L'[A]lter è un contenitore senza coperchio. Una finestra sull'underground e sulle controculture.
domenica 24 luglio 2011
GOODBYE, AMY
“We only said goodbye with words” – cantava in ‘Back to Black’, uno dei brani migliori dall’omonimo album, che ha portato Amy Winehouse al successo planetario. La “maledizione dei 27" sembrava finita con gli anni Novanta, e invece… di artisti passionali, con drammi esistenziali che sfiorano il caos, ce n’è ancora (ce n’era). Amy era dotata di un forte talento, di uno stile personale riconoscibilissimo con quella voce calda, roca, nera, d’altri tempi, quelli forse in cui si cantava “Strange Fruit” – così, tanto per portare scompiglio anche nelle alte sfere del cielo musicale. Il suo modo di cantare, sporco, trascinato, intenso ed espressivo come pochi, ha creato –suo malgrado – un nuovo modo di usare la voce per tante giovani cantanti. Quel misto di rhythm’n’blues, soul, jazz, rock’n’roll, quel misto di esplosività ed eccentricità, quel misto di droghe e alcool e di eccedenze molteplici, hanno fatto di lei la signora dei Tabloid, oltre che delle classifiche mondiali.
Sfumata la folla in quel di Camden Square, dove l’artista abitava e in cui è stata trovata morta, resteranno i suoi due album a parlare per lei. L’esordio nel 2003 con ‘Frank’, che lei stessa non riusciva più ad ascoltare, ma non certo a suonare dal vivo. Poi l’arrivo di ‘Back to Black’ nel 2006 e l’apoteosi di critica e pubblico.
Il mondo della musica sa essere spietato, così successo e problemi di dipendenza possono raggiungere livelli mostruosi di interessi economico-mediatici: una serie di concerti sotto tono con l’artista visivamente ubriaca, barcollante e incapace di cantare o star dietro ai musicisti, fino all’ultimo crollo a Belgrado lo scorso 18 giugno.
Di materiale pronto per il terzo attesissimo lavoro ce n’era, forse arriverà un album postumo, ma intanto continuiamo ad ascoltare le perle già create e a salutarla nel miglior modo possibile: in musica. Goodbye, Amy!
Lina Rignanese
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