L'[A]lter è un contenitore senza coperchio. Una finestra sull'underground e sulle controculture.
mercoledì 6 aprile 2011
JU TARRAMUTU
“Ho cercato di realizzare un lavoro che fosse uno ‘spazio da abitare’, un luogo in cui gli Aquilani potessero incontrarsi e abitare il film attraverso le loro storie personali”. Così l’autore Paolo Pisanelli introduce il suo documentario ‘Ju ’Tarramutu’, in uscita il 6 aprile in 20 città italiane, autoprodotto “con tanti sforzi” da OfficinaVisioni, Big Sur e PMI.
Quindici mesi di riprese effettuate tra gli sfollati e le macerie, 200 ore di materiale girato che, nel montaggio, effettuato da Matteo Gherardini, ha preso la forma definitiva di un documentario impostato sul’ordine cronologico degli eventi.
A fare da cornice ai vari momenti della vicenda, ci sono le musiche curate da Animammersa, che a suon di taranta invocano Sant’Emidio, il santo del terremoto, per allontanare da questa terra e da tutta la gente le rovine della calamità. Come una sorta di rito di esorcizzazione collettiva, il ritmo ipnotico dei tamburelli e il suono incantevole della chitarra battente, della fisarmonica e della viola enfatizzano la necessità della popolazione di riprendersi la propria terra, di tornare là dove ancora vivono le proprie radici.
Si parte da quel fatidico 6 aprile 2009, ore 3e32, per ventidue lunghi secondi la terra ha tremato lasciando dopo sé aria impastata di polvere e calcinacci, vite mutilate, paesaggi frantumati e silenzio. “La gente girava tra le macerie in silenzio, come fantasmi, con la mente in pausa” – echeggia la voce narrante. “La testa in quei giorni non c’era o forse volevo che non ci fosse” – confessa una signora tra il blu dominante delle tendopoli.
Accanto al silenzio gonfio di dignità degli sfollati stride lo spettacolo mediatico montato per la gloria della politica e per la gioia degli affaristi, in tutto il film i televisori abbondano: dentro le tende, in mezzo alle macerie, nelle case delle new-town. La fiction racconta di “miracoli”, di gente che dovrebbe prendere quest’esperienza come se stesse “in un camping estivo”, si brinda per la consegna delle moderne, antisismiche e provvisorie case. La realtà ripresa, attraverso le persone che accompagnano lo spettatore in questo viaggio “nei territori della città più mistificata d’Italia” – sentenzia il sottotitolo del doc, è però tutt’altra.
Non ci sono pianti, lamentele, non c’è rassegnazione, quello che emerge è la rabbia, coltivata in sé dopo un primo momento di assestamento, di pausa, di terapeutico silenzio. Così inizia a manifestarsi la volontà attiva delle persone che non ci stanno a vedere la propria comunità smembrata e il territorio agricolo dissennatamente cancellato dalle ruspe per far posto alle nuove abitazioni. In assenza di un piano urbanistico, di un piano di sviluppo dei nuovi insediamenti, quello che appare è un agglomerato di case-dormitori costruiti a costi esosi su territori che invece avrebbero continuato a dare lavoro e beni alimentari.
La rabbia fa presto a trasformarsi in presa di posizione, così armati di carriole migliaia di aquilani hanno sfondato le resistenze militaresche e hanno ripreso possesso (seppur per poche ore) del centro di L’Aquila. Era il 28 febbraio 2010 e la cittadinanza attiva non ci stava più a vedere la propria città ancora sommersa dalle macerie, mentre in tutta Italia i media raccontavano che il “problema Abruzzo” era stato risolto e che tutti vivevano felici e contenti. Senza un piano di ricostruzione tutta la zona del cratere è destinata a rimanere una città fantasma, questa la realtà. È a questo destino che la gente si ribella. Ma per tutta risposta ricevono l’ordinanza straordinaria che vieta l’uso assoluto delle carriole, che vengono per questo sequestrate.
Luglio 2010, si parte alla volta della capitale, qui ricevono le manganellate delle forze di sicurezza, che in tenuta antisommossa hanno creato cordoni e barricate per non far avanzare i manifestanti verso i luoghi “strategici”.
È così che finisce questo viaggio, con magliette insanguinate e i politici arroccati nei loro palazzi.
Lina Rignanese
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RispondiEliminaDall'intervista a Paolo Pisanelli su L'Espresso:
RispondiEliminaD:Dal momento in cui avete terminato di girare ad oggi cosa è cambiato all'Aquila?
R:Ci sono ancora molti cantieri in attività, gli edifici del centro storico sono tutti transennati e messi in sicurezza, ma non ci abita nessuno. Ha riaperto qualche locale sul corso principale ma la sensazione che si ha è quella di una città vuota. La situazione più drammatica è quella dei paesi intorno: pochi giorni fa ho ripercorso tutti i luoghi dove ho girato il film (Camarda, Paganica, Tempera, Poggio Picenze, San Gregorio, Villa Sant'Angelo...) e ho constatato che tutto è fermo e abbandonato, tranne qualche ulteriore crollo. A Onna, luogo simbolico della ricostruzione, hanno costruito un edificio sociale all'ingresso del paese (Casa Onna) tutto intorno molti edifici sono stati spianati. A Poggio di Roio hanno spianato l'intero centro storico, non è rimasto un muro in piedi. Sembra azzerata anche la memoria, forse era meglio l'abbandono.
Sulla manifestazione degli aquilani a Roma si legga il seguente articolo:
RispondiEliminahttp://l-alter.blogspot.com/2010/07/diario-di-una-giornata-di-guerriglia.html