“Thank
you Italians!”, affermava ironico e deluso uno dei 200 migranti intercettati in
alto mare dalla Marina Militare Italiana e rimandati in Libia, quel triste 6
maggio 2009. Un video girato con un cellulare testimonia la disumanità e le
violenze da parte dei militari italiani: “siamo stati picchiati, le mani legate
dietro la schiena e rigettati in mano ai libici”. Tutti provenienti dal Corno
d’Africa, regione dilaniata dalla guerra, e aventi diritto d’asilo, ma sono
stati rimessi nelle mani degli uomini di Gheddafi prima di poter chiedere
qualsiasi cosa, financo l’acqua.
Chi
erano quei migranti? Quante persone sono state respinte in Libia? Che fine
hanno fatto? La risposta è per lo più vaga, i numeri un’incognita. Un quadro
della situazione ci viene presentato dalle testimonianze dirette che Andrea Segre e Stefano Liberti hanno raccolto nel campo profughi di Shousha, al confine
tra Tunisia e Libia, nel documentario d’inchiesta, “Mare chiuso”(nelle sale dal
15 marzo). Il
documentario è prodotto da ZaLab, con il sostegno di Open Society
Foundations, in collaborazione con
JoleFilm e con il patrocinio della Sezione Italiana di Amnesty International e
dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati.
Il
filo conduttore di tutto il doc è la storia di Semere Kahsay, giovane eritreo, che
per raggiungere sua moglie, fuggita qualche settimane prima per partorire in
sicurezza sull’altra sponda del mare, viene respinto e rinchiuso nei
carceri-lager libici, poi arriva la rivolta contro Gheddafi, la guerra e la fuga in Tunisia. Altra testimonianza è quella di Ermias Berhane,
rinchiuso nel Cara di Crotone, uno dei 9 sopravvissuti sui 72 del barcone
rimasto in altomare nel marzo 2011 e abbandonato a se stesso, nonostante un
elicottero della Marina sorvolasse la zona. Il tutto a pochi nodi da Lampedusa.
Si
calcola che tra il mese di maggio del 2009 e il mese di settembre del 2010,
migliaia di migranti africani siano stati ricacciati a Tripoli, dove avrebbero
subito ogni tipo di violenza all'interno di quei famigerati campi di detenzione lager di Zliten, Tweisha o Khasr El Bashir.
A
questo punto la domanda: “Quali sono le responsabilità degli Italiani?” La
sentenza della Corte di Strasburgo conferma all’unanimità l’atto di accusa
contro l’Italia per aver violato i diritti dell’uomo e le regole del diritto d’asilo
(articoli 3, 5 e 13 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo). Il processo, tenacemente sostenuto dagli avvocati Anton Giulio Lana e Andrea Saccucci, parte
proprio dai fatti di quel 6 maggio 2009, quando 200 somali ed eritrei, tra cui
bambini e donne incinte, sono stati intercettati, caricati su navi italiane e
riaccompagnati a Tripoli “senza essere stati prima identificati, ascoltati né
informati sulla loro destinazione”.
Questa
“furbata” comandata dall’allora Ministro degli Interni, Roberto Maroni, e dal
governo Berlusconi era figlia degli accordi bilaterali del Trattato d’amicizia
italo-libico e del clima xenofobo dilagante nel nostro Paese e in Europa, negli
ultimi tempi. Dunque, un "punto di non ritorno" - come ha definito la sentenza Laura Boldrini, portavoce dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati - per evitare che quei crimini si ripetano, soprattutto quando servirebbe un piano di accoglienza serio per far fronte alle migliaia di profughi (siriani, libici e somali) che in questi giorni affollano le coste libiche. Sarebbe cosa ben gradita e leale capire la posizione dell’attuale governo
tecnico e cosa è ancora effettivo di quel Trattato
a firma Berlusconi-Gheddafi (tuttora in vigore). Un quadro chiaro e trasparente delle responsabilità dei singoli e della situazione sarebbe utile a fare un piano di cooperazione e sviluppo tra le due sponde del Mediterraneo nel pieno rispetto dei diritti umani.
Lina
Rignanese
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