Le strade, la vita di Atene come appaiono oggi agli occhi di Petros Markaris, scrittore greco, nato nel 1937 a Istanbul da padre armeno e madre greca. È stato sceneggiatore del regista Theo Angelopulos e ha inventato il personaggio del commissario Kostas Charitos, protagonista di molti romanzi gialli. Il suo ultimo libro è 'Prestiti scaduti', primo capitolo di una trilogia dedicata alla crisi greca.
Petros Markaris, Die Zeit, Germania
Negozi chiusi. Strade buie. File interminabili di taxi in attesa di clienti. La Grecia è in ginocchio. E se la colpa è di una classe dirigente corrotta, a pagare sono soprattutto i poveri.
Accanto al sistema politico istituzionale, composto da sette partiti, in Grecia c’è un sistema parallelo, slegato dal parlamento e articolato in quattro partiti. Sono i partiti in cui si è spaccata la società dopo diciotto mesi di crisi economica. Invece di avvicinarsi e collaborare, con l’aggravarsi dei problemi e l’inasprirsi della lotta per la sopravvivenza quotidiana questi quattro gruppi sono sempre più distanti tra loro. A volte si alleano per raggiungere un obiettivo, ma spesso sono impegnati in una guerra di trincea.
Per cominciare c’è il “partito dei profittatori”. Ne fanno parte tutte le imprese che negli ultimi trent’anni hanno approfittato del sistema clientelare. Innanzitutto le imprese edilizie, che hanno fatto fortuna grazie alle Olimpiadi del 2004, aggiudicandosi appalti pubblici a cifre astronomiche. Al partito dei profittatori appartengono anche le imprese che riforniscono gli enti pubblici: per esempio le ditte che vendono farmaci e apparecchiature mediche agli ospedali. Di recente il ministero della salute ha creato un ufficio incaricato di comprare medicinali attraverso aste su internet, e per i primi acquisti gli ha messo a disposizione 9 milioni 937mila 480 euro, un cifra calcolata in base a quanto era stato speso fino ad allora. Comprando i farmaci online il ministero ha speso solo 616.505 euro, il 6,2 per cento della somma stanziata. In questo modo i greci hanno finalmente scoperto quanti soldi inghiottiva il vecchio sistema.
Senza le nuove misure di austerità tutto sarebbe rimasto com’era. Il partito dei profittatori – imprese edilizie e fornitori di ospedali – aveva stretto legami con il partito al governo e i suoi ministri. Negli apparati dello stato tutti erano a conoscenza di questi accordi e del loro costo per la collettività, ma nessuno ne parlava. E non solo perché i partiti intascavano contributi colossali, ma anche perché le imprese corrotte finanziavano le campagne elettorali dei deputati e assicuravano ai loro familiari posti di lavoro ben retribuiti. Il partito dei profittatori è anche quello degli evasori fiscali, soprattutto professionisti con redditi alti come medici e avvocati. “La visita costa 80 euro. Se vuole la fattura sono 110”, è la frase che si sente ripetere ogni greco quando entra in uno studio medico. Alla fine la maggior parte dei pazienti rinuncia alla fattura pur di risparmiare 30 euro. Le autorità tollerano e si voltano dall’altra parte per non vedere. È la conseguenza dell’alleanza che hanno stretto con i professionisti e le imprese.
Truffe e clientelismo
Intanto il numero dei cittadini in difficoltà cresce senza sosta. Molti non riescono più a mettere insieme neanche i soldi per pagare il ticket sui medicinali. E c’è anche chi, per curarsi, si rivolge a Médecins du monde. Le due cliniche ateniesi dell’organizzazione umanitaria francese sono state aperte per gli immigrati arrivati dall’Africa, ma ormai offrono assistenza anche ai greci più poveri. Spesso davanti ai loro ambulatori ci sono centinaia di persone in fila. Molti sono diabetici che non possono più permettersi l’insulina. La miseria sta contagiando anche i greci. Fino a sei mesi fa, quando la mattina presto aprivo la finestra del mio balcone e guardavo giù in strada, vedevo profughi che frugavano nei cassonetti alla ricerca di qualcosa da mangiare. In queste ultime settimane mi capita spesso di vedere dei greci. Per non farsi notare scelgono le prime ore del mattino, quando le strade sono deserte.
Ovviamente i profittatori e gli evasori fiscali non hanno questi problemi. La crisi quasi non l’avvertono, perché prima che scoppiasse avevano già trasferito i soldi all’estero. Negli ultimi diciotto mesi le banche greche hanno perso sei miliardi di euro, mentre quelle estere, soprattutto svizzere, hanno fatto affari d’oro.
Ci sono anche dei profittatori che, sposando le tesi della sinistra radicale, hanno invocato il ritorno alla dracma. In questo modo il loro patrimonio in euro aumenterebbe di valore e gli permetterebbe di acquistare importanti proprietà pubbliche a prezzi stracciati. In caso di uscita dall’euro, infatti, lo stato sarebbe costretto a privatizzare gran parte dei suoi beni per fare cassa.
Un altro sodalizio molto pericoloso è quello tra il governo e gli agricoltori, che fanno parte anche loro del partito dei profittatori. Fin dall’ingresso della Grecia nella Comunità economica europea, nel 1981, tutti i governi hanno compatito i “poveri contadini greci”, che avrebbero meritato una sorte migliore. In realtà, grazie ai sussidi europei, già da tempo gli agricoltori greci non se la passano male. Le sovvenzioni sono state distribuite in modo arbitrario e incontrollato, senza le verifiche necessarie. I contadini sotterravano i loro prodotti, fornivano cifre false e incassavano il denaro. Come se non bastasse, la Banca dell’agricoltura greca gli ha concesso generosi crediti, che a tutt’oggi non sono stati rimborsati. I partiti al governo hanno evitato che fossero fatte pressioni sui coltivatori: avevano bisogno dei loro voti e di quelli delle loro famiglie. Il risultato è che l’agricoltura greca è alla bancarotta e in campagna si vedono contadini che vanno in giro a bordo di jeep Cherokee.
La seconda fazione si potrebbe chiamare “partito degli onesti”, ma preferisco “partito dei martiri”. Ne fanno parte i proprietari delle piccole e medie imprese, i loro dipendenti e i lavoratori autonomi, come i tassisti o gli artigiani. Questi cittadini, che lavorano sodo e pagano regolarmente le tasse, dimostrano che la tesi diffusa in Europa secondo cui i greci sono pigri e scansafatiche è completamente falsa. Il partito dei martiri è il più numeroso. Eppure non è abbastanza forte da stringere alleanze vantaggiose, e alla fine viene sfruttato da tutti. I martiri sono i greci più colpiti dalla crisi.
Per i piccoli imprenditori il colpo più duro è stato la recessione. Ovunque ad Atene ci si imbatte nello spettacolo desolante di negozi vuoti e abbandonati, anche nelle zone più eleganti, come via Patission, la più antica delle tre principali vie del centro di Atene, luogo di passeggiate per la buona borghesia cittadina. È una zona che conosco bene, perché abito lì vicino. Un tempo la strada era illuminata a giorno dalle vetrine dei negozi. Oggi di sera Patission è buia come la pece. Un negozio su due ha chiuso, e quei pochi ancora aperti sopravvivono vendendo merce scontata.
Nessuna prospettiva
In via Aiolou (Eolo), una strada commerciale del centro storico con negozi poco costosi, lo spettacolo è ancora più triste. I negozi sono chiusi o vuoti. Clienti non se ne vedono. La via è ridotta a un’area pedonale senza pedoni. “Quanto posso resistere?”, mi aveva chiesto la titolare di un piccolo negozio di abbigliamento dove ho comprato un paio di calzini. “Passano giorni interi senza che entri un cliente”. Alla fine anche lei si è arresa: l’ultima volta che sono passato in via Aiolou il suo negozio era chiuso.
Un’amica di mia sorella lavora in una piccola impresa edilizia. Il titolare ha licenziato tutto il personale tranne lei. Ormai non si costruiscono più case. L’amica di mia sorella non prende lo stipendio da sette mesi, ma almeno ha la fortuna di avere ancora un posto di lavoro.
Quelli del partito dei martiri sono scoraggiati. Hanno perso ogni speranza. La crisi gli ha tolto la speranza di un futuro migliore. A parlarci, si ha la sensazione che stiano solo aspettando la fine. Quando un’ampia fetta della popolazione non ha più fiducia, la vita diventa opprimente. In molti condomini non si accende più nemmeno il riscaldamento: le famiglie non hanno i soldi per il gasolio o preferiscono risparmiarli.
Il partito dei martiri
Non ho la patente, e quando vado o torno dall’aeroporto mi rivolgo a un tassista di fiducia. Si chiama Thodoros, è scapolo e vive da solo. “Che ne pensa di Lucas Papademos?”, mi ha chiesto alla fine di novembre mentre mi riportava a casa. Gli ho risposto che il nuovo primo ministro è una persona capace e onesta, che gode di grande considerazione in Grecia e in Europa. “Certo, ma la sua nomina non mi ha mica portato nuovi clienti”, ha risposto rassegnato il tassista. “Be’, sarebbe pretendere un po’ troppo”, ho obiettato io. “Ma lei capisce?”, è sbottato Thodoros. “La licenza di questo taxi mi costa 350 euro a settimana. Lavoro sette giorni su sette, ma spesso quello che guadagno mi basta solo per coprire le spese. E alla fine ci rimetto di tasca mia. Che il primo ministro sia Papademos o un altro poco importa: la mia attività è andata a rotoli”.
I greci usano spesso il taxi perché costa poco. Con 3 euro e 20 arrivi quasi ovunque nel centro di Atene, e una corsa più lunga non costa mai più di 6 euro. Fino a sei mesi fa trovare un’auto libera a mezzogiorno era un’impresa. Oggi ci sono dappertutto file di taxi in attesa di clienti. E non solo a mezzogiorno: anche di sera e nel fine settimana.
Ma non basta. La recessione non è l’unica preoccupazione dei martiri. Non hanno più lavoro, eppure devono continuare a pagare: l’imposta sui redditi, le altre tasse e il contributo di solidarietà, che l’anno prossimo dovranno versare addirittura due volte. Quanto all’iva, negli ultimi dodici mesi è stata aumentata due volte. Gli evasori, in compenso, non sanno nulla di addizionali e contributi di solidarietà. Molti di loro non compilano neppure la dichiarazione dei redditi, oppure nascondono al fisco il grosso delle loro entrate. I cittadini onesti, invece, sono costretti a pagare perfino per l’aria che respirano.
Al partito dei martiri appartengono anche i lavoratori e i disoccupati del settore privato. Oggi in Grecia sono pochissimi i lavoratori a cui viene pagato regolarmente lo stipendio. Molti lo incassano a rate e con mesi di ritardo. Tutti vivono in condizioni difficili e tra grandi preoccupazioni, perché temono che le imprese per cui lavorano chiudano i battenti dall’oggi al domani. Inoltre, con la crescita bloccata e senza la possibilità di ottenere un prestito, molte piccole imprese spariscono lasciandosi alle spalle i debiti da pagare. Mio suocero, fornitore di negozi di abbigliamento per bambini, mi ha raccontato che solo nell’ultima settimana gli è capitato di dover affrontare situazioni simili per ben tre volte.
Davanti agli uffici di collocamento si vedono lunghe file di disoccupati che ogni mese aspettano pazientemente il mandato di pagamento per incassare il sussidio in banca. Ma non hanno nessuna certezza che i soldi arrivino ai primi del mese. A volte per avere i loro 416 euro e 50 devono aspettare settimane. Il numero dei disoccupati cresce giorno dopo giorno, e gli uffici esauriscono presto il denaro.
Considerato che l’apparato dello stato e le sue finanze sono al collasso, al ministero delle finanze qualcuno si è fatto venire la brillante idea di far pagare le tasse attraverso le bollette dell’elettricità: a chi non paga viene tagliata la luce. Alla tv greca ho visto immagini di anziani che facevano la fila alla cassa dell’azienda elettrica per pagare le imposte. “Devo pagare subito 250 euro”, ha detto un signore sulla sessantina davanti alle telecamere. “Per l’affitto spendo 400 euro al mese. Come faccio a campare con i 150 euro che mi restano?”.
Vedendo queste scene mi sono improvvisamente tornati in mente gli anni sessanta, quando venni a vivere in Grecia. Allora mi trovai di fronte a uno spettacolo curioso e insolito: case a un piano, costruite in quartieri operai e piccolo borghesi, dai cui tetti spuntavano ancora le sbarre di ferro del cemento armato. Quelle sbarre avevano un aspetto orrendo, ma erano una promessa: il sogno di un secondo piano. Il sogno di un appartamento per i figli. Era l’obiettivo per cui questa gente aveva risparmiato tutta la vita. Oggi, invece, sono tutti al verde. Con il suo brutale clientelismo questo fallimentare sistema politico ha distrutto, insieme alle illusioni di ricchezza, anche la dignità della povera gente.
L’occupazione dello stato
C’è poi il terzo gruppo, che chiamerò il “partito del Moloch”. Questo partito recluta i suoi militanti nell’apparato dello stato e nelle imprese pubbliche, ed è diviso in due correnti: da una parte ci sono gli impiegati e i funzionari pubblici, dall’altra i sindacalisti. Il partito del Moloch è la componente esterna al parlamento su cui fa affidamento il partito che si trova di volta in volta al governo. Ed è anche il garante del sistema clientelare, perché è composto in gran parte da quadri e funzionari di partito.
Questo sistema ha una lunga storia che risale all’epoca successiva alla guerra civile, gli anni cinquanta. A quel tempo i nazionalisti, che avevano sconfitto i partigiani comunisti, occuparono l’intero apparato statale, mettendo ovunque persone di loro fiducia: una sorta di ricompensa per la fedeltà agli ideali nazionalistici e monarchici. Poi, nel 1981, subito dopo l’ingresso della Grecia nella Comunità economica europea, andò al governo per la prima volta il partito socialista, il Pasok. Furono i socialisti a trasformare questo sistema in una consuetudine politica. Inizialmente la prassi fu giustificata con argomenti abbastanza ragionevoli, condivisi dagli elettori.
Secondo il Pasok, dopo il lungo dominio dei partiti di destra, l’apparato statale era diventato pregiudizialmente ostile alle forze di sinistra. Per poter governare, quindi, i socialisti dovevano mettere uomini di fiducia nei posti chiave dell’amministrazione. Ma la cosa non finì lì. Ben presto tutto l’apparato statale fu occupato dagli uomini del Pasok. Quasi la metà degli iscritti al partito fu ricompensata con un posto nella pubblica amministrazione.
Da allora tutti i governi greci si sono legati a una di queste due fazioni interne all’apparato statale: una situazione che è durata fino ai primi mesi dell’ultima crisi. Grazie ai sussidi europei i soldi non erano un problema. Quando poi non sono bastati più, se ne sono presi a prestito per tappare i buchi. La maggioranza degli uomini di partito sistemati nell’apparato pubblico non faceva nulla o si limitava al minimo indispensabile. Ecco cosa è capitato a un’amica che lavora come ingegnere in un’azienda pubblica. Un anno fa nel suo ufficio è arrivato un nuovo collega. Il primo giorno ha subito dichiarato: “Care colleghe e cari colleghi, mi dispiace molto ma ho dimenticato tutto quello che ho imparato all’università”. Non ha mai lavorato. E nessuno dei superiori ha mai detto nulla.
I dipendenti pubblici che fanno parte del partito del Moloch, tuttavia, non sono tutti uguali. Una parte dei suoi militanti starebbe meglio nel partito dei martiri: per esempio quei funzionari che si sono guadagnati il posto di lavoro con un concorso e non grazie a raccomandazioni politiche. Sono gli unici dipendenti pubblici che lavorano (a volte per due o per tre, perché devono fare anche il lavoro degli altri) e sono quindi loro stessi vittime del sistema. Gli altri, invece, hanno stretto un’alleanza non solo con i partiti al governo, ma anche con il partito dei profittatori. Questa grande coalizione domina il partito del Moloch da trent’anni.
La piaga dell’evasione fiscale, che ha portato lo stato alla rovina, non sarebbe mai stata possibile senza l’aiuto dei funzionari del fisco corrotti, generosamente ricompensati dagli evasori per la loro disponibilità a collaborare.
Oggi i dipendenti pubblici greci si lamentano perché i loro stipendi sono stati tagliati del 30 per cento. Ma il taglio non ha colpito tutti alla stessa maniera. Le vittime del sistema in effetti ci hanno rimesso un terzo del reddito in termini reali. Ma quelli che si sono coalizzati con i profittatori percepiscono, oltre allo stipendio, anche un reddito al nero, e quindi compensano le perdite con entrate non dichiarate.
L’arma dello sciopero
La seconda componente del partito del Moloch è rappresentata dai sindacalisti. Sui giornali tedeschi leggo spesso notizie sugli scioperi e sulle manifestazioni in Grecia. E quando vado in Germania per presentare i miei libri, tutti mi chiedono perché i greci scioperano così spesso. In realtà l’unico sciopero generale indetto in Grecia negli ultimi anni è stato quello organizzato poche settimane fa, quando il parlamento ha varato un nuovo pacchetto di misure di austerità. Per la manifestazione (in Grecia nessuno sciopero, neanche il più piccolo, si conclude senza un corteo) si sono riunite a piazza Syntagma, di fronte al parlamento, circa 140mila persone. È stata la mobilitazione più grande degli ultimi anni. Perfino i commercianti hanno abbassato le saracinesche, non perché temessero scontri (cosa che peraltro succede spesso), ma perché volevano scioperare anche loro.
Nonostante le affermazioni dei sindacati, di tutti gli scioperi precedenti neanche uno è stato davvero generale. Hanno aderito solo i lavoratori privilegiati del settore pubblico, mentre quelli del settore privato andavano a lavorare come tutti gli altri giorni. La verità è che in Grecia i sindacati non hanno nessun potere sui lavoratori del settore privato, mentre hanno un potere pressoché illimitato nel settore pubblico, e questo gli permette di proclamare uno sciopero in qualsiasi momento. In media riescono a mobilitare una decina di migliaia di manifestanti, tutti dipendenti pubblici.
Anche questo potere dei sindacati ha una sua storia. Il fondatore del Pasok, Andreas Papandreou, che è stato anche il primo presidente del consiglio socialista, dal 1981 al 1989 governò il paese come un monarca. Ma come ogni monarca, per mantenere il potere dovette affidarsi a un’aristocrazia. Così nacque una sorta di nobiltà di corte, formata dai ministri del governo e dai dirigenti di partito. Al suo fianco c’era un’aristocrazia cittadina, formata dai funzionari del sindacato e del partito sistemati nell’apparato dello stato e nelle sue aziende, affiancata a sua volta da un’aristocrazia nazionale, composta dai funzionari che riversavano sugli agricoltori i sussidi erogati dall’Unione europea. In questa situazione le istituzioni democratiche in un modo o nell’altro funzionavano, ma bastava una parola del sovrano perché un notabile cadesse in disgrazia e perdesse il posto. La benevolenza del re, però, poteva anche concedere poteri illimitati.
L’accordo con il partito al governo ha enormemente accresciuto il potere dei sindacati della funzione pubblica. Questo potere è legato a molti privilegi. Nel settore pubblico non si muove nulla senza l’assenso dei sindacalisti. Le aziende non osano opporsi ai sindacati. Temono la collera dei ministri e dei partiti al governo. Spesso, quando scoppia un conflitto tra sindacato e impresa interviene un ministro e l’azienda finisce per avere la peggio.
Gli scioperi nelle aziende di pubblica utilità e nei servizi pubblici, che a volte hanno cadenza settimanale, non sono che l’ultimo, disperato tentativo del partito del Moloch di salvaguardare i propri privilegi. O almeno di salvare il salvabile.
Le conseguenze di questa situazione ricadono come sempre sul partito dei martiri. Quando c’è una manifestazione, spesso il centro di Atene rimane chiuso al traffico e i negozi abbassano le saracinesche per paura degli scontri. Quando scioperano gli autisti dei mezzi pubblici, cosa che succede di continuo, il centro della città diventa un deserto. I commercianti perdono i pochi clienti che potrebbero ancora comprare qualcosa, e i cittadini devono andare a lavorare a piedi o in bicicletta. Può costargli anche un’ora o due ma, temendo per il posto di lavoro, non possono certo permettersi di restare a casa. Ecco perché sono dei martiri.
In Grecia alcuni gruppi fanno il proprio interesse a spese degli altri, e la solidarietà è sconosciuta. Sono i più deboli che pagano il prezzo della lotta dei sindacati contro il governo e contro le sue misure di austerità. E così diventano ostaggi dei sindacati stessi.
La quarta e ultima fazione della società greca è quella che mi preoccupa di più. È il “partito dei senza futuro”, tutti quei ragazzi greci che passano la giornata seduti davanti al computer cercando disperatamente su internet un lavoro in qualsiasi parte del mondo. Non diventeranno Gastarbeiter (lavoratori immigrati) come i loro nonni, che negli anni sessanta partirono dalla Macedonia e dalla Tracia per andare a cercare un lavoro in Germania. Questi ragazzi hanno una laurea e a volte perfino un dottorato. Ma dopo gli studi li aspetta la disoccupazione.
Io sono nato e cresciuto a Istanbul e ormai da molti anni vivo ad Atene. Mia figlia ha fatto il percorso inverso: è nata ad Atene e oggi vive a Istanbul. Una specie di “ritorno in patria della seconda generazione”. Quello di mia figlia non è certo un caso isolato: nell’ultimo anno un fiume di giovani è emigrato a Istanbul. Una volta in Turchia, questi ragazzi e ragazze si rivolgono al patriarcato ecumenico della chiesa greco-ortodossa per chiedere un lavoro o almeno un aiuto fino a quando non trovano un appartamento in affitto. La Grecia ha accantonato la sua antica diffidenza verso la Turchia grazie alla disoccupazione giovanile.
Vuoi per la recessione e per le misure di austerità, vuoi per la riduzione del debito e per le riforme, noi greci saremo vittime della crisi: nel migliore dei casi per due generazioni e nel peggiore per tre. I veri perdenti di oggi sono i giovani. Ma domani sarà tutto il paese a crollare, perché nel giro di pochi anni mancheranno forze nuove.
Gli unici che oggi decidono di venire in Grecia sono quelli che se la passano ancora peggio di noi. Ogni giorno compro i quotidiani alla stessa edicola, all’angolo della strada in cui abito. Il proprietario del chiosco è un albanese. L’altro ieri, mentre compravo il giornale, mi fa: “Guardi un po’”, e mi indica un africano che fruga nei cassonetti non lontano da noi. “Bisognerebbe rispedirli tutti a casa loro”.
“Proprio lei!”, ribatto stizzito. “Ha dimenticato che vent’anni fa i greci la chiamavano albanese di merda?”.
“È vero. Ma adesso è passato: i nostri figli vanno alle scuole greche, parlano greco e nessuno li distingue più dagli altri bambini greci”, risponde. “Molti di noi hanno perfino preso la cittadinanza greca. Il problema, adesso, è un altro: in Albania dovrò tornarci da albanese o da greco?”. “Ma come, vuole tornare in Albania?”. “Eh sì. L’edicola va bene, ma non basta per mantenere due famiglie. Sa, mio figlio è sposato e non ha un lavoro. Sua moglie è greca e in Albania non ci vuole andare. Quindi torno io con mia moglie, e lascio l’edicola a nostro figlio. Se rientro come albanese, i miei amici di un tempo mi prenderanno in giro. Sono venuto a cercare una vita migliore in Grecia e adesso torno in patria con la coda tra le gambe: per loro sono un fallito. Ma se torno da greco, mi copriranno d’insulti. ‘Voi greci’, mi diranno, ‘ci avete sempre disprezzato. Abbiamo dovuto aspettare il visto greco per mesi e siamo stati trattati come rifiuti. E adesso venite a cercare lavoro da noi’”. Il mio edicolante non è l’unico albanese a voler tornare a casa. Sono molte le famiglie albanesi che hanno già lasciato la Grecia.
Generazione perduta
Alla parata scolastica del 28 ottobre, gli alunni di un ginnasio di Atene si sono presentati con dei fazzoletti neri al collo. In Grecia il 28 ottobre è festa nazionale: si ricorda l’inizio dell’invasione dell’esercito italiano, nel 1940, e il rifiuto del paese di arrendersi all’ultimatum di Mussolini.
Quando l’opinione pubblica è venuta a sapere della manifestazione con i fazzoletti neri, c’è stata un’ondata d’indignazione e molti giornalisti hanno parlato di “offesa alla festa nazionale”. Ma i presunti provocatori erano semplicemente degli studenti di un liceo di Aghios Panteleimon, uno dei quartieri più degradati di Atene, con un tasso di disoccupazione tra i più alti del paese.
Per prendere la licenza liceale tutti gli studenti greci devono frequentare la cosiddetta scuola preparatoria, necessaria per entrare all’università. Naturalmente questo vale anche per i ragazzi di Aghios Panteleimon. Molti di loro, però, sono figli di disoccupati che non possono più pagare la retta scolastica. E così rischiano di non poter avere un’istruzione superiore. “Non volevamo disturbare la parata, volevamo solo esprimere la nostra preoccupazione per il futuro che ci aspetta”, ha dichiarato uno degli studenti.
Ma questa vicenda è solo una faccia della medaglia. Una sera di fine novembre ero seduto nel caffè della mia casa editrice, quando una signora sulla quarantina si è avvicinata e mi ha chiesto se poteva sedersi al mio tavolo. Voleva parlarmi del mio thriller Prestiti scaduti, che racconta le difficoltà dei greci per la crisi economica. Alla fine mi ha detto: “Io insegno in un ginnasio di uno dei quartieri nord di Atene, e ogni giorno mi vergogno per come abbiamo educato male questi ragazzi”.
“Cosa intende dire?”, le ho chiesto.
“Ogni giorno, durante la ricreazione, osservo gli studenti. Non parlano che di automobili, jeans di Armani e magliette di Gucci. Non hanno la minima idea del fatto che il paese è in crisi e nemmeno di quello che li aspetta. Arrivano a scuola già viziati dai genitori, e noi continuiamo a viziarli”. Due scuole, due mondi diversi: ecco la Grecia. Una vive nei quartieri poveri, l’altra in quelli ricchi. Già a scuola i ragazzi sono diversi. I genitori benestanti regalano un’automobile ai figli che fanno l’esame di maturità. Non possono tollerare che i loro rampolli vadano all’università in autobus.
A una giornalista che raccoglieva materiale per un articolo davanti a un ufficio di collocamento, un ragazzo si è rivolto dicendo: “La prego, non scriva il mio nome. Mia madre non sa che sono disoccupato e che vengo qui a prendere il sussidio”.
Questa settimana ero in attesa a una fermata dell’autobus quando un signore anziano mi ha indicato la solita fila di taxi. “Nessuno li prende più”, ha detto. “E neanche gli ingorghi sono più frequenti come un tempo. È semplice: la gente non prende l’auto perché la benzina costa”.
“Già, sono tempi difficili!”, ho risposto.
“Bah!”, ha ribattuto lui. “Io sono cresciuto negli anni quaranta, al tempo della miseria. Si figuri che andavo a scuola scalzo, perché avevo un solo paio di scarpe e dovevo tenerle da conto”.
È vero. Ma le generazioni cresciute dopo il 1981 non hanno mai conosciuto la povertà. Hanno vissuto in un’epoca di falsa ricchezza, e al solo pensiero di dover fare delle rinunce vengono prese dal panico. Per loro la miseria è qualcosa di sconosciuto. I giovani di oggi sono figli di una generazione che è stata segnata dalla rivolta del Politecnico del novembre 1973, quando uno sciopero degli studenti contro la dittatura dei colonnelli fu represso nel sangue. Quella generazione, però, ha finito per distruggere il paese. Con i suoi slogan di sinistra pensava di costruire una Grecia nuova, ma ha fallito. Le persone oneste si sono ritirate nella sfera privata. Gli altri sono entrati in politica, hanno arraffato un lavoro redditizio come imprenditori all’interno del sistema clientelare, oppure un posto ben pagato nella pubblica amministrazione.
Nei primi anni ottanta chi condivideva questi slogan di sinistra è riuscito a entrare in politica con la tessera del Pasok o ad assicurarsi una poltrona nell’apparato dello stato. Chi non condivideva questo linguaggio faceva parte del vecchio sistema reazionario. Con il passare del tempo, molte di queste persone sono diventate ricchissime. Eppure continuano a dirsi di sinistra. Ma è solo una farsa. Sono questi i vincitori di ieri. Ma i loro figli fanno parte della generazione perduta di oggi. E domani la loro rabbia non risparmierà i padri.
Traduzione di Marina Astrologo.
Fonte: Internazionale, numero 928, 16 dicembre 2011
L'[A]lter è un contenitore senza coperchio. Una finestra sull'underground e sulle controculture.
martedì 20 dicembre 2011
giovedì 15 dicembre 2011
'GENTILEZZA'
'Gentilezza'
di Naomi Shihab Nye
Prima di sapere che cosa sia veramente la gentilezza
devi perdere qualcosa,
devi sentire il futuro dissolversi in un momento
come il sale in un brodo insipido.
Quello che tenevi in mano,
quello che avevi contato e conservato con tanta cura
tutto questo deve andarsene così saprai
quanto possa essere desolato il paesaggio
fra le regioni della gentilezza.
Come tu viaggi e vai,
pensando che l'autobus non si fermerà mai,
così i passeggeri che mangiano pollo e mais,
continueranno a guardar fuori dai finestrini per sempre.
Prima di imparare la dolce gravità della gentilezza,
devi viaggiare fin dove l'Indiano, nel suo poncho bianco,
giace morto sul ciglio della strada.
Devi capire che potresti essere tu quell'uomo
e che anche lui era qualcuno
che viaggiava nella notte con dei progetti
e con il semplice respiro che lo teneva in vita.
Prima che tu riconosca la gentilezza come la cosa più profonda,
devi riconoscere il dolore come l'altra cosa più profonda.
Devi svegliarti con il dolore.
Devi parlare al dolore finché la tua voce
non avrà afferrato il filo di tutte le sofferenze
e avrai dunque visto l'intero tessuto.
Allora sarà solo la gentilezza ad avere senso,
solo la gentilezza che ti allaccia le scarpe
solo la gentilezza che ti fa uscire incontro al giorno
a imbucare lettere o comprare il pane,
solo la gentilezza che alza la testa
in mezzo alla folla del mondo per dire
è me che hai cercato da sempre,
e che poi ti accompagna ovunque
come un'ombra o un amico.
Traduzione di Lina Rignanese
'Kindness'
by Naomi Shihab Nye
Before you know what kindness really is
you must lose things,
feel the future dissolve in a moment
like salt in a weakened broth.
What you held in your hand,
what you counted and carefully saved,
all this must go so you know
how desolate the landscape can be
between the regions of kindness.
How you ride and ride
thinking the bus will never stop,
the passengers eating maize and chicken
will stare out the window forever.
Before you learn the tender gravity of kindness,
you must travel where the Indian in a white poncho
lies dead by the side of the road.
You must see how this could be you,
how he too was someone
who journeyed through the night with plans
and the simple breath that kept him alive.
Before you know kindness as the deepest thing inside,
you must know sorrow as the other deepest thing.
You must wake up with sorrow.
You must speak to it till your voice
catches the thread of all sorrows
and you see the size of the cloth.
Then it is only kindness that makes sense anymore,
only kindness that ties your shoes
and sends you out into the day
to mail letters and purchase bread,
only kindness that raises its head
from the crowd of the world to say
it is I you have been looking for,
and then goes with you every where
like a shadow or a friend.
lunedì 12 dicembre 2011
FAKE ORGASM - AGENDER QUEER FESTIVAL
10 dicembre: seconda giornata di AGENDER - festival del cinema e delle arti future Queer (Nuovo Cinema L'Aquila, Roma)
'Fake Orgasm'(2010, 81') di Jo Sol con Lazlo Pearlman, Veronica Arauzo, Lydia Lunch
Diretto dal regista catalano Jo Sol. Questi aveva intenzione di girare un documentario sugli orgasmi simulati, partendo da un concorso e da lì esplorarne, attraverso interviste a gente comune e a studiosi, la dimensione politica, sociale e sessuale. Il ruolo dell’intrattenitore/conduttore era stato affidato a Lazlo Pearlman, performer, regista e teorico di grande talento, nonché “porno-terrorista” anarchico. Virgolettato che indica l’uso del corpo come arte performativa e al tempo stesso educativa per ottenere un effetto immediato e irruente, come gettare una molotov in mezzo alla gente, devastarne le menti con l’impatto della nudità transgender e metterla dinanzi alla realtà (vulnerabile, confusa, intensa e possente insieme) di ciò che è indefinito, fluido, in continuo cambiamento, non etichettabile: la rottura di tutti gli schemi preconfezionati!
Proprio la forza espressiva e la carica emotiva trasmesse da Lazlo ha portato il regista a modificare il progetto e incentrare il film sulla sua vita. E di riflesso sulla vita dello spettatore.
Raramente ho visto al cinema scene performative così intime come quelle create da Lazlo. Un corpo nudo, in realtà due, ma non solo. La logica del dualismo binario evapora dinanzi alla sorpresa e alla bellezza di un corpo più vicino all’apertura mentale enunciata dal ‘Mito di Aristofane’ nel ‘Simposio’ di Platone (V a.C.) che non alle caricaturali interpretazioni contemporanee di stampo catto-freudiano.
E nell’evaporazione vengono anche compresi quei rigidi paletti mentali e culturali che la tradizione e la società impongono alle persone, sin da bambini. Il documentario (o meglio il lavoro di ricerca espressiva di Lazlo) mirano a superare le pregiudizievoli barriere dell’educazione patriarcale ed etero-normata che portano a restringere le possibili evoluzioni personali in due sole categorie: quella del maschio e quella della femmina. Da questa netta distinzione deriverebbero tutta una gamma di comportamenti, atteggiamenti, emozioni, sentimenti e lavori, che competerebbero unicamente e riduttivamente all’uno o all’altro ruolo, senza scampo per le vie di mezzo. (Cosa c’è di più brutale, represso e innaturale di questo?!)
Dunque, una missione umanitaria, quella di Lazlo, che auspicherebbe a una rivoluzione culturale che porti le persone, se non proprio a stravolgere se stessi e ad aprirsi alle teorie Queer, quanto meno a diventare consapevoli della finzione dei ruoli (‘fake organism’ più che ‘fake orgasm’), spesso celebrati come unica identità possibile. Sarebbe un buon inizio per evolvere, non solo come individui, ma soprattutto come genere umano.
Lina Rignanese
sabato 10 dicembre 2011
ABBIAMO UN PROBLEMA - AGENDER QUEER FESTIVAL
9 dicembre: prima giornata di AGENDER – Festival di cinema e arti future Queer (Nuovo Cinema L'Aquila, Roma)
Abbiamo seguito il documentario 'Abbiamo un problema' (la costruzione del nemico omosessuale) di CaneCapovolto, 2011, 72'
‘Abbiamo un problema’ è un documentario strutturato artisticamente attraverso un collage di foto, stralci di film, video e immagini di repertorio, unite a interviste in parte vere, in parte costruite.
Girato tra le strade, le piazze e le spiagge di Catania, gli intervistati vengono invitati a impersonare il loro stesso “nemico” rispondendo a domande che portano a riflettere sull’omosessualità, a sviscerare possibili spiegazioni logiche e a smascherare luoghi comuni che contribuiscono al dilagare della paura del diverso, in questo caso dell’omofobia.
Gli autori non si prefissano una tesi da dimostrare, fanno parlare le persone nel modo più spontaneo possibile. Ne viene fuori una ricerca socio-antropologica che piacerebbe al Pasolini dei ‘Comizi d’Amore’. Ne viene fuori un documentario piacevole, attraversato interamente da una sottigliezza ironica che fa sorridere il pubblico per tutto la proiezione.
CaneCapovolto riesce, così, ad affrontare un tema problematico con uno stile leggero e con un linguaggio da arte visuale che fa del cut-up dei frammenti audio-visivi un riuscitissimo strumento di comunicazione. Ed è quest’aspetto più tecnico a impreziosire il lavoro che, al di là dei contenuti delle interviste, sembra possa vivere autonomamente come opera visuale e sonora a sé stante.
Il collettivo nasce a Catania nel 1992 e volge la sua ricerca sperimentale verso il trattamento dell’immagine e del suono, “sabotando” il materiale di partenza al fine di ottenere sul pubblico un effetto spiazzante. E un effetto spiazzante viene conseguito per via di “quella foto” mostrata a tutti gli intervistati, che ne parlano confusamente, alcuni compiaciuti, altri irritati, ognuno dando una propria interpretazione, senza capire chiaramente di cosa si tratta. E un effetto spiazzante lo ha anche sul pubblico in sala, che continua in post-visione a rovistare tra i frame del film alla curiosa ricerca del ricordo di “quella foto” che è stata montata all’inizio (così mi suggerisce una spettatrice mentre si alza dalla poltrona) e che - ahimé! – io non sono proprio riuscita a far riaffiorare.
Lina Rignanese
venerdì 9 dicembre 2011
LA DICHIARAZIONE UNIVERSALE DEI DIRITTI UMANI
Il 10 dicembre 1948 l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, riunita a Parigi, adottò la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.
Redatta in seguito agli orrori della Seconda Guerra Mondiale, la Carta sancisce i diritti individuali, civili, politici, economici, sociali e culturali di ogni persona. Pur non avendo valenza giuridica, i principi in essa contenuti sono ritenuti inviolabili dal punto di vista etico e riconosciuti come diritti inalienabili del diritto internazionale.
Peccato che all'atto pratico tutte questa belle conquiste teoriche e filosofiche vengano neutralizzate dagli sporchi affari e dai giochi di potere. Se la Carta auspica a un mondo di individui consapevoli, adulti e responsabili, la realtà si rivela, invece, dominata dal più semplice, conciso e di moda - così amato da quegli uomini PRATICI che erano i Romani - Homo homini lupus.
Qui, la versione e-book curata da Amnesty International Italia:
http://issuu.com/amnestyinternational_italia/docs/amnesty_dudu?mode=embed&layout=http://skin.issuu.com/v/dark/layout.xml&showFlipBtn=true
DICHIARAZIONE UNIVERSALE DEI DIRITTI DELL'UOMO
Preambolo
Considerato che il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo;
Considerato che il disconoscimento e il disprezzo dei diritti dell'uomo hanno portato ad atti di barbarie che offendono la coscienza dell'umanità e che l'avvento di un mondo in cui gli esseri umani godano della libertà di parola e di credo e della libertà dal timore e dal bisogno è stato proclamato come la più alta aspirazione dell'uomo;
Considerato che è indispensabile che i diritti dell'uomo siano protetti da norme giuridiche, se si vuole evitare che l'uomo sia costretto a ricorrere come ultima istanza, alla ribellione contro la tirannia e l'oppressione;
Considerato che è indispensabile promuovere lo sviluppo di rapporti amichevoli tra le Nazioni;
Considerato che i popoli delle Nazioni Unite hanno riaffermato nello Statuto la loro fede nei diritti fondamentali dell'uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, nell'eguaglianza dei diritti dell'uomo e della donna, ed hanno deciso di promuovere il progresso sociale e un miglior tenore di vita in una maggiore libertà;
Considerato che gli Stati membri si sono impegnati a perseguire, in cooperazione con le Nazioni Unite, il rispetto e l'osservanza universale dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali;
Considerato che una concezione comune di questi diritti e di questa libertà è della massima importanza per la piena realizzazione di questi impegni,
L'ASSEMBLEA GENERALE proclama LA PRESENTE DICHIARAZIONE UNIVERSALE DEI DIRITTI DELL'UOMO come ideale comune da raggiungersi da tutti i popoli e da tutte le Nazioni, al fine che ogni individuo ed ogni organo della società, avendo costantemente presente questa Dichiarazione, si sforzi di promuovere, con l'insegnamento e l'educazione, il rispetto di questi diritti e di queste libertà e di garantirne, mediante misure progressive di carattere nazionale e internazionale, l'universale ed effettivo riconoscimento e rispetto tanto fra i popoli degli stessi Stati membri, quanto fra quelli dei territori sottoposti alla loro giurisdizione.
DICHIARAZIONE UNIVERSALE DEI DIRITTI UMANI
Articolo 1
Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza.
Articolo 2
1) Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciate nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione.
2) Nessuna distinzione sarà inoltre stabilita sulla base dello statuto politico, giuridico internazionale del paese o del territorio sia indipendente, o sottoposto ad amministrazione fiduciaria o non autonomo, o soggetto a qualsiasi limitazione di sovranità.
Articolo 3
Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona.
Articolo 4
Nessun individuo potrà essere tenuto in stato di schiavitù o di servitù; la schiavitù e la tratta degli schiavi saranno proibite sotto qualsiasi forma.
Articolo 5
Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamento o a punizioni crudeli, inumane o degradanti.
Articolo 6
Ogni individuo ha diritto, in ogni luogo, al riconoscimento della sua personalità giuridica.
Articolo 7
Tutti sono eguali dinanzi alla legge e hanno diritto, senza alcuna discriminazione, ad una eguale tutela da parte della legge. Tutti hanno diritto ad una eguale tutela contro ogni discriminazione che violi la presente Dichiarazione come contro qualsiasi incitamento a tale discriminazione.
Articolo 8
Ogni individuo ha diritto ad un'effettiva possibilità di ricorso a competenti tribunali nazionali contro atti che violino i diritti fondamentali a lui riconosciuti dalla costituzione o dalla legge.
Articolo 9
Nessun individuo potrà essere arbitrariamente arrestato, detenuto o esiliato.
Articolo 10
Ogni individuo ha diritto, in posizione di piena uguaglianza, ad una equa e pubblica udienza davanti ad un tribunale indipendente e imparziale, al fine della determinazione dei suoi diritti e dei suoi doveri nonché della fondatezza di ogni accusa penale gli venga rivolta.
Articolo 11
1) Ogni individuo accusato di un reato è presunto innocente sino a che la sua colpevolezza non sia stata provata legalmente in un pubblico processo nel quale egli abbia avuto tutte le garanzie necessarie per la sua difesa.
2) Nessun individuo sarà condannato per un comportamento commissivo od omissivo che, al momento in cui sia stato perpetuato, non costituisse reato secondo il diritto interno o secondo il diritto internazionale. Non potrà deI pari essere inflitta alcuna pena superiore a quella applicabile al momento in cui il reato sia stato commesso.
Articolo 12
Nessun individuo potrà essere sottoposto ad interferenze arbitrarie nella sua vita privata, nella sua famiglia, nella sua casa, nella sua corrispondenza, né a lesioni del suo onore e della sua reputazione. Ogni individuo ha diritto ad essere tutelato dalla legge contro tali interferenze o lesioni.
Articolo 13
1) Ogni individuo ha diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni Stato.
2) Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese.
Articolo 14
1 ) Ogni individuo ha il diritto di cercare e di godere in altri paesi asilo dalle persecuzioni.
2) Questo diritto non potrà essere invocato qualora l'individuo sia realmente ricercato per reati non politici o per azioni contrarie ai fini e ai principi delle Nazioni Unite.
Articolo 15
1) Ogni individuo ha diritto ad una cittadinanza. 2) Nessun individuo potrà essere arbitrariamente privato della sua cittadinanza, né del diritto di mutare cittadinanza.
Articolo 16
1) Uomini e donne in età adatta hanno il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia, senza alcuna limitazione di razza, cittadinanza o religione. Essi hanno eguali diritti riguardo al matrimonio, durante il matrimonio e all'atto del suo scioglimento.
2) Il matrimonio potrà essere concluso soltanto con il libero e pieno consenso dei futuri coniugi.
3) La famiglia è il nucleo naturale e fondamentale della società e ha diritto ad essere protetta dalla società e dallo Stato.
Articolo 17
1) Ogni individuo ha il diritto ad avere una proprietà sua personale o in comune con altri.
2) Nessun individuo potrà essere arbitrariamente privato della sua proprietà.
Articolo 18
Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione tale diritto include la libertà di cambiare di religione o di credo, e la libertà di manifestare isolatamente o in comune, e sia in pubblico che in privato, la propria religione o il proprio credo nell'insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell'osservanza dei riti.
Articolo 19
Ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere.
Articolo 20
Ogni individuo ha diritto alla libertà di riunione e di associazione pacifica.
2) Nessuno può essere costretto a far parte di un'associazione.
Articolo 21
1) Ogni individuo ha diritto di partecipare al governo del proprio paese, sia direttamente, sia attraverso rappresentanti liberamente scelti.
2) Ogni individuo ha diritto di accedere in condizioni di eguaglianza ai pubblici impieghi del proprio paese.
3) La volontà popolare è il fondamento dell'autorità del governo; tale volontà deve sere espressa attraverso periodiche e veritiere elezioni, effettuate a suffragio universale eguale, ed a voto segreto, o secondo una procedura equivalente di libera votazione.
Articolo 22
Ogni individuo, in quanto membro della società, ha diritto alla sicurezza sociale, nonché alla realizzazione, attraverso lo sforzo nazionale e la cooperazione internazionale ed in rapporto con l'organizzazione e le risorse di ogni Stato, dei diritti economici sociali e culturali indispensabili alla sua dignità ed al libero sviluppo della sua personalità.
Articolo 23
1) Ogni individuo ha diritto al lavoro, alla libera scelta dell'impiego, a giuste e soddisfacenti condizioni di lavoro ed alla protezione contro la disoccupazione.
2) Ogni individuo, senza discriminazione, ha diritto ad eguale retribuzione per eguale lavoro.
3) Ogni individuo che lavora ha diritto ad una remunerazione equa e soddisfacente che assicuri a lui stesso e alla sua famiglia una esistenza conforme alla dignità umana ed integrata, se necessario, da altri mezzi di protezione sociale.
4) Ogni individuo ha diritto di fondare dei sindacati e di aderirvi per la difesa dei propri interessi.
Articolo 24
Ogni individuo ha diritto al riposo ed allo svago, comprendendo in ciò una ragionevole limitazione delle ore di lavoro e ferie periodiche retribuite.
Articolo 25
1) Ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all'alimentazione al vestiario, all'abitazione, e alle cure mediche e ai servizi sociali necessari; ed ha diritto alla sicurezza in caso di disoccupazione, malattia, invalidità, vedovanza, vecchiaia o in ogni altro caso di perdita dei mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà.
2) La maternità e l'infanzia hanno diritto a speciali cure ed assistenza. Tutti i bambini nati nel matrimonio o fuori di esso, devono godere della stessa protezione sociale.
Articolo 26
1 ) Ogni individuo ha diritto all'istruzione. L'istruzione deve essere gratuita almeno per quanto riguarda le classi elementari e fondamentali. L'istruzione elementare deve essere obbligatoria. L'istruzione tecnica e professionale deve essere messa alla portata di tutti e l'istruzione superiore deve essere egualmente accessibile a tutti sulla base del merito.
2) L'istruzione deve essere indirizzata al pieno sviluppo della personalità umana ed al rafforzamento del rispetto dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali. Essa deve promuovere la comprensione, la tolleranza, l'amicizia fra tutte le Nazioni, i gruppi razziali e religiosi, e deve favorire l'opera delle Nazioni Unite per il mantenimento della pace.
3) I genitori hanno diritto di priorità nella scelta del genere di istruzione da impartire ai loro figli.
Articolo 27
1) Ogni individuo ha diritto di prendere parte liberamente alla vita culturale della comunità, di godere delle arti e di partecipare al progresso scientifico ed ai suoi benefici.
2) Ogni individuo ha diritto alla protezione degli interessi morali e materiali derivanti da ogni produzione scientifica, letteraria e artistica di cui egli sia autore.
Articolo 28
Ogni individuo ha diritto ad un ordine sociale e internazionale nel quale i diritti e le libertà enunciati in questa Dichiarazione possano essere pienamente realizzati.
Articolo 29
1 ) Ogni individuo ha dei doveri verso la comunità, nella quale soltanto è possibile il libero e pieno sviluppo della sua personalità.
2) Nell'esercizio dei suoi diritti e delle sue libertà, ognuno deve essere sottoposto soltanto a quelle limitazioni che sono stabilite dalla legge per assicurare il riconoscimento e rispetto dei diritti e delle libertà degli altri e per soddisfare le giuste esigenze della morale, dell'ordine pubblico e del benessere generale in una società democratica.
3) Questi diritti e queste libertà non possono in nessun caso essere esercitati in contrasto con i fini e i principi delle Nazioni Unite.
Articolo 30
Nulla nella presente Dichiarazione può essere interpretato nel senso di implicare un diritto di un qualsiasi Stato, gruppo o persona di esercitare un'attività o di compiere un atto mirante alla distruzione di alcuni dei diritti e delle libertà in essa enunciati.
giovedì 1 dicembre 2011
SE IL FEMMINISMO E' UN BRAND
Segnalo la recensione che Cristina Morini fa del libro di Nina Power, 'La donna a una dimensione. Dalla donna-oggetto alla donna-merce', Derive Approdi, Roma, 2011, p. 96, 11€.
Un ottimo spunto per chiedersi se il pensiero femminista riuscirà a interrogarsi e a praticare la via dei beni comuni, alternativa (l'unica per ora plausibile)al sistema capitalistico dominante.
Far nuovamente detonare la radicalità del pensiero e dell’agire delle donne è un compito arduo. Il femminismo ha segnato diverse generazioni in modo vivace e vitale. Ma adesso? Ha perso la forza rivoluzionaria delle origini? Di certo non gli è stato risparmiato lo strazio che è capitato ad altri ambiti (dal sindacato ai partiti politici fino ai movimenti). Il periodo attuale, con una povertà imbarazzante di argomenti ma con profonda e sottile violenza, non fa che alimentare la spirale del silenzio attraverso il potere di persuasione e di repressione dei propri complessi dispositivi di comando. Precarietà, pubblicità, giornali, televisioni, opinionisti, mercati finanziari (ed entità “metafisiche” correlate): tutto è predisposto per omologare e comprare, incanalando verso un solco prestabilito ogni dinamica conflittuale, ogni pulsione dell’anima, piegandone il verso nel senso della compatibilità, della razionalità, della misurabilità, della “normalità”. Tuttavia l’essere umano - la donna come l’uomo - non può mai avere una sola dimensione. C’è sempre un che d’insopprimibile, qualcosa che manca nel conto, che sfugge, fortunosamente, a ogni previsione.
Il libro di Nina Power, La donna a una dimensione ci dice questo in sole, densissime, 90 pagine e noi facciamo sfacciatamente il tifo per lei. Tradotto recentemente in Italia dopo la sua pubblicazione in Gran Bretagna nel 2009 [One Dimensional Woman, Zero Books], è un libro per il nuovo femminismo, fuori da ogni retorica, fuori da ogni tentazione nostalgica e identitaria. Guarda con acuto e a tratti - per chi legge - doloroso disincanto ai processi di manipolazione a cui le donne sono oggi sottoposte. L’ironia tagliente a cui l’autrice ricorre non è solo un tratto dello stile ma una probabile soluzione per prendere distanza dai nuovi mostri che ci assediano (finanza e protesi, pratica del cutting e “masturbazione come precondizione alla shopping”). L’emarginazione che le donne hanno conosciuto per secoli è stata sostituita con un’integrazione pagata al prezzo di una amara spogliazione di se stesse, deprivazione del corpo-mente attraverso l’imperativo del godimento imposto o dell’auto-oggettivazione egotica delle proprie attrattive sessuali (le tette, parti anatomiche animate da una vita loro propria “diversa da quella della proprietaria”). Uno scenario nel quale le donne devono assumere un “Io” positivo e performante, quasi fosse anch’esso un prodotto, un oggetto di consumo che si acquista senza fatica in un centro commerciale e non una concezione del sé, sfondo di pulsioni ignote, imperscrutabili, infinite. Questo femminile “estroflesso”, addomesticato, cordiale, deciso, megalomane ma disposto alla cooperazione, diventa utile al capitale per tradurre il versante umano (quella che si direbbe l’anima premoderna) nel senso della sua redditività.
Diciamo subito quello che non troverete tra queste pagine: il libro non si sofferma sulla differenza tra movimento delle donne, lotte militanti e femminismo. Personalmente, non vedo la possibilità di operare una tale classificazione. Il femminismo è soprattutto un discorso, un discorso che ha cambiato la collocazione delle donne nello spazio-tempo della storia dell’uomo. Nina Power [a sinistra] non solo sta perfettamente all’interno di questo discorso ma sa soprattutto continuarlo, guardando oltre il “già detto”. Prova a spingere l’analisi a partire dalla lettura storicamente dominante ora, ovvero a partire da quella costruzione di una “retorica” favorevole alle donne che è il guscio vuoto che resta quando al discorso femminista viene sottratta la sostanza, ovvero ogni idea fondante di cambiamento (culturale, economico e sociale) del mondo, a partire da analisi strutturali, a partire dalla rabbia.
Non troverete una survey della letteratura femminista degli ultimi decenni. Il libro si concentra sulle pubblicazioni anglosassoni contemporanee di “largo consumo” per operare la decostruzione del presente proposto alle donne. Si tratta di una scelta, non di una svista. Nina Power usa lo spazio che ha per allestire una descrizione spietata e quanto mai efficace dell’unidimensionalità che il capitalismo contemporaneo ritaglia intorno alle donne, a partire dalla pubblicistica pop inglese che fa del femminismo una specie di tendenza alla moda. Un femminismo che per usare le parole dell’autrice “crede di dover lusingare il capitale per poter vendere con maggiore efficacia il proprio prodotto”.
Il titolo, spiega Power, prende spunto dall’Herbert Marcuse dell’Uomo a una dimensione, un testo nel quale si tentava di misurare l’estensione dell’ideologia contemporanea (siamo nel 1964). Un’ideologia che produce l’inganno attraverso le promesse del consumismo e della democrazia liberale. Power è diretta, non ci gira intorno: secondo lei oggi anche il femminismo si è ritagliato un ruolo tra i meccanismi di controllo applicati alle nostre vite, “rappresentando un ostacolo a una vera critica del lavoro, del sesso e della politica. Quello che ha le apparenze dell’emancipazione, nasconde un’ulteriore stretta della catena”.
Il biopotere reclama il controllo delle nostre vite, tanta più oggi che esse assumono valore grazie alla nostra naturale disposizione a cooperare. Questo avviene “con blandizie”, per dirla con Foucault. Ed ecco allora vino bianco, potere, diletti, privilegi. Basta allungare le mani, basta accettare una collaborazione che diventa integrazione e oblio. Power descrive la tragica vetrinizzazione (potremmo giustamente parlare di un regime di viseità che appartiene e viene governato dagli apparati di potere) a cui abbiamo piegato, volenti o nolenti, anche le nostre vite e i nostri corpi.
Le donne di Power sono donne apparentemente sicure e forti che si muovono sull’orizzonte del capitalismo cognitivo, nelle città occidentali. Vivono nel lavoro e di notte, si spostano in gruppo, sono curate, depilate, si dichiarano femministe dentro l’infingimento di un perenne divertimento e dentro una liberazione sessuale compulsiva, livida e meccanica collegata alla complessiva (dis)erotizzazione della società. Power parla di una “pornografia alienata”, nel senso che il sesso è diventato un lavoro come un altro, con tanto di indici intensivi di produttività. Mentre avanza l’imperativo dell’individualismo forzato per la donna-precaria, che fa di se stessa un’impresa e viene distratta dai legami sociali, si istituisce, contemporaneamente, l’imposizione del piacere, l’“obbligo del divertimento”. Entrambi restano inafferrabili: la felicità non si prescrive, anzi. Questa donna svuotata conosce l’ansia prestazionale e il potere della cioccolata sulle endorfine ma in realtà non gode davvero di niente, immersa come è in una società atomizzata in cui il narcisismo sembra essere il punto inevitabile di arrivo di ogni relazione. La cifra sentimentale di questo genere di mondo sembrano essere non la felicità o il più semplice divertimento ma, piuttosto, il rancore e l’invidia con tutto ciò che ne discende. Un triste processo che si collega da vicino a una forma di lutto del soggetto, a un’infelicità senza desiderio della quale fa parte un “non detto”, socialmente deprecabile perché deprimente: in nome della competizione all’interno della cooperazione che ha l’effetto di costringerti a consegnarti al regime di viseità; in nome di obiettivi incomprensibilmente alti che concorri tu stessa a fissarti, ti sfinisci di stanchezza, sei pervasa da continui e malinconici segnali di inadeguatezza, bevi un altro bicchiere di vino bianco per non pensarci e sorridi: the show must go on.
In questo quadro, Nina Power teorizza come necessario rifiutare il laccio del potere di intercessione della “politica a misura di donna” (la rappresentanza) che continuamente ci viene propinata (le quote; le percentuali; il numero di presenze femminili nei governi). Un processo di consapevolezza che serve innanzitutto a travalicare le narrazioni dominanti e a trovare chiavi interpretative di rottura, più originali e adeguate ai problemi immensi che abbiamo di fronte. Serve a proporre alcune domande. Le donne, fedeli alla pratica femminista delle collocazioni - sapendo bene che cosa significa l’“altro” per essere esse stesse “altro”- possono avere una comprensione più profonda della realtà socio-economica contemporanea e di una politica che si performa proprio sulla violenza di un’infinita riproposizione di separazioni ed esclusioni, intese come forma di controllo? Come altrimenti intendere i vari “sistemi” applicati alle/ai migranti? E come spiegare le tante precarietà che innervano le nostre esistenze? Ma se questo è vero, allora le donne non dovrebbero, piuttosto che puntare ad avere in un qualche parlamento una qualche donna-emblema (“esca democratica”), agire uno strappo non solo rispetto al meccanismo della rappresentazione stereotipa che viene fatta di loro stesse ma anche, specularmente, a quello della rappresentanza? Sarah Palin, Condoleezza Rice e oggi Christine Lagarde non sono figure prototipiche di questi tempi e di questa infelice arte del governo? Non a caso, la crisi della politica e il desiderio di trasformazione, che si trova emarginato dal pensiero unico fondato sull’impero del mercato finanziario e sull’ipotesi di una mancanza di capacità di autonomia dei soggetti, prende forma, nonostante le tecnocrazie, nelle piazze di Barcellona e di Zuccotti Park come nella rivolta ottobrina di Roma.
Addentrarci tra i distinguo i pregi e i limiti di queste insorgenze non è oggetto di questo articolo. Esse sono tuttavia utili a esemplificare il già citato, fatidico, “scarto”. Utili a ricordarci, sempre e comunque, che la pretesa del capitale di dare un’unica misura e un’unica dimensione alle donne, come agli uomini, è impossibile.
Più o meno stesso periodo in cui Power ha scritto questo testo, provavo a ragionare sul concetto di femminilizzazione del lavoro. Anche per questo motivo sento una particolare affinità con le tesi dell’autrice, che riprendono l’idea “la femminilizzazione del lavoro” traducendola in “lavorizzazione delle donne perché queste ultime – dice Power – sono oggi innanzitutto assegnate al ruolo di lavoratrici e secondariamente a quello di madri o con una posizione identitaria indipendente dalla produzione economica” (p. 34).
Siamo insomma, come ho già scritto, più che mai un bacino strategico e siamo soprattutto all’interno di un paradigma di accumulazione che non sa che farsene dell’identità di coloro che lavorano se non in termini di immediata spendibilità/fruibilità/estrazione di plusvalore dalla vite complessivamente intese, a partire da “certe doti del carattere” (Paolo Virno) più marcatamente femminili.
In questo quadro, sono anche io dell’idea che la potenza della tensione trasformativa del femminismo, pietra su cui si fonda il movimento delle donne di sempre, oggi possa rischiare di venir amputata dalla dimensione unilaterale del capitalismo cognitivo. Il femminismo rischia di imporsi da sé i suoi stessi vincoli, chiudendosi in un identitarismo compensatorio che si accontenta di un logo riconoscibile, improvvisamente di richiamo e di moda. Dietro il brand di questo femminismo sparisce la lotta, sparisce il conflitto. Non si fa disordine, si è composte e dignitose, si scrivono articoli altrettanto composti - e appelli – si reclamano posti, si valutano le opportunità che si schiudono per noi “ragazze”. Questo tipo di femminismo fa fatica a rispondere davvero alle problematiche reali (precarietà; assenza di futuro; mancanza di scelta; difficoltà a leggere il proprio desiderio) delle nuove generazioni di donne. Paradossalmente proprio quando la questione della differenza, lungi dal risultare superata, finisce per attraversare la società e l’esistente. Proprio quando la differenza innerva di sé, ibridandolo, l’intero contesto storico, sociale ed economico, fuori da ogni idea, sempre più astratta, di “natura” e dentro invece le questioni concrete del lavoro, delle nuove tecnologie e della rete, del simbolico spinto dai media. Proprio quando le istituzioni di femminilità e mascolinità, da sempre messe in discussione dalle donne, si mescolano con variabili cruciali come razza, classe, etnia.
Mentre il riformismo contemporaneo “salva-mercati” svela completamente il proprio aspetto illusorio e la sua violenta forza reazionaria, i cosiddetti “soggetti deboli” (donne, migranti, transgender) dovrebbero smettere di guardare al “diritto positivo” come all’unica ancora di salvezza possibile per cercare il proprio riscatto. Trovandolo, invece, dentro forme dinamiche di riapertura molteplice delle lotte, proponendo modelli di sviluppo alternativi basati sul comune, cercando strade al di fuori del solo linguaggio della produzione e del denaro. Possono indicare nuovi e più soddisfacenti modi di “stare nel mondo”: «La filosofia femminista contemporanea ha un più ampio spettro di applicazioni di quanto non abbia avuto nel passato. Ha oggi una portata universalistica, se non un’aspirazione universalistica» (Rosi Braidotti, Trasposizioni, Luca Sassella Editore, Roma 2008, pag. 29).
La donna non ha una sola dimensione perché non è statica nel tempo e nella storia, nello scorrere degli anni e delle generazioni, nelle differenze di nazionalità e culture. Il ragionamento ci porterebbe, con tutta evidenza, a dover discutere della natura del soggetto e ad approfondire come esso sia “costruito”, quale sia la natura della conoscenza prodotta dal soggetto, e quale posizione possa reclamare a partire dalla sua specifica collocazione sociale. Questo effettivamente è il tema che fa da sfondo a questo libro, come altre riflessioni di questo tipo, oggi.
L’odierna radice materiale dell’ideologia finisce per imporci nuovi cambiamenti di specie. La femminilizzazione del lavoro, la continua necessità di promuoversi, la precarietà, il dimostrarci continuamente disponibili al lavoro che impatti hanno sul soggetto? L’imperativo produttivista contemporaneo come influenza, diversamente, la donna e l’uomo? Power cita David Harvey e si domanda: «Qual è l’effetto della circolazione del capitale variabile (l’estrazione della forza lavoro e del plus-valore) sui corpi (le persone e le soggettività) di coloro che ne vengono attraversati?» (p. 35).
Non è privo di effetti per le donne, che esse si trovino, in questa fase della storia a rappresentare l’emblema del mondo del lavoro nel suo complesso. Non è privo di effetti il fatto che la riproduzione sociale, insieme alla conoscenza, rappresentino il cuore dell’accumulazione della fase presente.
Andare per il mondo, ci aveva spiegato Virginie Despentes in King Kong Theorie [trad.. it. King Kong Girl, Einaudi, Torino 2007], poteva essere pericoloso. Ciò non toglie che, come lei, volevamo farlo e lo abbiamo fatto. Nel frattempo questo è diventato un mondo in cui l’azienda che produce un noto aperitivo offre un ingaggio a un maschio - precario, studente, operaio non importa - purché bello (povero e di bell’aspetto, come nelle fiabe). Diverrà testimonial per la pubblicità di quel prodotto e bacerà alcune top model. Smetterà così di essere precario, operaio o studente, guadagnando molti soldi.
Il mondo può essere un luogo dove ubriacarsi fino a non reggersi in piedi, specie in questo periodo di crisi economica, dove per fare carriera (o mantenere un posto di lavoro) le donne devono trasformarsi dalle dolci reginette del privato (ieri), in personalità aggressive e convinte di concorrere, altrimenti non c’è salvezza. Si tratta quindi di imparare (oggi) anche la cattiveria per giocare la partita che il capitalismo contemporaneo generosamente ci propone.
Oppure si tratta di provare (domani) a reinventarci l’esistenza, una sorte diversa. Così, alla fine, Nina Power, senza essere in grado di indicare soluzioni definitive tuttavia individua nella possibilità di sperimentare forme di vita sociale e collettiva differenti una possibile alternativa. «Non forme di comunitarismo o una confraternita ritirata dal mondo ma di un modo per ristabilire un nesso tra sesso e politica. Che è appunto il legame che il capitalismo deve occultare se vuole occultare il fatto di essere in realtà fondato sull’ordinamento e la regolazione della riproduzione. In questo senso, la famiglia è per l’appunto un problema di relazione tra sesso e politica proprio come il fatto di dover sbarcare sul mercato del lavoro e di dover restare sufficientemente in forma per vendere otto ore al giorno la propria forza lavoro» (p. 81).
In sostanza, il controllo sul corpo delle donne e sulla riproduzione sociale - anche ora che le stesse sono uscite dallo spazio privato (la casa, la famiglia) per entrare completamente nello spazio pubblico (lavoro produttivo) assumendo con ciò visibilità e finalmente retribuzione - e il rapporto privato-pubblico continuano a costituire un nodo irrisolto della società capitalistica patriarcale. La famiglia è allora una cellula “separata politicamente dal resto del mondo” e tuttavia ne rappresenta l’organismo fondante, costitutivo, quella che riproduce i modelli ideologici (socio-economici) imperanti. Ecco un compito per il futuro di un femminismo non brandizzato: l’immaginazione di questi nuovi, inediti, modelli sociali dentro l’orizzonte del comune, alternativi alla triade stato, mercato, famiglia.
Se il femminismo è filosofia della vita e se la vita oggi tende a diventare merce, il femminismo deve continuare a promuovere, per forza, una vita diversa.
Fonte: http://www.carmillaonline.com/archives/2011/11/004113.html#004113
Un ottimo spunto per chiedersi se il pensiero femminista riuscirà a interrogarsi e a praticare la via dei beni comuni, alternativa (l'unica per ora plausibile)al sistema capitalistico dominante.
Far nuovamente detonare la radicalità del pensiero e dell’agire delle donne è un compito arduo. Il femminismo ha segnato diverse generazioni in modo vivace e vitale. Ma adesso? Ha perso la forza rivoluzionaria delle origini? Di certo non gli è stato risparmiato lo strazio che è capitato ad altri ambiti (dal sindacato ai partiti politici fino ai movimenti). Il periodo attuale, con una povertà imbarazzante di argomenti ma con profonda e sottile violenza, non fa che alimentare la spirale del silenzio attraverso il potere di persuasione e di repressione dei propri complessi dispositivi di comando. Precarietà, pubblicità, giornali, televisioni, opinionisti, mercati finanziari (ed entità “metafisiche” correlate): tutto è predisposto per omologare e comprare, incanalando verso un solco prestabilito ogni dinamica conflittuale, ogni pulsione dell’anima, piegandone il verso nel senso della compatibilità, della razionalità, della misurabilità, della “normalità”. Tuttavia l’essere umano - la donna come l’uomo - non può mai avere una sola dimensione. C’è sempre un che d’insopprimibile, qualcosa che manca nel conto, che sfugge, fortunosamente, a ogni previsione.
Il libro di Nina Power, La donna a una dimensione ci dice questo in sole, densissime, 90 pagine e noi facciamo sfacciatamente il tifo per lei. Tradotto recentemente in Italia dopo la sua pubblicazione in Gran Bretagna nel 2009 [One Dimensional Woman, Zero Books], è un libro per il nuovo femminismo, fuori da ogni retorica, fuori da ogni tentazione nostalgica e identitaria. Guarda con acuto e a tratti - per chi legge - doloroso disincanto ai processi di manipolazione a cui le donne sono oggi sottoposte. L’ironia tagliente a cui l’autrice ricorre non è solo un tratto dello stile ma una probabile soluzione per prendere distanza dai nuovi mostri che ci assediano (finanza e protesi, pratica del cutting e “masturbazione come precondizione alla shopping”). L’emarginazione che le donne hanno conosciuto per secoli è stata sostituita con un’integrazione pagata al prezzo di una amara spogliazione di se stesse, deprivazione del corpo-mente attraverso l’imperativo del godimento imposto o dell’auto-oggettivazione egotica delle proprie attrattive sessuali (le tette, parti anatomiche animate da una vita loro propria “diversa da quella della proprietaria”). Uno scenario nel quale le donne devono assumere un “Io” positivo e performante, quasi fosse anch’esso un prodotto, un oggetto di consumo che si acquista senza fatica in un centro commerciale e non una concezione del sé, sfondo di pulsioni ignote, imperscrutabili, infinite. Questo femminile “estroflesso”, addomesticato, cordiale, deciso, megalomane ma disposto alla cooperazione, diventa utile al capitale per tradurre il versante umano (quella che si direbbe l’anima premoderna) nel senso della sua redditività.
Diciamo subito quello che non troverete tra queste pagine: il libro non si sofferma sulla differenza tra movimento delle donne, lotte militanti e femminismo. Personalmente, non vedo la possibilità di operare una tale classificazione. Il femminismo è soprattutto un discorso, un discorso che ha cambiato la collocazione delle donne nello spazio-tempo della storia dell’uomo. Nina Power [a sinistra] non solo sta perfettamente all’interno di questo discorso ma sa soprattutto continuarlo, guardando oltre il “già detto”. Prova a spingere l’analisi a partire dalla lettura storicamente dominante ora, ovvero a partire da quella costruzione di una “retorica” favorevole alle donne che è il guscio vuoto che resta quando al discorso femminista viene sottratta la sostanza, ovvero ogni idea fondante di cambiamento (culturale, economico e sociale) del mondo, a partire da analisi strutturali, a partire dalla rabbia.
Non troverete una survey della letteratura femminista degli ultimi decenni. Il libro si concentra sulle pubblicazioni anglosassoni contemporanee di “largo consumo” per operare la decostruzione del presente proposto alle donne. Si tratta di una scelta, non di una svista. Nina Power usa lo spazio che ha per allestire una descrizione spietata e quanto mai efficace dell’unidimensionalità che il capitalismo contemporaneo ritaglia intorno alle donne, a partire dalla pubblicistica pop inglese che fa del femminismo una specie di tendenza alla moda. Un femminismo che per usare le parole dell’autrice “crede di dover lusingare il capitale per poter vendere con maggiore efficacia il proprio prodotto”.
Il titolo, spiega Power, prende spunto dall’Herbert Marcuse dell’Uomo a una dimensione, un testo nel quale si tentava di misurare l’estensione dell’ideologia contemporanea (siamo nel 1964). Un’ideologia che produce l’inganno attraverso le promesse del consumismo e della democrazia liberale. Power è diretta, non ci gira intorno: secondo lei oggi anche il femminismo si è ritagliato un ruolo tra i meccanismi di controllo applicati alle nostre vite, “rappresentando un ostacolo a una vera critica del lavoro, del sesso e della politica. Quello che ha le apparenze dell’emancipazione, nasconde un’ulteriore stretta della catena”.
Il biopotere reclama il controllo delle nostre vite, tanta più oggi che esse assumono valore grazie alla nostra naturale disposizione a cooperare. Questo avviene “con blandizie”, per dirla con Foucault. Ed ecco allora vino bianco, potere, diletti, privilegi. Basta allungare le mani, basta accettare una collaborazione che diventa integrazione e oblio. Power descrive la tragica vetrinizzazione (potremmo giustamente parlare di un regime di viseità che appartiene e viene governato dagli apparati di potere) a cui abbiamo piegato, volenti o nolenti, anche le nostre vite e i nostri corpi.
Le donne di Power sono donne apparentemente sicure e forti che si muovono sull’orizzonte del capitalismo cognitivo, nelle città occidentali. Vivono nel lavoro e di notte, si spostano in gruppo, sono curate, depilate, si dichiarano femministe dentro l’infingimento di un perenne divertimento e dentro una liberazione sessuale compulsiva, livida e meccanica collegata alla complessiva (dis)erotizzazione della società. Power parla di una “pornografia alienata”, nel senso che il sesso è diventato un lavoro come un altro, con tanto di indici intensivi di produttività. Mentre avanza l’imperativo dell’individualismo forzato per la donna-precaria, che fa di se stessa un’impresa e viene distratta dai legami sociali, si istituisce, contemporaneamente, l’imposizione del piacere, l’“obbligo del divertimento”. Entrambi restano inafferrabili: la felicità non si prescrive, anzi. Questa donna svuotata conosce l’ansia prestazionale e il potere della cioccolata sulle endorfine ma in realtà non gode davvero di niente, immersa come è in una società atomizzata in cui il narcisismo sembra essere il punto inevitabile di arrivo di ogni relazione. La cifra sentimentale di questo genere di mondo sembrano essere non la felicità o il più semplice divertimento ma, piuttosto, il rancore e l’invidia con tutto ciò che ne discende. Un triste processo che si collega da vicino a una forma di lutto del soggetto, a un’infelicità senza desiderio della quale fa parte un “non detto”, socialmente deprecabile perché deprimente: in nome della competizione all’interno della cooperazione che ha l’effetto di costringerti a consegnarti al regime di viseità; in nome di obiettivi incomprensibilmente alti che concorri tu stessa a fissarti, ti sfinisci di stanchezza, sei pervasa da continui e malinconici segnali di inadeguatezza, bevi un altro bicchiere di vino bianco per non pensarci e sorridi: the show must go on.
In questo quadro, Nina Power teorizza come necessario rifiutare il laccio del potere di intercessione della “politica a misura di donna” (la rappresentanza) che continuamente ci viene propinata (le quote; le percentuali; il numero di presenze femminili nei governi). Un processo di consapevolezza che serve innanzitutto a travalicare le narrazioni dominanti e a trovare chiavi interpretative di rottura, più originali e adeguate ai problemi immensi che abbiamo di fronte. Serve a proporre alcune domande. Le donne, fedeli alla pratica femminista delle collocazioni - sapendo bene che cosa significa l’“altro” per essere esse stesse “altro”- possono avere una comprensione più profonda della realtà socio-economica contemporanea e di una politica che si performa proprio sulla violenza di un’infinita riproposizione di separazioni ed esclusioni, intese come forma di controllo? Come altrimenti intendere i vari “sistemi” applicati alle/ai migranti? E come spiegare le tante precarietà che innervano le nostre esistenze? Ma se questo è vero, allora le donne non dovrebbero, piuttosto che puntare ad avere in un qualche parlamento una qualche donna-emblema (“esca democratica”), agire uno strappo non solo rispetto al meccanismo della rappresentazione stereotipa che viene fatta di loro stesse ma anche, specularmente, a quello della rappresentanza? Sarah Palin, Condoleezza Rice e oggi Christine Lagarde non sono figure prototipiche di questi tempi e di questa infelice arte del governo? Non a caso, la crisi della politica e il desiderio di trasformazione, che si trova emarginato dal pensiero unico fondato sull’impero del mercato finanziario e sull’ipotesi di una mancanza di capacità di autonomia dei soggetti, prende forma, nonostante le tecnocrazie, nelle piazze di Barcellona e di Zuccotti Park come nella rivolta ottobrina di Roma.
Addentrarci tra i distinguo i pregi e i limiti di queste insorgenze non è oggetto di questo articolo. Esse sono tuttavia utili a esemplificare il già citato, fatidico, “scarto”. Utili a ricordarci, sempre e comunque, che la pretesa del capitale di dare un’unica misura e un’unica dimensione alle donne, come agli uomini, è impossibile.
Più o meno stesso periodo in cui Power ha scritto questo testo, provavo a ragionare sul concetto di femminilizzazione del lavoro. Anche per questo motivo sento una particolare affinità con le tesi dell’autrice, che riprendono l’idea “la femminilizzazione del lavoro” traducendola in “lavorizzazione delle donne perché queste ultime – dice Power – sono oggi innanzitutto assegnate al ruolo di lavoratrici e secondariamente a quello di madri o con una posizione identitaria indipendente dalla produzione economica” (p. 34).
Siamo insomma, come ho già scritto, più che mai un bacino strategico e siamo soprattutto all’interno di un paradigma di accumulazione che non sa che farsene dell’identità di coloro che lavorano se non in termini di immediata spendibilità/fruibilità/estrazione di plusvalore dalla vite complessivamente intese, a partire da “certe doti del carattere” (Paolo Virno) più marcatamente femminili.
In questo quadro, sono anche io dell’idea che la potenza della tensione trasformativa del femminismo, pietra su cui si fonda il movimento delle donne di sempre, oggi possa rischiare di venir amputata dalla dimensione unilaterale del capitalismo cognitivo. Il femminismo rischia di imporsi da sé i suoi stessi vincoli, chiudendosi in un identitarismo compensatorio che si accontenta di un logo riconoscibile, improvvisamente di richiamo e di moda. Dietro il brand di questo femminismo sparisce la lotta, sparisce il conflitto. Non si fa disordine, si è composte e dignitose, si scrivono articoli altrettanto composti - e appelli – si reclamano posti, si valutano le opportunità che si schiudono per noi “ragazze”. Questo tipo di femminismo fa fatica a rispondere davvero alle problematiche reali (precarietà; assenza di futuro; mancanza di scelta; difficoltà a leggere il proprio desiderio) delle nuove generazioni di donne. Paradossalmente proprio quando la questione della differenza, lungi dal risultare superata, finisce per attraversare la società e l’esistente. Proprio quando la differenza innerva di sé, ibridandolo, l’intero contesto storico, sociale ed economico, fuori da ogni idea, sempre più astratta, di “natura” e dentro invece le questioni concrete del lavoro, delle nuove tecnologie e della rete, del simbolico spinto dai media. Proprio quando le istituzioni di femminilità e mascolinità, da sempre messe in discussione dalle donne, si mescolano con variabili cruciali come razza, classe, etnia.
Mentre il riformismo contemporaneo “salva-mercati” svela completamente il proprio aspetto illusorio e la sua violenta forza reazionaria, i cosiddetti “soggetti deboli” (donne, migranti, transgender) dovrebbero smettere di guardare al “diritto positivo” come all’unica ancora di salvezza possibile per cercare il proprio riscatto. Trovandolo, invece, dentro forme dinamiche di riapertura molteplice delle lotte, proponendo modelli di sviluppo alternativi basati sul comune, cercando strade al di fuori del solo linguaggio della produzione e del denaro. Possono indicare nuovi e più soddisfacenti modi di “stare nel mondo”: «La filosofia femminista contemporanea ha un più ampio spettro di applicazioni di quanto non abbia avuto nel passato. Ha oggi una portata universalistica, se non un’aspirazione universalistica» (Rosi Braidotti, Trasposizioni, Luca Sassella Editore, Roma 2008, pag. 29).
La donna non ha una sola dimensione perché non è statica nel tempo e nella storia, nello scorrere degli anni e delle generazioni, nelle differenze di nazionalità e culture. Il ragionamento ci porterebbe, con tutta evidenza, a dover discutere della natura del soggetto e ad approfondire come esso sia “costruito”, quale sia la natura della conoscenza prodotta dal soggetto, e quale posizione possa reclamare a partire dalla sua specifica collocazione sociale. Questo effettivamente è il tema che fa da sfondo a questo libro, come altre riflessioni di questo tipo, oggi.
L’odierna radice materiale dell’ideologia finisce per imporci nuovi cambiamenti di specie. La femminilizzazione del lavoro, la continua necessità di promuoversi, la precarietà, il dimostrarci continuamente disponibili al lavoro che impatti hanno sul soggetto? L’imperativo produttivista contemporaneo come influenza, diversamente, la donna e l’uomo? Power cita David Harvey e si domanda: «Qual è l’effetto della circolazione del capitale variabile (l’estrazione della forza lavoro e del plus-valore) sui corpi (le persone e le soggettività) di coloro che ne vengono attraversati?» (p. 35).
Non è privo di effetti per le donne, che esse si trovino, in questa fase della storia a rappresentare l’emblema del mondo del lavoro nel suo complesso. Non è privo di effetti il fatto che la riproduzione sociale, insieme alla conoscenza, rappresentino il cuore dell’accumulazione della fase presente.
Andare per il mondo, ci aveva spiegato Virginie Despentes in King Kong Theorie [trad.. it. King Kong Girl, Einaudi, Torino 2007], poteva essere pericoloso. Ciò non toglie che, come lei, volevamo farlo e lo abbiamo fatto. Nel frattempo questo è diventato un mondo in cui l’azienda che produce un noto aperitivo offre un ingaggio a un maschio - precario, studente, operaio non importa - purché bello (povero e di bell’aspetto, come nelle fiabe). Diverrà testimonial per la pubblicità di quel prodotto e bacerà alcune top model. Smetterà così di essere precario, operaio o studente, guadagnando molti soldi.
Il mondo può essere un luogo dove ubriacarsi fino a non reggersi in piedi, specie in questo periodo di crisi economica, dove per fare carriera (o mantenere un posto di lavoro) le donne devono trasformarsi dalle dolci reginette del privato (ieri), in personalità aggressive e convinte di concorrere, altrimenti non c’è salvezza. Si tratta quindi di imparare (oggi) anche la cattiveria per giocare la partita che il capitalismo contemporaneo generosamente ci propone.
Oppure si tratta di provare (domani) a reinventarci l’esistenza, una sorte diversa. Così, alla fine, Nina Power, senza essere in grado di indicare soluzioni definitive tuttavia individua nella possibilità di sperimentare forme di vita sociale e collettiva differenti una possibile alternativa. «Non forme di comunitarismo o una confraternita ritirata dal mondo ma di un modo per ristabilire un nesso tra sesso e politica. Che è appunto il legame che il capitalismo deve occultare se vuole occultare il fatto di essere in realtà fondato sull’ordinamento e la regolazione della riproduzione. In questo senso, la famiglia è per l’appunto un problema di relazione tra sesso e politica proprio come il fatto di dover sbarcare sul mercato del lavoro e di dover restare sufficientemente in forma per vendere otto ore al giorno la propria forza lavoro» (p. 81).
In sostanza, il controllo sul corpo delle donne e sulla riproduzione sociale - anche ora che le stesse sono uscite dallo spazio privato (la casa, la famiglia) per entrare completamente nello spazio pubblico (lavoro produttivo) assumendo con ciò visibilità e finalmente retribuzione - e il rapporto privato-pubblico continuano a costituire un nodo irrisolto della società capitalistica patriarcale. La famiglia è allora una cellula “separata politicamente dal resto del mondo” e tuttavia ne rappresenta l’organismo fondante, costitutivo, quella che riproduce i modelli ideologici (socio-economici) imperanti. Ecco un compito per il futuro di un femminismo non brandizzato: l’immaginazione di questi nuovi, inediti, modelli sociali dentro l’orizzonte del comune, alternativi alla triade stato, mercato, famiglia.
Se il femminismo è filosofia della vita e se la vita oggi tende a diventare merce, il femminismo deve continuare a promuovere, per forza, una vita diversa.
Fonte: http://www.carmillaonline.com/archives/2011/11/004113.html#004113
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