A volte la vita riserva delle sorprese inaspettate; situazioni che mai avremmo pensato possibili bussano alla nostra porta e quasi per caso, o soltanto perché “così era scritto”, iniziano a far parte di noi, a colorare il nostro percorso facendoci diventare “altri” e a spianare la strada per scoprire chi davvero siamo.
“The Millionaire”segue, per molti versi, questo itinerario, ci mette di fronte a molti interrogativi importanti che fanno parte dell’essere umano d’oggi: l’amore, l’amicizia, la vita e, purtroppo, la ricchezza. Vera bestia nera del nostro tempo, il denaro va di pari passo con il potere, spesso esso si trasforma nella nostra unica ragione di vita, tirando fuori il nostro lato peggiore e i nostri vizi più subdoli.
Il film, uscito nelle sale nel 2008 e diretto da Danny Boyle (regista di culto per la generazione degli anni ’90 con il film “Trainspotting”), racconta la storia del piccolo Jamal Malik, della sua infanzia vissuta nella baraccopoli di Mumbai fino alla partecipazione al famoso quiz televisivo “Chi vuol essere milionario?”.
Tutto il film ruota intorno alla figura del giovane indiano, ripercorrendo la sua amicizia con Salim, anche lui cresciuto nella baraccopoli di Mumbai, e l’eterno amore – dall’infanzia fino all’età adulta – tra il nostro protagonista e la bella Latika. Jamal, che lavora come “ragazzo del the” in un call-center, riesce quasi per caso a diventare concorrente del famoso show televisivo; e quando si aggiudica l’intero montepremi, esplode un caso a livello nazionale. Accusato di aver imbrogliato nel gioco, Jamal viene fermato ed interrogato dalla polizia; com’è possibile che un ragazzo della baraccopoli, cresciuto per le strade e senza un vera istruzione riesca a rispondere correttamente a tutte le domande del gioco?
La risposta è celata nella domanda stessa; il film, infatti, mette in luce l’idea di conoscenza acquisita grazie all’esperienza maturata nella vita, i giorni passati senza mangiare, allo spirito d’iniziativa. Tutti questi fattori diventano essenziali per riuscire nell’impresa della vita.
Volendo fare un paragone cinematografico, il film di Danny Boyle può essere accostato a “Forrest Gump” di Robert Zemeckins ; entrambi i film, infatti, sono un manifesto che osanna la riuscita nella vita da parte dei “reietti” della società; se il film di Zemeckins celebra il raggiungimento e quindi la realizzazione del sogno americano da parte di uomo con problemi mentali, “The Millionaire” celebra, invece, il povero che riesce a portare a compimento i suoi sogni senza neppure avere i mezzi per farlo.
Un film dunque che fa riflettere e, almeno questa volta, dà il giusto premio a chi nella vita ne ha davvero bisogno.
Emiliano Sportelli
L'[A]lter è un contenitore senza coperchio. Una finestra sull'underground e sulle controculture.
martedì 21 giugno 2011
sabato 18 giugno 2011
SCUOTE L'ANIMA MIA EROS
Ritorna a Lecce dopo pochi mesi dalla sua ultima visita Eugenio Scalfari, giornalista, scrittore, imprenditore e «filosofo» – così come lo definisce il suo biografo, il professore di Filosofia Angelo Cannatà. Un ritorno che coincide con la presentazione del suo ultimo libro “Scuote l’anima mia Eros” edito da Einaudi, un lavoro per certi versi autobiografico, che indaga sui tormenti e i punti interrogativi dello scrittore stesso. Tema fondamentale del libro è soprattutto l’io, e con esso “Eros” che Scalfari identifica con «il signore degli istinti, il cui padre è l’istinto di sopravvivenza presente in tutti gli esseri viventi. Negli uomini – continua l’autore – questo istinto è l’amore per la vita», il quale si dirama in più vie: «l’amore per sé stessi, l’amore per l’altro e l’amore per gli altri».
Il libro è dedicato al compagno di banco, nonché amico, Italo Calvino, figura di vitale importanza nella crescita intellettuale dell’autore. Parlando di Calvino, lo definisce un “saturnino” cioè un introverso; al contrario Scalfari si identifica come un “mercuriale”, ossia un estroverso, e conclude affermando che entrambi avrebbero sempre sognato di avere il carattere dell’altro.
Punto fondamentale trattato da Scalfari durante il convegno è lo stile usato nei suoi lavori di scrittore che è di tutt’altra natura rispetto ai lavori di giornalista, sia per quanto riguarda gli argomenti trattati che il linguaggio utilizzato: «io non scriverò nei miei libri quello che scrivo da giornalista, per questo mi sono dovuto inventare, ho cercato di diversificare il linguaggio per scrivere di due temi differenti».
Un accenno finale è riservato alle sue passioni di lettore, in particolar modo per Marcel Proust, filosofo molto apprezzato perché trattando il tema della memoria ci fornisce la chiave per capire che cos’è l’identità umana.
Un Eugenio Scalfari che, seppur un po’ avanti con gli anni, esprime idee di alto livello, una grande cura per i dettagli oltre ad uno spirito d’iniziativa degno di un ragazzo di vent’anni.
Emiliano Sportelli
giovedì 16 giugno 2011
ALLA FINE HO SONNO
100 (199)
All'improvviso, come se un destino chirurgo mi avesse operato per una cecità antica ottenendo un grande successo immediato, alzo la testa dalla mia vita anonima verso la chiara conoscenza del come esisto. E vedo che tutto quanto ho fatto, tutto quanto ho pensato, tutto quanto sono stato, è una specie di inganno e di follia. Mi stupisco di quello che non sono riuscito a vedere. mi sorprendo si quanto sono stato accorgendomi che in fin dei conti non sono.
Guardo, come in una distesa al sole che rompe le nuvole, la mia vita passata; e mi accorgo, con uno stupore metafisico, di come tutti i miei gesti più sicuri, le mie idee più chiare e i miei propositi più logici non siano stati altro che un'ebbrezza congenita, una pazzia naturale una grande ignoranza. Non ho neppure recitato. Sono stato recitato. Non sono stato l'attore, ma i suoi gesti.
Tutto quanto ho fatto, ho pensato e sono stato, è una somma di subordinazioni, sia a un ente falso che ho creduto mio perché ho agito partendo da lui, sia di un peso di circostanze che ho scambiato per l'aria che respiravo. In questo momento del vedere, sono un solitario immediato che si riconosce esiliato nel luogo in cui si è sempre creduto cittadino. Nel più intimo di ciò che ho pensato non sono stato io.
Mi sopravvive allora un terrore sarcastico della vita, uno sconforto che va oltre i limiti della mia individualità cosciente. So che sono errore e traviamento, che non ho mai vissuto, che sono esistito soltanto perché ho riempito tempo con coscienza e pensiero. E la mia sensazione di me è quello di chi si sveglia dopo un sonno pieno di sogni reali, o quella di chi è liberato, grazie a un terremoto, dalla poca luce del carcere a cui si è abituato.
Mi pesa, mi pesa veramente, come una condanna a conoscere, questa nozione improvvisa della mia vera individualità. di quella che ha sempre viaggiato in modo sonnolento fra ciò che sente e ciò che vede.
E' così difficile descrivere ciò che si sente quando si sente che si esiste veramente, e che l'anima è un'entità reale, che non so quali sono le parole umane con cui si possa definirlo. Non so se ho la febbre, come sento, se o smesso di avere la febbre di essere dormitore della vita. sì, lo ripeto, sono come un viaggiatore che all'improvviso si trovi in una città estranea senza sapere come vi è arrivato; e mi vengono in mente i casi di coloro che perdono la memoria, e sono altri per molto tempo. Sono stato un altro per molto tempo (dalla nascita e dalla coscienza), e mi sveglio ora in mezzo al ponte, affacciato sul fiume, sapendo che esisto più stabilmente di colui che sono stato finora. Ma la città mi è sconosciuta, le strade nuove, e la malattia senza rimedio. Aspetto dunque affacciato al ponte, che passi la verità, e che io mi ristabilisca nullo e fittizio, intelligente e naturale.
E' stati un attimo, ed è già passato. Vedo ormai i mobili che mi circondano, il disegno della vecchia carta alle pareti, il sole attraverso i vetri polverosi. Ho visto la verità per un attimo. Sono stato per un attimo, coscientemente, ciò che i grandi uomini sono verso la vita. Ricordo i loro atti e le loro parole, e non so se non sono stati anche loro tentati vittoriosamente dal Demone della Realtà. Non sapere di sé vuol dire vivere. Sapere poco di sé vuol dire pensare. Sapere di sé, all'improvviso, come in questo momento lustrale, vuol dire avere subitamente la nozione della monade intima, della parola magica dell'anima. Ma una luce improvvisa brucia tutto, consuma tutto. Ci lascia nudi perfino noi stessi.
E' stato solo un attimo e mi sono visto. Poi, non so più dire ciò che sono stato. E, alla fine, ho sonno, perché, non so perché, penso che il senso è dormire.
NOTE:
I numeri stanno a indicare la posizione all’interno delle due versioni di riferimento:
- F. Pessoa,‘Il libro dell’inquietudine di Bernardo Soares', prefazione di A. Tabucchi, ed. Feltrinelli, 2008.
- I numeri tra parentesi da: F. Pessoa, ‘Livro do Desassosego por Bernardo Soares’, prefacio e organização de Jacinto do Prado Coelho, Ática, Lisboa, 1982, 2 voll.
LR
domenica 12 giugno 2011
EUROPRIDE 2011
Una festa allegra, spensierata e colorata. Carri, maschere, paillettes, lustrini e parrucche. Musica e gente desiderosa di divertirsi in piazza, per le strade, alla luce del sole e gridare – a suon di dance e pop – il proprio amore “uguale anche se diverso”. Ogni gay pride è questo, ma anche e soprattutto la necessità di rendere visibili le proprie esistenze e reclamare con fervore diritti sociali e politici. Non è un caso che l’Europride quest’anno si sia svolto a Roma. L’Italia è, infatti fanalino di coda dell’Europa e dell’Occidente per quanto riguarda il riconoscimento legislativo di cittadini gay lesbiche e transessuali. Dopo l’ennesimo slittamento della proposta di legge avanzata alla Camera dalla deputata Pd Anna Paola Concia, dopo l’affossamento di PACS, Dico e vari tentativi di riconoscimento delle coppie di fatto, dopo gli eccessi di familismo del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Luca Giovanardi e le affermazioni da macho-man del Premier Silvio Berlusconi. E ancora tra un diktat “vaticanense” e un arrembaggio leghista o fascista, non si poteva non portare tra le strade capitoline la marcia per i diritti, l’uguaglianza, la dignità del popolo lgbtqi (lesbo, gay, trans, bisex, queer, intrasex).
Il corteo è partito alle 16 da Piazza della Repubblica, quaranta carri, circa 1 milione di persone, stimati degli organizzatori. Un serpentone energetico, brioso e danzante, con i colori dell’arcobaleno (simbolo del movimento lgbt sin dalla rivolta di Stonewall e oggi associato anche ai movimenti pacifisti) a fare da sfondo alla festa, ma anche ai messaggi politici: doveroso il ricordo di David Kato Kisule (attivista Lgbt ucciso in Uganda lo scorso gennaio), tante le prese di posizione contro le ingerenze del Vaticano nella vita sessuale della gente (tra preservativi vietati e omosessualità messa al bando), molte le rime satiriche su Santanché, Stracquadanio, Binetti, Giovanardi. Su numerose maglie si leggono le scritte adesive: “Amare è un diritto umano”, “Libera di essere lesbica”. Dopo circa quattro ore, la parata è giunta a Circo Massimo per l’attesissima “apparizione” di Lady Germanotta. La guest-star, con parrucca azzurra, occhiali da sole e un vestito Versace a scacchi bianchi e neri, ha intonato ‘Born this way’ (diventato un inno della comunità Lgbt mondiale) e ‘The Edge of Glory’. Prima della musica, la pop-star e icona gay per eccellenza, ha incantato il pubblico, sovraeccitato dalla sua presenza, con un discorso, tenuto rigorosamente in prima persona, sobrio e denso. Una richiesta, un augurio e un invito a tutti di continuare a lottare, finché ogni Paese del mondo non abbia cancellato quelle leggi che denigrano, condannano, puniscono e mettono a morte le persone omosessuali: “Chiediamo uguaglianza piena. Sono arrabbiata come voi. Dobbiamo dare prova della nostra rabbia e della nostra pena e difendere l'amore. Facciamo la rivoluzione dell'amore!”
Di sotto qualche scatto allegro:
Lina Rignanese
Il corteo è partito alle 16 da Piazza della Repubblica, quaranta carri, circa 1 milione di persone, stimati degli organizzatori. Un serpentone energetico, brioso e danzante, con i colori dell’arcobaleno (simbolo del movimento lgbt sin dalla rivolta di Stonewall e oggi associato anche ai movimenti pacifisti) a fare da sfondo alla festa, ma anche ai messaggi politici: doveroso il ricordo di David Kato Kisule (attivista Lgbt ucciso in Uganda lo scorso gennaio), tante le prese di posizione contro le ingerenze del Vaticano nella vita sessuale della gente (tra preservativi vietati e omosessualità messa al bando), molte le rime satiriche su Santanché, Stracquadanio, Binetti, Giovanardi. Su numerose maglie si leggono le scritte adesive: “Amare è un diritto umano”, “Libera di essere lesbica”. Dopo circa quattro ore, la parata è giunta a Circo Massimo per l’attesissima “apparizione” di Lady Germanotta. La guest-star, con parrucca azzurra, occhiali da sole e un vestito Versace a scacchi bianchi e neri, ha intonato ‘Born this way’ (diventato un inno della comunità Lgbt mondiale) e ‘The Edge of Glory’. Prima della musica, la pop-star e icona gay per eccellenza, ha incantato il pubblico, sovraeccitato dalla sua presenza, con un discorso, tenuto rigorosamente in prima persona, sobrio e denso. Una richiesta, un augurio e un invito a tutti di continuare a lottare, finché ogni Paese del mondo non abbia cancellato quelle leggi che denigrano, condannano, puniscono e mettono a morte le persone omosessuali: “Chiediamo uguaglianza piena. Sono arrabbiata come voi. Dobbiamo dare prova della nostra rabbia e della nostra pena e difendere l'amore. Facciamo la rivoluzione dell'amore!”
Di sotto qualche scatto allegro:
Lina Rignanese
martedì 7 giugno 2011
ANGELS ON DEATH ROW - (Il caso di Ebrahim Hamidi)
Un documentario angosciante, che lascia lo spettatore indignato e senza parole dinanzi alle barbarie perpetrate dal regime di Mahmud Ahmadinejad contro gli omosessuali. Il lavoro di Alessandro Golinelli e Rocco Bernini è stato presentato al Queering Roma Festival di Cinema Lgbt.
Durante un incontro presso la Columbia University di New York, il presidente iraniano aveva ammesso lapidario: “In Iran non ci sono gay”. Una frase tanto offensiva, quanto rivoltante nei confronti delle persone omosessuali. Se l’omosessualità viene punita con la morte per lapidazione o impiccagione, la transessualità è, altresì, incoraggiata dal regime. Il cambio di sesso è, infatti legale e favorito, in modo che dinanzi alla legge venga ristabilita una situazione di “normalità”, quindi di eterosessualità. Il codice, peraltro, non prevede sconti per i minorenni, come nel caso di Ebrahim Hamidi, il sedicenne, all’epoca dei fatti (2008), accusato di aver usato violenza sessuale, insieme ad altri tre ragazzi, su un uomo adulto; i tre hanno in seguito testimoniato contro Ebrahim, salvandosi dal carcere, ma condannando, a tutti gli effetti, l’imputato: la legge afferma che la pena capitale viene applicata nel caso in cui si arriva alla quarta denuncia per il reato di “sodomia”. La Corte suprema ha respinto la sentenza della Corte provinciale dell'Azerbaijan orientale (il luogo in cui il ragazzo è stato arrestato) e ha ordinato un riesame del caso, ma sembra che la corte provinciale voglia comunque procedere con l'esecuzione della condanna a morte. A parlare del processo è l’ex-avvocato di Ebrahim, Mohammad Moustafei, difensore anche del caso internazionale di Sakineh Mohammadi Ashtiani, condannata alla lapidazione con l’accusa di adulterio (tuttora la sentenza è stata sospesa). Oggi, sia Ebrahim che Sakineh, sono senza un difensore, Moustafei, infatti, è stato costretto a lasciare il Paese e a vivere in esilio.
Sulla questione in Iran parlano anche un giovane omosessuale iraniano, Drewery Dyke, il responsabile dell’Iran per Amnesty International e Peter Tatchell, britannico attivista gay.
Raccapriccianti e sconvolgenti le immagini raccolte dal web e girate con i telefonini, che mostrano scene di lapidazione, torture nel braccio della morte, impiccagioni e varie efferatezze da parte dei poliziotti. Tanta l’amarezza espressa dal ragazzo iraniano intervistato, infatti, se le elezioni presidenziali del 2009 e tacciate di brogli, fossero state vinte dal candidato dei moderati Mir Hossein Moussawi, probabilmente, la situazione per i gay iraniani sarebbe stata più distesa e l’omosessualità più tollerata.
Lina Rignanese
lunedì 6 giugno 2011
365 WITHOUT 377
(proiettato al Queering Roma Film Festival)
Colori accesi, allegria, sorrisi e occhi meravigliosi. Gli ingredienti magici dell’India ci sono tutti in questo intenso documentario di Adele Tulli, ‘365 without 377’, premiato dal pubblico come miglior documentario del XXVI Torino Glbt Film Festival.
Il lavoro racconta l’anno trascorso dopo la storica sentenza della Corte Suprema di Delhi. Il 2 luglio 2009 venne sancita la cancellazione della legge 377 del Codice Penale Indiano, imposta sotto il dominio inglese nel 1860, che criminalizzava qualsiasi atto sessuale fra due adulti dello stesso sesso. Da qui il titolo: 365 giorni senza la legge 377.
Una decisione storica, festeggiata il giorno dell’anniversario con una grande festa. Tre le esperienze raccontate: Beena, Pallav e Abheena, una lesbica, un gay e una transessuale mtf (da maschio a femmina). Attraverso i loro occhi e in loro compagnia la macchina da presa percorre le strade affollate di Bombay, dove oltre ai conservatori guru religiosi, a famiglie gelose di mantenere le proprie tradizioni, alle infelicità dei matrimoni combinati, vengono alla luce storie di omosessuali, sempre più determinati a richiedere il proprio diritto a esistere.
I rappresentanti di tredici sette religiose hanno, però, fatto ricorso alla Corte Costituzionale, stigmatizzando come “contro natura” i rapporti tra persone dello stesso sesso. La Corte a oggi non ha ancora deliberato, ma il riconoscimento di anticostituzionalità farebbe sprofondare nuovamente gli omosessuali indiani in uno stato di clandestinità e di punibilità penale.
Lina Rignanese
STONEWALL UPRISING
DAL QUEERING ROMA - FESTIVAL DI CINEMA LGBT (3-5 GIUGNO 2011)
La notte tra il 27 e il 28 giugno 1969 ci fu l’ennesima irruzione della polizia nel Greenwich Village (New York City), in particolare nello storico locale gay ‘Stonewall Inn’. L’episodio fu la scintilla che portò la comunità di gay, lesbiche e trans a prendere in mano le proprie vite e, con determinazione, scendere in piazza alla luce del sole per rivendicare i propri diritti di persone libere e uguali a tutti gli altri.
Il documentario di Kate Davis e David Heilbroner è un lavoro prezioso per raccolta di materiale di repertorio. Numerose le foto private dei protagonisti di quelle storie; memorabili, quanto brutali, i video delle campagne omofobe trasmesse dai media.
Raccontato attraverso le voci dei protagonisti, i frequentatori del bar, quelle di un giornalista del ‘Village Voice’ (giornale del quartiere) che quella notte assistette alla rivolta, e di un ex poliziotto che varie volte aveva preso parte alle retate contro i gay.
Il lavoro è strutturato come un’inchiesta, con un montaggio che ricostruisce accuratamente il prima, il durante e il dopo Stonewall.
Erano gli anni Sessanta e l’omosessualità era considerata una malattia mentale: migliaia furono i ricoverati negli istituti d’igiene mentale e sottoposti a sterilizzazione, castrazione, elettroshock, lobotomia. L’istituto di Atascadero (California) era considerato la Dachau dei queer (termine dispregiativo per dire “invertiti”).
In un contesto di repressione, di “proibizionismo gay”, le difficoltà per gli omosessuali di vivere e d’incontrarsi erano numerose: nessuno, se non la mafia, voleva aprire bar dichiaratamente gay per timore che la polizia potesse far chiudere l’esercizio. I luoghi, dunque, scarseggiavano e molti uomini “prendevano in prestito” i camion che di giorno trasportavano carne da macello: “dentro quei luoghi angusti, sporchi, puzzolenti e sovraffollati, i gay s’incontravano per fare sesso” – racconta uno degli intervistati. E anche lì i blitz erano frequenti e violenti.
La polizia, pagata dalla mafia, “di solito faceva le sue retate in settimana, nelle prime ore della sera, quando i bar erano quasi vuoti”, invece quella sera di giugno, colpirono alle due di un sabato notte, quando lo Stonewall era colmo. Quella volta, però, le cose andarono diversamente: i poliziotti furono circondati da una massa di persone inferocite, esasperate, pronte a tutto. Per la prima volta, “la polizia ebbe paura” – si sente in un’intervista, e così anche la società americana dovette abbassare i toni dello scontro, perché ad alzare la voce, finalmente, erano le migliaia di gay, lesbiche e trans portati allo stremo dell’umana sopportazione.
I giorni seguenti, gli animi erano in fibrillazione, furono ciclostilati numerosi volantini, si mise in moto un movimento che contagiò anche gli abitanti del quartiere fino alla parata storica, che portò per le strade di New York migliaia di persone. Una massa colorata di persone che dichiaravano il proprio orgoglio omosessuale e chiedevano pari dignità e pari diritti. Finalmente “ci si rese conto che eravamo un movimento folto e determinato”, non solo di attivisti o di omosessuali che socialmente non avevano nulla perdere, ma anche i gay benestanti, i borghesi, quelli che socialmente occupavano i vertici, scesero per strada a metterci la faccia: fu questo il primo Gay Pride della storia.
La rivolta di Stonewall fu “la Rosa Parks dei gay”, rappresentò l’inizio della fine dell’esistenza “crepuscolare” (gli omosessuali in gergo erano chiamati “twilight people”) e stigmatizzata dei gay negli Stati Uniti d’America.
Lina Rignanese
sabato 4 giugno 2011
ELENA UNDONE
Credete nell’anima gemella? Nelle coincidenze che rendono misterioso e affascinante un incontro? Siete alla ricerca dell’Amore romantico che devasta le esistenze, oppure l’avete già trovato? ‘Elena Undone’ della regista Nicole Conn è il film giusto per voi. Presentato durante la prima giornata del ‘Queering Roma – Festival del cinema lesbo, gay, bisex, trans, queer’ (3-4-5 giugno) presso il Nuovo Cinema Aquila. Organizzato dall’associazione Armilla con la collaborazione del Museo nazionale del cinema e di altri festival lgbt nazionali, quali ‘Da Sodoma a Hollywood’ di Torino, ‘Divergenti – Festival internazionale di cinema trans’, ‘Some Prefer Cake – Lesbian Film Festival’ di Bologna.
Una commedia (inizia con drammi personali e termina con un lieto fine) che racconta la storia di Elena (l’intensa Necar Zadegan), moglie e madre eterosessuale, figlia di genitori credenti e conservatori (l’una cattolica, l’altro indù), sposata con Barry (Gary Weeks), il pastore della comunità, non avrebbe mai nemmeno pensato di poter innamorarsi di una donna, finché la sua vita non incrocia quella di Peyton (la fascinosa Tracy Dinwiddie), scrittrice affermata e lesbica dichiarata. Una serie di coincidenze e di ripetuti incontri in luoghi inaspettati portano le due a legarsi di una forte e intima intesa. Elena è rinvigorita, rinata da questa conoscenza e non vorrebbe perdere questa persona “speciale” per nessuna ragione al mondo. Neanche quando Peyton le confessa la sua attrazione per lei e le chiede con sofferenza di non vedersi più, in fondo non crede in un futuro con una donna etero e sposata, Elena non molla e la prega di non uscire dalla sua esistenza. L’evoluzione della protagonista è evidente: da ‘mamma orsa’ (tipica espressione usata in ambienti conservatori e Tea Party) a donna autodeterminata e coraggiosa che compie una scelta estrema, da frigida moglie di Barry e annoiata “spettatrice” dei suoi sermoni domenicali ad amante appassionata e talentuosa fotografa. La sua vita era grigia, monotona e “squadrata”, finché non si è gettata a capofitto in un amore che sembrava impossibilitato da ostacoli insormontabili, e invece… Inizierà un’appassionata storia d’amore, raccontata con delicatezza e con contrasti di luminosità che impreziosiscono una buona fotografia (curata da Tal Lazar), e poi come non sciogliersi dinanzi a uno dei baci più lunghi della storia del cinema…
Un film che tratta con garbo numerose tematiche: la religione, il matrimonio, il sesso, l’omofobia, l’Amore, la maternità. Importante su quest’ultimo punto la legge sull’inseminazione artificiale, possibile sia per coppie sposate (o no), sia per single, che siano essi etero o omosessuali.
Sullo sfondo, gli ambienti conservatori di una chiesa, quella protestante, chiusa, cieca, razzista, attaccata ai suoi privilegi “divini” di bianchezza ed eterosessualità. Non mancano i riferimenti alle crociate contro i “peccatori” gay. Il pastore Barry e il suo gregge sono gli unici a uscire perdenti da questo film. Barry con la sua vita costruita artificiosamente “a regola d’arte”: egli recita nei suoi sermoni e recita in famiglia, il suo matrimonio è una farsa, di fatto l’unico legame che tiene insieme i due coniugi, oltre all’abitudine e ai compromessi, è il figlio Nash.
Esce del tutto vincente dalla storia la nuova generazione: Nash e Tori, la sua ragazza, sono i primi a notare il cambiamento di Elena, e se Tori avvalla e incoraggia la scelta di Elena verso la felicità, Nash è combattuto da un sentimento di delusione e repulsione nei confronti di una mamma che da “normale” diventa “anormale”. Alla fine Nash farà anche lui la scelta “giusta”.
Forse kitsch, ma sicuramente distensiva e leggera la cornice relativa a Tyler (un simpatico Sam Harris) e alla sua “scienza” delle anime gemelle. Un po’ santone, un po’ amicone, il sensitivo avverte nella vita di Elena un cambiamento imminente e travolgente e sarà il collante di tutta la vicenda tra le due protagoniste, dall’inizio alla fine.
Lina Rignanese
Una commedia (inizia con drammi personali e termina con un lieto fine) che racconta la storia di Elena (l’intensa Necar Zadegan), moglie e madre eterosessuale, figlia di genitori credenti e conservatori (l’una cattolica, l’altro indù), sposata con Barry (Gary Weeks), il pastore della comunità, non avrebbe mai nemmeno pensato di poter innamorarsi di una donna, finché la sua vita non incrocia quella di Peyton (la fascinosa Tracy Dinwiddie), scrittrice affermata e lesbica dichiarata. Una serie di coincidenze e di ripetuti incontri in luoghi inaspettati portano le due a legarsi di una forte e intima intesa. Elena è rinvigorita, rinata da questa conoscenza e non vorrebbe perdere questa persona “speciale” per nessuna ragione al mondo. Neanche quando Peyton le confessa la sua attrazione per lei e le chiede con sofferenza di non vedersi più, in fondo non crede in un futuro con una donna etero e sposata, Elena non molla e la prega di non uscire dalla sua esistenza. L’evoluzione della protagonista è evidente: da ‘mamma orsa’ (tipica espressione usata in ambienti conservatori e Tea Party) a donna autodeterminata e coraggiosa che compie una scelta estrema, da frigida moglie di Barry e annoiata “spettatrice” dei suoi sermoni domenicali ad amante appassionata e talentuosa fotografa. La sua vita era grigia, monotona e “squadrata”, finché non si è gettata a capofitto in un amore che sembrava impossibilitato da ostacoli insormontabili, e invece… Inizierà un’appassionata storia d’amore, raccontata con delicatezza e con contrasti di luminosità che impreziosiscono una buona fotografia (curata da Tal Lazar), e poi come non sciogliersi dinanzi a uno dei baci più lunghi della storia del cinema…
Un film che tratta con garbo numerose tematiche: la religione, il matrimonio, il sesso, l’omofobia, l’Amore, la maternità. Importante su quest’ultimo punto la legge sull’inseminazione artificiale, possibile sia per coppie sposate (o no), sia per single, che siano essi etero o omosessuali.
Sullo sfondo, gli ambienti conservatori di una chiesa, quella protestante, chiusa, cieca, razzista, attaccata ai suoi privilegi “divini” di bianchezza ed eterosessualità. Non mancano i riferimenti alle crociate contro i “peccatori” gay. Il pastore Barry e il suo gregge sono gli unici a uscire perdenti da questo film. Barry con la sua vita costruita artificiosamente “a regola d’arte”: egli recita nei suoi sermoni e recita in famiglia, il suo matrimonio è una farsa, di fatto l’unico legame che tiene insieme i due coniugi, oltre all’abitudine e ai compromessi, è il figlio Nash.
Esce del tutto vincente dalla storia la nuova generazione: Nash e Tori, la sua ragazza, sono i primi a notare il cambiamento di Elena, e se Tori avvalla e incoraggia la scelta di Elena verso la felicità, Nash è combattuto da un sentimento di delusione e repulsione nei confronti di una mamma che da “normale” diventa “anormale”. Alla fine Nash farà anche lui la scelta “giusta”.
Forse kitsch, ma sicuramente distensiva e leggera la cornice relativa a Tyler (un simpatico Sam Harris) e alla sua “scienza” delle anime gemelle. Un po’ santone, un po’ amicone, il sensitivo avverte nella vita di Elena un cambiamento imminente e travolgente e sarà il collante di tutta la vicenda tra le due protagoniste, dall’inizio alla fine.
Lina Rignanese
mercoledì 1 giugno 2011
INGRAVED "ONRYOU"
Dopo dieci anni di duro lavoro, infinite ore spese nella loro amata sala prove, enorme sacrificio, ma anche (e soprattutto) tanta passione, l’obiettivo degli Ingraved – uno tra i più importanti gruppi death-core della scena brindisina – è stato finalmente raggiunto: è infatti uscito, lo scorso Ottobre per la casa discografica tedesca Power Pain Records, “Onryou” il loro album d’esordio, un lavoro fatto di “Sangue, sudore e lacrime” (come loro stesso l’hanno definito), figlio di cinque ragazzi legati da una profonda amicizia, oltre che da un amore in comune chiamato musica.
“Onryou” accarezza con grande impatto e decisione il metal moderno ed estremo miscelandolo con elementi hardcore degni di nota, il tutto con l’obiettivo di creare una sorta di “simbiosi” tra artista e pubblico; tracciare un cerchio entro il quale i due protagonisti – musicista e spettatore – si riescano a fondere, lasciando il tutto e il niente alle spalle.
I loro testi trattano il tema della rivincita, la voglia di non arrendersi di fronte a nulla, non perdersi mai e continuare imperterriti a lottare per raggiungere quello in cui si crede; pezzi come “Bad Karma” o “The Burden” riprendono proprio l’idea del risollevare la testa e rialzarsi dopo ogni battuta d’arresto; sono testi “pieni”, ricchi di metafore oscure e apocalittiche proposti attraverso un linguaggio che molto si rifà al folklore e alla cultura pop giapponese, idea, quest’ultima, molto originale e davvero di grande interesse.
Un lavoro dunque degno di nota, dieci tracce piene di rabbia e speranza allo stesso tempo; quello degli Ingraved è un messaggio semplice e diretto: “se ci credi davvero, niente è impossibile!”
Emiliano Sportelli
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