sabato 20 febbraio 2010

L'IMPRESARIO DELLE SMIRNE

















Teatro Stabile del Veneto, il Teatro Stabile di Catania, Findazione Antonveneta con il sostegno de La Biennale di Venezia, presentano L’Impresario delle Smirne di Carlo Goldoni, regia di Luca De Fusco, musiche di Nino Rota, adattamento di Luca De Fusco e Antonio Di Pofi, scene di Antonio Fiornetino, costumi di Maurizio Millenotti, elaborazione musicale di Antio Di Pofi, luci di Emidio Benezzi, con Eros Pagni, Gaia Aprea, Anita Bartolucci, Alberto Fasoli, Piergiorgio Fasolo, Max Malatesta, Giovanna Mangiù, Alvia Reale, Paolo Serra, Enzo Turrin


Il rosso domina la scena. Il pianoforte piroetta temi di Rota in un gioco fine a se stesso. L’intento del regista sarebbe quello di celebrare Fellini: oltre alle musiche si hanno dei rimandi ai personaggi di “Amarcord”, “La Strada”, “8e½”. Ma quello che trapela allo spettatore è, più che altro, una nostalgica mancanza. Non si riesce a cogliere il disegno registico di unire questi due mostri sacri (per l’appunto, Fellini e Goldoni), in un’ambientazione da cabaret televisivo, dove gli attori tra stridule voci femminili, eccessi barocchi e spesso infelici battute, riescono ad annoiare, quasi ad infastidire lo spettatore, già provato dalla lungaggine della pièce. Interessanti, invece, costumi, luci e trovate sceniche, che riescono a dare allo spettacolo una certa dignità. Costumi sfarzosi, ampollosi, di forgia settecentesca, che rispecchiano le pavonerie della squattrinata compagnia. Efficiente l’uso dei montacarichi, addobbati da camerini ambulanti, per rendere ancor più aleatoria e vanagloriosa la caratterizzazione del musico soprano Carluccio e delle tre primedonne. Bella la scena finale con le sedie e i bagagli sospesi nella penombra di uno sfondo blu tenue, quasi un chiar di luna, a rischiarare le fumosità del porto nelle ultime ore della notte.

Al centro della storia vi è Alì, impresario turco, impersonato da Eros Pagni, che si reca a Venezia con l’intento di allestire uno spettacolo di musica a Smirne. Alì, completamente a digiuno di teatro, delega, a sedicenti esperti e nobili locali, il compito di organizzare la compagnia. Le ingenti prospettive di guadagno e l’ingenua filantropia del turco mettono, però, in moto una serie di meccanismi truffaldini, un giro di raccomandazioni e sleali rivalità che, alla fine, porteranno il mecenate ad abbandonare il progetto e a far ritorno in patria, seppur lasciando una borsa di zecchini, affinché la seccante compagnia possa allestire uno spettacolo in totale autonomia.

Il testo di Goldoni ritrae cinicamente i retroscena dei teatranti, mette in luce i vizi, le rivalità, i doppiogiochismi, di un Arte in decadenza, di un mondo arrivista e senza scrupoli, che sa vendere il proprio corpo al potente di turno (proprio come fa la “virtuosa” Lucrezia con il viscido conte Lasca), che sa cospirare e pretendere senza mettersi in gioco, senza merito, con la sola dote del servile e bieco clientelismo. Significativa l’esclamazione: «Questa graziosa inciviltà di bellezza!» fatta dal turco, esasperato dalle dimostrazioni di orgoglio e dai rigiri delle tre donne, pronte a sfoderare le più affilate arti seduttive, ma incapaci di accettare una parte diversa da quella della primadonna. Un fare tipicamente italiano, come tipicamente italiana sono la furbizia e l’attaccamento al denaro, che portano ad approfittare di un volenteroso impresario straniero, proponendogli una vera e propria truffa che dissiperà le sue finanze e accontenterà, invece, la nutrita combriccola protetta dal conte Lasca e dal signor Nibbio. Anche qui, una ingenua e al tempo stesso savia affermazione di Alì: «Io non conoscere bene malizia italiana» conferisce al testo un taglio satirico, uno squarcio della società italiana della crisi, di allora come di oggi. È un’opera molto attuale, peccato per lo scarno adattamento di De Fusco e Di Pofi!

Lina Rignanese

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