lunedì 5 marzo 2012

CESARE ADDA MURÌ



























Dove finisce la vita e inizia la finzione? Ci sono rappresentazioni in cui sfumano l’una nell’altra. Ci sono passioni primordiali messe in atto “per finta”, ma che risvegliano istinti già vissuti oppure giacenti. È la funzione mimetica e catartica del teatro. È la forza emotiva che contraddistingue le opere magnifiche da quelle mediocri. Alla prima categoria appartiene l’ultimo lavoro di Paolo e Vittorio Taviani, vincitore del 62° Orso d’Oro a Berlino. Vi appartiene perché il documentario d’autore (non posso chiamarlo docu-fiction!) sfuma nella rappresentazione teatrale. Vi appartiene perché gli attori-detenuti non recitano, ma vivono il “Giulio Cesare” di Shakespeare.

Nella tragedia si parla di un tiranno, di tradimenti, uomini d’onore, odio, omicidio. Situazioni d’attualità e realmente vissute (in prima persona o indirettamente) da chi è rinchiuso nel reparto di Alta Sicurezza di Rebibbia N.C..
È la verità degli attori la forza propulsiva del film. Così determinati nello studio delle parti e così a loro agio da tradurre la lingua di Shakespeare nei loro dialetti d’appartenenza: pugliese, siciliano, napoletano, calabrese diventano lingua teatrale, strumento necessario per far funzionare il rito collettivo. È la verità del sentire l’Arte da parte di chi la incontra dietro le sbarre a trasmettere l’emozione più grande: la funzione dell’Arte come salvezza, come presa di coscienza, come purificazione, come strumento di evasione, come libertà. Verità che diventano palpabili in quegli occhi davanti allo schermo, imprigionati nel loro passato, prima che in una cella. “Da quando ho conosciuto l’arte, questa cella è diventata una prigione” – ci dice “Cassio” (un bravo Cosimo Rega, poeta).

“Tutto è iniziato per caso” – racconta Paolo Taviani - “quando una nostra amica ci ha invitati ad assistere a uno spettacolo teatrale curato da Fabio Cavalli a Rebibbia”. Fu proprio l’emozione vissuta in quell’occasione a far nascere poi l’idea di farci un film.
Fabio Cavalli, direttore artistico del Centro Studi Enrico Maria Salerno, dirige da dodici anni la Compagnia dei Liberi Artisti Associati all’interno del carcere romano. Alcuni degli attori, una volta scontata la pena, sono anche riusciti a diventare dei professionisti, o almeno “a provarci” – come afferma, sorridente, Salvatore Striano (l’intenso Bruto).

Il documentario, girato in digitale (per la prima volta dai fratelli Taviani), parte dalla rappresentazione finale del pezzo teatrale. Scrosciano gli applausi. Le luci si abbassano sugli attori tornati carcerati. Sei mesi prima: i provini, l’incontro con il testo, le prove.
Lo stacco dell’intreccio viene sottolineato dal linguaggio fotografico (protagonista eccellente nel film grazie all’ottimo Simone Zampagni): toni accesi con dominanza di rosso nella messa in scena, uso del bianco e nero fortemente contrastato (quasi espressionistico) nel flash-back. Preziosa la colonna sonora di Giuliano Taviani e Carmelo Travia, minima e tutta concentrata sul racconto di quei volti carichi di tragico. Riscattati con il teatro.

Lina Rignanese

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