anche Don Luigi Ciotti, Presidente nazionale di Libera. “Occorre dare un segnale di unità nella nostra comunità, per questo il consiglio comunale, le associazioni, i partiti, le parrocchie convergono verso un impegno comune nel contrasto ad ogni forma di criminalità” è il commento di Donato Taronna, assessore alla legalità del comune di Monte Sant’Angelo Daniela Marcone, del coordinamento provinciale di Libera dichiara a nome del mondo associativo: “L’impegno della società civile e delle istituzioni possono togliere spazio vitale alle organizzazioni criminali. Occorre occupare spazio sociale e ridare, con tenacia, la speranza alla comunità garganica”. Diamo un segnale forte di reazione e di dissenso contro la faida come fenomeno criminale e come fenomeno culturale. Il Gargano è da trent’anni palcoscenico di efferatezza e crudeltà. Decine di morti, feriti e persone scomparse ci ricordano che il fenomeno è profondo e radicato, anche se si presenta a intermittenza. La mafia con la legge della violenza priva la nostra terra del diritto alla libertà. Rappresenta un momento di arretratezza sociale e culturale, che frena la crescita della comunità e impedisce lo sviluppo. Occorre fare qualcosa per spezzare la spirale della violenza:
- Facciamo comunità contro isolamento e paura, affinché i fenomeni mafiosi e violenti siano marginalizzati e affrontati con coraggio dalla società intera.
- Affermiamo il valore civile e morale della testimonianza, che rappresenta l’antidoto contro tutti i mali sociali, specie dei fenomeni criminali che prendono forza dall’omertà, dalla paura e dall’indifferenza.
- Organizziamo la risposta corale con le istituzioni di governo, il mondo educativo, quello religioso e associativo, per rinsaldare i vincoli della comunità sulla base del principio della legalità e della solidarietà.
______________________________
Chiediamo a istituzioni, sindacati, partiti politici, organizzazioni di categoria, associazioni culturali e di volontariato, parrocchie, a imprese e a singoli cittadini, di aderire all’iniziativa, comunicando l’adesione all’indirizzo nofaidaday@gmail.com
NO FAIDA DAY "Ogni conflitto, dal momento in cui si manifesta, porta con sé la possibilità di essere risolto"
25 Febbraio 2010 – Monte Sant’Angelo (Fg)
L’ufficio stampa 349 4038929 – 328 6340409
- Facciamo comunità contro isolamento e paura, affinché i fenomeni mafiosi e violenti siano marginalizzati e affrontati con coraggio dalla società intera.
- Affermiamo il valore civile e morale della testimonianza, che rappresenta l’antidoto contro tutti i mali sociali, specie dei fenomeni criminali che prendono forza dall’omertà, dalla paura e dall’indifferenza.
- Organizziamo la risposta corale con le istituzioni di governo, il mondo educativo, quello religioso e associativo, per rinsaldare i vincoli della comunità sulla base del principio della legalità e della solidarietà.
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Chiediamo a istituzioni, sindacati, partiti politici, organizzazioni di categoria, associazioni culturali e di volontariato, parrocchie, a imprese e a singoli cittadini, di aderire all’iniziativa, comunicando l’adesione all’indirizzo nofaidaday@gmail.com
NO FAIDA DAY "Ogni conflitto, dal momento in cui si manifesta, porta con sé la possibilità di essere risolto"
25 Febbraio 2010 – Monte Sant’Angelo (Fg)
L’ufficio stampa 349 4038929 – 328 6340409
domenica 21 febbraio 2010
Il Corvo
di Emiliano Sportelli
Capita a volte di trovarsi di fronte ad eventi inenarrabili, situazioni dove la vita e la morte passeggiano mano nella mano lungo il viale dell’esistenza, dove il rintocco di un orologio segna il lento fluire del tempo che una volta è stato nostro amico. Siamo di fronte a “Il Corvo” opera a fumetti dell’americano James O’Barr che tra il 1981 e il 1989 ci ha regalato una delle storie più affascinanti e tetre al tempo stesso.
In un cupo universo dominato da odio e sangue, dove la legge del più forte è la sola cosa che conta, ecco nascere la storia d’amore tra Eric e Shelly due semplici ragazzi che inseguono il sogno di una vita insieme. Ma purtroppo il loro sogno rimarrà tale, Shelly verrà assassinata da una banda di teppisti e lo stesso Eric farà una tragica fine. Ecco allora che qualcosa si sveglia e viene a bussare alle porte del nostro essere, aprendo uno spiraglio che porta luce in una spirale di ombre. Nell’opera di O’Barr questo spiraglio è rappresentato dal ritorno di Eric dal mondo dei morti che, accompagnato da un corvo (antico traghettatore di anime), inizia la sua triste vendetta nei confronti degli assassini della sua amata, cercando di farsi giustizia in nome del sentimento che ancora lo lega a Shelly. Amore e vendetta divengono così due facce della stessa medaglia e trovano in Eric la loro più alta espressione.
In realtà leggendo il fumetto, l’autore non ci dà spiegazioni precise su ciò che sia davvero capitato al protagonista; alcuni indizi sembrano farci credere che Eric sia davvero morto nello scontro con T-Bird e compagni e che ora voglia la sua vendetta, altri segnali ci inducono a credere che sia riuscito a sopravvivere e che per dolore e disperazione abbia acquisito dei poteri.
“Il Corvo” diviene così un’opera di malinconia, rabbia e sentimento; uno spartiacque tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Esso sembra riflette l’eterno bisogno dell’uomo di cercare un motivo principale alla sua esistenza, rifiutando gli stereotipi che il mondo contemporaneo obbliga a rispettare.
Per alcuni versi la storia di Eric e Shelly richiama una tragica esperienza passata dell’autore, quando a causa di un incidente stradale perse la sua fidanzata che sarebbe diventata, da lì a poco, sua moglie. Dopo anni di silenzio O’Barr decise di esorcizzare il suo dolore rendendolo pubblico e il modo migliore era di cimentarsi nel disegno: “Il Corvo” fu proprio il frutto di questo suo dolore.
Oltre al suo passato travagliato, altra fonte d’ispirazione per O’Barr è stata sicuramente la componente musicale, in particolar modo il movimento post-punk nato in Inghilterra a cavallo tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80. Gruppi come Joy Division e Bauhaus divengono ne “Il Corvo” la sua colonna sonora macchiando con tinte scure l’intero panorama del fumetto. Gli albi abbondano infatti di citazioni che rimandano ai testi di Ian Curtis (leader suicida dei Joy Division); tra i personaggi due, Hook e Albrecht, hanno lo stesso nome del bassista e chitarrista del gruppo di Manchester e pezzi come Decades e Komakino fanno da sottofondo per il lettore nella sua scoperta di un nuovo universo; lo stesso Eric, a detta dell’autore, è stato disegnato sulle fattezze di Peter Murphy (cantante dei Bauhaus) e Iggy Pop.
“Il Corvo” si trasforma, in questo modo, anche in un’opera rock mettendo su carta i mali di quegli artisti che in pochi anni hanno contribuito “a scrivere” nuove pagine del libro della musica. L’opera di O’Barr diviene così anche un ottimo pretesto per riascoltare vecchi dischi che ormai avevamo dimenticato.
Capita a volte di trovarsi di fronte ad eventi inenarrabili, situazioni dove la vita e la morte passeggiano mano nella mano lungo il viale dell’esistenza, dove il rintocco di un orologio segna il lento fluire del tempo che una volta è stato nostro amico. Siamo di fronte a “Il Corvo” opera a fumetti dell’americano James O’Barr che tra il 1981 e il 1989 ci ha regalato una delle storie più affascinanti e tetre al tempo stesso.
In un cupo universo dominato da odio e sangue, dove la legge del più forte è la sola cosa che conta, ecco nascere la storia d’amore tra Eric e Shelly due semplici ragazzi che inseguono il sogno di una vita insieme. Ma purtroppo il loro sogno rimarrà tale, Shelly verrà assassinata da una banda di teppisti e lo stesso Eric farà una tragica fine. Ecco allora che qualcosa si sveglia e viene a bussare alle porte del nostro essere, aprendo uno spiraglio che porta luce in una spirale di ombre. Nell’opera di O’Barr questo spiraglio è rappresentato dal ritorno di Eric dal mondo dei morti che, accompagnato da un corvo (antico traghettatore di anime), inizia la sua triste vendetta nei confronti degli assassini della sua amata, cercando di farsi giustizia in nome del sentimento che ancora lo lega a Shelly. Amore e vendetta divengono così due facce della stessa medaglia e trovano in Eric la loro più alta espressione.
In realtà leggendo il fumetto, l’autore non ci dà spiegazioni precise su ciò che sia davvero capitato al protagonista; alcuni indizi sembrano farci credere che Eric sia davvero morto nello scontro con T-Bird e compagni e che ora voglia la sua vendetta, altri segnali ci inducono a credere che sia riuscito a sopravvivere e che per dolore e disperazione abbia acquisito dei poteri.
“Il Corvo” diviene così un’opera di malinconia, rabbia e sentimento; uno spartiacque tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Esso sembra riflette l’eterno bisogno dell’uomo di cercare un motivo principale alla sua esistenza, rifiutando gli stereotipi che il mondo contemporaneo obbliga a rispettare.
Per alcuni versi la storia di Eric e Shelly richiama una tragica esperienza passata dell’autore, quando a causa di un incidente stradale perse la sua fidanzata che sarebbe diventata, da lì a poco, sua moglie. Dopo anni di silenzio O’Barr decise di esorcizzare il suo dolore rendendolo pubblico e il modo migliore era di cimentarsi nel disegno: “Il Corvo” fu proprio il frutto di questo suo dolore.
Oltre al suo passato travagliato, altra fonte d’ispirazione per O’Barr è stata sicuramente la componente musicale, in particolar modo il movimento post-punk nato in Inghilterra a cavallo tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80. Gruppi come Joy Division e Bauhaus divengono ne “Il Corvo” la sua colonna sonora macchiando con tinte scure l’intero panorama del fumetto. Gli albi abbondano infatti di citazioni che rimandano ai testi di Ian Curtis (leader suicida dei Joy Division); tra i personaggi due, Hook e Albrecht, hanno lo stesso nome del bassista e chitarrista del gruppo di Manchester e pezzi come Decades e Komakino fanno da sottofondo per il lettore nella sua scoperta di un nuovo universo; lo stesso Eric, a detta dell’autore, è stato disegnato sulle fattezze di Peter Murphy (cantante dei Bauhaus) e Iggy Pop.
“Il Corvo” si trasforma, in questo modo, anche in un’opera rock mettendo su carta i mali di quegli artisti che in pochi anni hanno contribuito “a scrivere” nuove pagine del libro della musica. L’opera di O’Barr diviene così anche un ottimo pretesto per riascoltare vecchi dischi che ormai avevamo dimenticato.
sabato 20 febbraio 2010
L'IMPRESARIO DELLE SMIRNE
Teatro Stabile del Veneto, il Teatro Stabile di Catania, Findazione Antonveneta con il sostegno de La Biennale di Venezia, presentano L’Impresario delle Smirne di Carlo Goldoni, regia di Luca De Fusco, musiche di Nino Rota, adattamento di Luca De Fusco e Antonio Di Pofi, scene di Antonio Fiornetino, costumi di Maurizio Millenotti, elaborazione musicale di Antio Di Pofi, luci di Emidio Benezzi, con Eros Pagni, Gaia Aprea, Anita Bartolucci, Alberto Fasoli, Piergiorgio Fasolo, Max Malatesta, Giovanna Mangiù, Alvia Reale, Paolo Serra, Enzo Turrin
Il rosso domina la scena. Il pianoforte piroetta temi di Rota in un gioco fine a se stesso. L’intento del regista sarebbe quello di celebrare Fellini: oltre alle musiche si hanno dei rimandi ai personaggi di “Amarcord”, “La Strada”, “8e½”. Ma quello che trapela allo spettatore è, più che altro, una nostalgica mancanza. Non si riesce a cogliere il disegno registico di unire questi due mostri sacri (per l’appunto, Fellini e Goldoni), in un’ambientazione da cabaret televisivo, dove gli attori tra stridule voci femminili, eccessi barocchi e spesso infelici battute, riescono ad annoiare, quasi ad infastidire lo spettatore, già provato dalla lungaggine della pièce. Interessanti, invece, costumi, luci e trovate sceniche, che riescono a dare allo spettacolo una certa dignità. Costumi sfarzosi, ampollosi, di forgia settecentesca, che rispecchiano le pavonerie della squattrinata compagnia. Efficiente l’uso dei montacarichi, addobbati da camerini ambulanti, per rendere ancor più aleatoria e vanagloriosa la caratterizzazione del musico soprano Carluccio e delle tre primedonne. Bella la scena finale con le sedie e i bagagli sospesi nella penombra di uno sfondo blu tenue, quasi un chiar di luna, a rischiarare le fumosità del porto nelle ultime ore della notte.
Al centro della storia vi è Alì, impresario turco, impersonato da Eros Pagni, che si reca a Venezia con l’intento di allestire uno spettacolo di musica a Smirne. Alì, completamente a digiuno di teatro, delega, a sedicenti esperti e nobili locali, il compito di organizzare la compagnia. Le ingenti prospettive di guadagno e l’ingenua filantropia del turco mettono, però, in moto una serie di meccanismi truffaldini, un giro di raccomandazioni e sleali rivalità che, alla fine, porteranno il mecenate ad abbandonare il progetto e a far ritorno in patria, seppur lasciando una borsa di zecchini, affinché la seccante compagnia possa allestire uno spettacolo in totale autonomia.
Il testo di Goldoni ritrae cinicamente i retroscena dei teatranti, mette in luce i vizi, le rivalità, i doppiogiochismi, di un Arte in decadenza, di un mondo arrivista e senza scrupoli, che sa vendere il proprio corpo al potente di turno (proprio come fa la “virtuosa” Lucrezia con il viscido conte Lasca), che sa cospirare e pretendere senza mettersi in gioco, senza merito, con la sola dote del servile e bieco clientelismo. Significativa l’esclamazione: «Questa graziosa inciviltà di bellezza!» fatta dal turco, esasperato dalle dimostrazioni di orgoglio e dai rigiri delle tre donne, pronte a sfoderare le più affilate arti seduttive, ma incapaci di accettare una parte diversa da quella della primadonna. Un fare tipicamente italiano, come tipicamente italiana sono la furbizia e l’attaccamento al denaro, che portano ad approfittare di un volenteroso impresario straniero, proponendogli una vera e propria truffa che dissiperà le sue finanze e accontenterà, invece, la nutrita combriccola protetta dal conte Lasca e dal signor Nibbio. Anche qui, una ingenua e al tempo stesso savia affermazione di Alì: «Io non conoscere bene malizia italiana» conferisce al testo un taglio satirico, uno squarcio della società italiana della crisi, di allora come di oggi. È un’opera molto attuale, peccato per lo scarno adattamento di De Fusco e Di Pofi!
Lina Rignanese
giovedì 18 febbraio 2010
"Più disastri, più guadagni!"
Giovedì 18 febbraio, Roma – In tanti, in questa giornata soleggiata, si sono dati appuntamento nella capitale. In tanti, per lo più, coloro che sono stati maggiormente esposti, negli ultimi mesi, al ciclone Protezione Civile: dai valsusini del No Tav, al comitato 3e32 di L’Aquila, da quello di Chiaiano sull’emergenza rifiuti a RdB Vigili del Fuoco. Tante voci, un solo appello: NO alla Protezione Civile $pa!
In mattinata c’è stato un pacifico presidio davanti Montecitorio, promosso da RdB Vigili del Fuoco, che ha visto la partecipazione di qualche centinaio di persone. Nel pomeriggio si è svolta, invece, presso la facoltà di Scienze Politiche de La Sapienza, l’Assemblea Nazionale indetta dalla rete dell’Osservatorio Civile. L’Osservatorio nasce a L’Aquila nel gennaio 2010, in seguito ad un’assembla in cui comitati, associazioni, sindacati, giornalisti e rappresentanti politici, si sono confrontati circa la trasformazione della Protezione Civile da strumento di auto protezione dei cittadini a governo parallelo e autoritario del Paese, grazie ai poteri straordinari delle ordinanze. Da quell’assemblea nasce l’idea di lanciare un appello nazionale contro la Spa.
La prima parola viene data ad un video, Shock Journalism girato da iK produzioni, che raccoglie testimonianze all’interno del campo di Piazza D’Armi, la prima tendopoli ad essere smantellata, «in un clima di incertezza e confusione». La gente, gli sfollati, o meglio, come si sono essi stessi definiti, i “ri-sfollati” riconoscono il merito dei volontari della Protezione Civile che «si sono davvero fatti in quattro nell’emergenza e nel post-terremoto» afferma con veemenza una donna intervistata «ma, sono le persone che guidano che sono sbagliate!». E ancora «A cosa servono in un’area d’emergenza il comando e il controllo?» Già, il nocciolo della questione parte proprio da qui, dalla Direzione di Comando e Controllo della Protezione Civile con sede a L’Aquila.
Due parole, (comando e controllo) che hanno snaturato la stessa Protezione Civile, la quale ha ragion d’essere nella prevenzione, previsione e nella protezione. Gli interessi delle lobby hanno, invece, spostato l’asse d’intervento dal “fare per prevenire i disastri” in “fare per arricchirsi con i disastri”. Una logica affarista, mafiosa e disumana trapelata dalle risate venute fuori dalle intercettazioni telefoniche, pubblicate nei giorni scorsi.
Un forte urlo, indignato, è partito da chi nelle emergenze fa il lavoro grosso: i Vigili del Fuoco, che nella voce del rappresentante RdB, Vaccarino, ha ribadito: «Occorre recuperare la cultura della Protezione Civile, noi (i vigili del fuoco, ndr) lo facciamo tutti i giorni. Vogliamo fare prevenzione, previsione, siamo addestrati soprattutto per questo, ma ci vengono sottratte le risorse, abbiamo pochi fondi e ancor meno uomini. I disastri vorremmo evitarli con gli strumenti adeguati, ma la logica che vige in questo sistema, è una logica del “più disastri, più guadagni!”».
Mattia Lolli, portavoce del comitato 3e32 testimonia l’aspetto totalizzante della Protezione Civile all’interno delle tendopoli: «O con loro o contro di loro. Era repressa ogni forma di assemblea, non era possibile distribuire volantini informativi, né distribuire caffè o cioccolato che potevano avere effetti eccitanti sulla gente ». Un’ottica dell’emergenza che giustifica la sospensione di ogni diritto, giustifica tutto, anche la violenza, come più volte è avvenuto, da Chiaiano, alla Val di Susa, da L’Aquila a ovunque si proponga un “si può fare” che venga dal basso, un’alternativa popolare che avrà come risposta la militarizzazione del sito. Tutto va taciuto, fino all’avvistamento di una ennesima punta dell’iceberg, come il decreto legge 195 che legifera apertamente in favore di questo stato di cose, di uno “stato d’eccezione permanente”, che comprenda non solo le emergenze, le calamità naturali, ma anche grandi e piccoli eventi, in barba alla Costituzione, al Parlamento e allo Stato italiano.
Lina Rignanese
domenica 14 febbraio 2010
Paranormal Activity
di Emiliano Sportelli
Già da mesi prima della sua uscita, Paranormal Activity aveva destato la mia curiosità. Sono un appassionato di horror, quindi il film, per lo meno guardando il trailer, sembrava abbastanza interessante; il fatto poi che era stato etichettato come “L’Esorcista dei giorni nostri” mi ha spinto ancora di più verso l’acquisto del biglietto (non capita certo tutti i giorni di rivedere una seconda Regan MacNeil);
in realtà le mie aspettative sono un po’ state deluse.
Protagonista del film è una coppia di ragazzi, Katie e Micah, che da poco ha deciso di vivere assieme. Poco dopo l’inizio della convivenza, Katie comincia a sentire strani rumori e grida; confessa così al ragazzo che già dall’età di otto anni è tormentata da un’entità paranormale. Micah decide così di posizionare una telecamera nella stanza da letto filmando in questo modo tutto ciò che accade. Si susseguono situazioni paranormali che portano Katie nell’angoscia e nello sconforto, Micah invece decide di reagire sfidando la misteriosa presenza e cercando di risolvere la situazione.
Il film, diretto dall’esordiente Oren Peli, è costato appena 15 mila dollari, cifra davvero irrisoria se paragonata ai milioni che oggi vengono spesi per fare cinema; interamente girato nella casa dello stesso regista ed ispirato a fatti accaduti allo stesso Peli quando si trasferì con la fidanzata in una nuova casa “infestata” da rumori sinistri.
Il regista non apporta nulla di nuovo a questo filone horror, nodo di tutto è l’utilizzo della telecamera a mano con l’intento di rendere lo spettatore partecipe della situazione; idee queste già sperimentate con successo nel 1999 da Daniel Myrick ed Eduardo Sanchez in The Blair Witch Project, e nel 2007 dalla coppia Paco Plaza e Jaume Balaguerò con REC. Chiari rimandi a La Casa di Sam Raimi, tanto è vero che per la maggior parte del film è proprio l’abitazione dei due fidanzati il vero “mostro” con i quali i protagonisti devono confrontarsi.
Forse una particolarità di Paranormal Activity non è quella di far paura, bensì destare la curiosità dello spettatore che vuol sapere se alla fine questa presenza avrà un volto.
La dualità del film può essere colta già nella sua prima mezz’ora, la tensione che è espressa nelle scene girate di notte fa da contro altare nei confronti delle scene, forse un po’ inutili, girate di giorno. Nelle prime infatti le riprese girate in notturna e il silenzio, che spesso è “amico” della paura, mettono lo spettatore di fronte ad un’angoscia palpabile; nelle seconde, invece, tutto questo è assente e la tensione lascia spazio alla banalità trasformando l’horror in una semplice commedia.
C’è da dire che, nonostante tutto, il lavoro di Peli ha sbancato i botteghini (40 milioni di dollari nel primo week-end) anche grazie al “rumore” mediale che ne è derivato. Negli USA il film è stato siglato dalla R di Restricted, ossia concessa la visione ai minorenni se accompagnati. Lo stesso Spielberg è intervenuto consigliando al giovane Peli di girare un finale alternativo, proprio perché, a detta del regista americano, l’originale era un po’ troppo crudo anche per lui.
In Italia si sono addirittura verificati attacchi d’ansia e di panico. Questo ha causato l’insorgere delle associazioni per la tutela dei minori che hanno chiesto di vietarne la visione ai minori di 18 anni.
Andate al cinema a vedere Paranormal Activity, ma state tranquilli non perderete il sonno come dice la pubblicità, al massimo vi chiederete perché nessuno mai accenda la luce quando c’è qualcosa che lo terrorizza.
Già da mesi prima della sua uscita, Paranormal Activity aveva destato la mia curiosità. Sono un appassionato di horror, quindi il film, per lo meno guardando il trailer, sembrava abbastanza interessante; il fatto poi che era stato etichettato come “L’Esorcista dei giorni nostri” mi ha spinto ancora di più verso l’acquisto del biglietto (non capita certo tutti i giorni di rivedere una seconda Regan MacNeil);
in realtà le mie aspettative sono un po’ state deluse.
Protagonista del film è una coppia di ragazzi, Katie e Micah, che da poco ha deciso di vivere assieme. Poco dopo l’inizio della convivenza, Katie comincia a sentire strani rumori e grida; confessa così al ragazzo che già dall’età di otto anni è tormentata da un’entità paranormale. Micah decide così di posizionare una telecamera nella stanza da letto filmando in questo modo tutto ciò che accade. Si susseguono situazioni paranormali che portano Katie nell’angoscia e nello sconforto, Micah invece decide di reagire sfidando la misteriosa presenza e cercando di risolvere la situazione.
Il film, diretto dall’esordiente Oren Peli, è costato appena 15 mila dollari, cifra davvero irrisoria se paragonata ai milioni che oggi vengono spesi per fare cinema; interamente girato nella casa dello stesso regista ed ispirato a fatti accaduti allo stesso Peli quando si trasferì con la fidanzata in una nuova casa “infestata” da rumori sinistri.
Il regista non apporta nulla di nuovo a questo filone horror, nodo di tutto è l’utilizzo della telecamera a mano con l’intento di rendere lo spettatore partecipe della situazione; idee queste già sperimentate con successo nel 1999 da Daniel Myrick ed Eduardo Sanchez in The Blair Witch Project, e nel 2007 dalla coppia Paco Plaza e Jaume Balaguerò con REC. Chiari rimandi a La Casa di Sam Raimi, tanto è vero che per la maggior parte del film è proprio l’abitazione dei due fidanzati il vero “mostro” con i quali i protagonisti devono confrontarsi.
Forse una particolarità di Paranormal Activity non è quella di far paura, bensì destare la curiosità dello spettatore che vuol sapere se alla fine questa presenza avrà un volto.
La dualità del film può essere colta già nella sua prima mezz’ora, la tensione che è espressa nelle scene girate di notte fa da contro altare nei confronti delle scene, forse un po’ inutili, girate di giorno. Nelle prime infatti le riprese girate in notturna e il silenzio, che spesso è “amico” della paura, mettono lo spettatore di fronte ad un’angoscia palpabile; nelle seconde, invece, tutto questo è assente e la tensione lascia spazio alla banalità trasformando l’horror in una semplice commedia.
C’è da dire che, nonostante tutto, il lavoro di Peli ha sbancato i botteghini (40 milioni di dollari nel primo week-end) anche grazie al “rumore” mediale che ne è derivato. Negli USA il film è stato siglato dalla R di Restricted, ossia concessa la visione ai minorenni se accompagnati. Lo stesso Spielberg è intervenuto consigliando al giovane Peli di girare un finale alternativo, proprio perché, a detta del regista americano, l’originale era un po’ troppo crudo anche per lui.
In Italia si sono addirittura verificati attacchi d’ansia e di panico. Questo ha causato l’insorgere delle associazioni per la tutela dei minori che hanno chiesto di vietarne la visione ai minori di 18 anni.
Andate al cinema a vedere Paranormal Activity, ma state tranquilli non perderete il sonno come dice la pubblicità, al massimo vi chiederete perché nessuno mai accenda la luce quando c’è qualcosa che lo terrorizza.
mercoledì 3 febbraio 2010
L'INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DELL'ESSERE ARTISTA
di Lina Rignanese
Sarà in mostra fino al 28 febbraio presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma la retrospettiva “Sandro Chia. Della pittura, popolare e nobilissima arte”, a cura di Achille Bonito Oliva. Si tratta della prima grande antologica dell’artista in Italia, nonché sua più importante retrospettiva dopo quella del 1992 alla Nationalgallerie di Berlino. L’esposizione comprende 61 opere, 56 dipinti e 5 sculture in bronzo, tutte provenienti da collezioni private e da amici, che ripercorrono le principali tappe pittoriche di Chia: dagli esordi nel 1971, al successo della Transavanguardia negli Ottanta, all’affermazione in campo internazionale dai Novanta ad oggi. Il libro che accompagna la mostra, edito da Flash Art edizioni, è articolato come un dialogo fra Sandro Chia e Achille Bonito Oliva e fra l'artista e un visitatore immaginario, impersonato dalla soprintendente Maria Vittoria Marini Clarelli, che lo interroga sulle sue opere.
Le opere sono sistemate in quattro sezioni: “Figure Ansiose”, “Figure Titaniche”, “Figurabile” e “Figure d’Arte”. La “Figurazione” è parte fondamentale della ricerca artistica di Chia, che, pur esplorando vari campi, dalla scultura al video ai mosaici, declina proprio alla pittura il ruolo di “avanguardia” artistica e necessaria forma narrativa. D’altro canto, era la pittura la protagonista della “Transavanguardia”, movimento teorizzato da Achille Bonito Oliva in cui era attivo Chia (oltre a Enzo Cucchi, Francesco Clemente, Nicole De Maria e Mimmo Paladino) e che, discostandosi dal materialismo e dalle eccessive sperimentazioni dei Concettualismi, recuperava l’arte del passato facendola rivivere con l’atto creativo della contemporaneità fino a giungere a traguardi inediti ed inesplorati.
Nell’arte di Chia, se le tele dialogano con lo spettatore attraverso un’ingenua ironia, spesso poetica o filosofica, le didascalie lo accompagnano verso il ludico viaggio mentale dell’artista. Così, possiamo leggere il quadro “Dichiarazione poetica” (1983): “Le mie figure sono simili a certi personaggi temerari pronti ad immolarsi preferibilmente a sostegno di cause ed ideali futili ed improbabili. Più è futile l’ideale più altisonante è il gesto.” Oppure capire quel che si cela ne “La Bugia”, (1980): “La luce è un oggetto vortice che macchia, un oggetto spirale che taglia. La luce qui fa tutto meno che illuminare”. E non deve sorprenderci se un neo-nato riesce ad emettere con un vagito il nome della propria famiglia (Chia, ndr), “strano,” – dice Sandro Chia - “come poteva sapere? Ma vero, è realmente accaduto”, poiché, “la vita entra in noi ed esce da noi con un alito, un’invisibile spostamento d’aria. Viviamo in una bolla? “Ego” è il nome della nostra bolla? Scoprire l’Ego è rendersi conto della trionfante fragilità che contraddistingue il nostro essere al mondo”. Altre volte, le pennellate si fanno “ricorrenti, rassicuranti, sempre le stesse”, oppure si gioca con l’effetto ottico, così, tre balene possono essere dipinte come fossero tre sardine su un cartoccio. In “Collision, Derision, Precision” (2002) le forme sulla tela indicano “una certa predisposizione all’umorismo”. E se l’umorismo “è la prova che si è in armonia con se stessi o in disarmonia, ma ancora in controllo dei propri mezzi.” L’ironia invece, “è una tecnica distruttiva, basata sulla dissimulazione e l’inganno, e va praticata solo in caso di estrema necessità”.
Dunque, una mostra importante e leggera, da percorrere saltellando tra le tele con un sorriso sulle labbra ed un bicchiere di Brunello (peraltro prodotto a Montalcino dallo stesso Chia) in mano.
Sarà in mostra fino al 28 febbraio presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma la retrospettiva “Sandro Chia. Della pittura, popolare e nobilissima arte”, a cura di Achille Bonito Oliva. Si tratta della prima grande antologica dell’artista in Italia, nonché sua più importante retrospettiva dopo quella del 1992 alla Nationalgallerie di Berlino. L’esposizione comprende 61 opere, 56 dipinti e 5 sculture in bronzo, tutte provenienti da collezioni private e da amici, che ripercorrono le principali tappe pittoriche di Chia: dagli esordi nel 1971, al successo della Transavanguardia negli Ottanta, all’affermazione in campo internazionale dai Novanta ad oggi. Il libro che accompagna la mostra, edito da Flash Art edizioni, è articolato come un dialogo fra Sandro Chia e Achille Bonito Oliva e fra l'artista e un visitatore immaginario, impersonato dalla soprintendente Maria Vittoria Marini Clarelli, che lo interroga sulle sue opere.
Le opere sono sistemate in quattro sezioni: “Figure Ansiose”, “Figure Titaniche”, “Figurabile” e “Figure d’Arte”. La “Figurazione” è parte fondamentale della ricerca artistica di Chia, che, pur esplorando vari campi, dalla scultura al video ai mosaici, declina proprio alla pittura il ruolo di “avanguardia” artistica e necessaria forma narrativa. D’altro canto, era la pittura la protagonista della “Transavanguardia”, movimento teorizzato da Achille Bonito Oliva in cui era attivo Chia (oltre a Enzo Cucchi, Francesco Clemente, Nicole De Maria e Mimmo Paladino) e che, discostandosi dal materialismo e dalle eccessive sperimentazioni dei Concettualismi, recuperava l’arte del passato facendola rivivere con l’atto creativo della contemporaneità fino a giungere a traguardi inediti ed inesplorati.
Nell’arte di Chia, se le tele dialogano con lo spettatore attraverso un’ingenua ironia, spesso poetica o filosofica, le didascalie lo accompagnano verso il ludico viaggio mentale dell’artista. Così, possiamo leggere il quadro “Dichiarazione poetica” (1983): “Le mie figure sono simili a certi personaggi temerari pronti ad immolarsi preferibilmente a sostegno di cause ed ideali futili ed improbabili. Più è futile l’ideale più altisonante è il gesto.” Oppure capire quel che si cela ne “La Bugia”, (1980): “La luce è un oggetto vortice che macchia, un oggetto spirale che taglia. La luce qui fa tutto meno che illuminare”. E non deve sorprenderci se un neo-nato riesce ad emettere con un vagito il nome della propria famiglia (Chia, ndr), “strano,” – dice Sandro Chia - “come poteva sapere? Ma vero, è realmente accaduto”, poiché, “la vita entra in noi ed esce da noi con un alito, un’invisibile spostamento d’aria. Viviamo in una bolla? “Ego” è il nome della nostra bolla? Scoprire l’Ego è rendersi conto della trionfante fragilità che contraddistingue il nostro essere al mondo”. Altre volte, le pennellate si fanno “ricorrenti, rassicuranti, sempre le stesse”, oppure si gioca con l’effetto ottico, così, tre balene possono essere dipinte come fossero tre sardine su un cartoccio. In “Collision, Derision, Precision” (2002) le forme sulla tela indicano “una certa predisposizione all’umorismo”. E se l’umorismo “è la prova che si è in armonia con se stessi o in disarmonia, ma ancora in controllo dei propri mezzi.” L’ironia invece, “è una tecnica distruttiva, basata sulla dissimulazione e l’inganno, e va praticata solo in caso di estrema necessità”.
Dunque, una mostra importante e leggera, da percorrere saltellando tra le tele con un sorriso sulle labbra ed un bicchiere di Brunello (peraltro prodotto a Montalcino dallo stesso Chia) in mano.
lunedì 1 febbraio 2010
David Cronenberg
di Emiliano Sportelli
Corpi mutanti, deliri mentali e morbose ossessioni è il cinema di David Cronenberg regista canadese che dagli anni ’70 fino ad oggi è riuscito a meritarsi un posto di primo piano nel panorama cinematografico mondiale.
Definito “barone del sangue” e “re dell’orrore venereo” Cronenberg ha diretto alcuni dei film più originali degli ultimi trent’anni, portando una nuova linfa nell’horror moderno. È stato uno dei maggiori interpreti di un nuovo genere cinematografico soprannominato body-horror il quale ricerca le più infime paure dell’essere umano di fronte a temi come mutazione del corpo ed infezioni della carne.
Lavori quali Rabid – Sete di sangue (1977) e Brood – La covata malefica (1979) illustrano un primo ritratto del regista intenzionato a mettere in luce l’aspetto più terribile del male spesso però figlio di uno sconsiderato progresso scientifico che, vede l’essere umano come il fautore della sua stessa morte.
Cronenberg diviene così un regista della paura intento ad esplorare confini invalicabili, porte serrate e macabri sentieri; tutto questo lo si può ritrovare in Videodrome (1983) dove il regista prende di mira il medium televisione e tutte le paure che da esso ne possono derivare; una scissione mente-corpo, un incamminarsi nei meandri della mente umana fino al punto del non ritorno. Temi questi presenti anche in Existenz (1999) una specie di gioco nel gioco dove lo spettatore rimane letteralmente “imprigionato”.
Ma è sicuramente con La mosca (1986) che Cronenberg si consacra come mentore del cinema mutante. Il film ricalca uno dei temi che più hanno caratterizzato il regista, ossia il connubio corpo-macchina che portano il protagonista Jeff Goldblum a fondersi con una mosca fino a prenderne le sembianze. In un certo senso questo lavoro vuol denunciare la troppa ambizione umana per le scoperte scientifiche, ambizione che spesso porta alla morte dell’individuo stesso.
Cronenberg ha poi firmato regie basate su alcuni lavori letterari: ricordiamo La zona morta (1983) basato sul romanzo di Stephen King, Pasto nudo (1991) e Crash (1996) entrambi tratti dalla penna di William Burroughs.
Negli ultimi anni il regista canadese ha portato sul grande schermo lavori di grande spessore come A history of violence (2005) e La promessa dell’assassino (2007) entrambi interpretati da un ottimo Viggo Mortensen. La qualità artistica di questi ultimi lavori non è certo inferiore a quelli passati, un fatto questo confermato anche dal grande successo che la critica ne ha riservato.
Corpi mutanti, deliri mentali e morbose ossessioni è il cinema di David Cronenberg regista canadese che dagli anni ’70 fino ad oggi è riuscito a meritarsi un posto di primo piano nel panorama cinematografico mondiale.
Definito “barone del sangue” e “re dell’orrore venereo” Cronenberg ha diretto alcuni dei film più originali degli ultimi trent’anni, portando una nuova linfa nell’horror moderno. È stato uno dei maggiori interpreti di un nuovo genere cinematografico soprannominato body-horror il quale ricerca le più infime paure dell’essere umano di fronte a temi come mutazione del corpo ed infezioni della carne.
Lavori quali Rabid – Sete di sangue (1977) e Brood – La covata malefica (1979) illustrano un primo ritratto del regista intenzionato a mettere in luce l’aspetto più terribile del male spesso però figlio di uno sconsiderato progresso scientifico che, vede l’essere umano come il fautore della sua stessa morte.
Cronenberg diviene così un regista della paura intento ad esplorare confini invalicabili, porte serrate e macabri sentieri; tutto questo lo si può ritrovare in Videodrome (1983) dove il regista prende di mira il medium televisione e tutte le paure che da esso ne possono derivare; una scissione mente-corpo, un incamminarsi nei meandri della mente umana fino al punto del non ritorno. Temi questi presenti anche in Existenz (1999) una specie di gioco nel gioco dove lo spettatore rimane letteralmente “imprigionato”.
Ma è sicuramente con La mosca (1986) che Cronenberg si consacra come mentore del cinema mutante. Il film ricalca uno dei temi che più hanno caratterizzato il regista, ossia il connubio corpo-macchina che portano il protagonista Jeff Goldblum a fondersi con una mosca fino a prenderne le sembianze. In un certo senso questo lavoro vuol denunciare la troppa ambizione umana per le scoperte scientifiche, ambizione che spesso porta alla morte dell’individuo stesso.
Cronenberg ha poi firmato regie basate su alcuni lavori letterari: ricordiamo La zona morta (1983) basato sul romanzo di Stephen King, Pasto nudo (1991) e Crash (1996) entrambi tratti dalla penna di William Burroughs.
Negli ultimi anni il regista canadese ha portato sul grande schermo lavori di grande spessore come A history of violence (2005) e La promessa dell’assassino (2007) entrambi interpretati da un ottimo Viggo Mortensen. La qualità artistica di questi ultimi lavori non è certo inferiore a quelli passati, un fatto questo confermato anche dal grande successo che la critica ne ha riservato.
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