di Emiliano Sportelli
Mi sono sempre chiesto cosa potesse significare vivere per strada; lasciarsi tutto dietro e partire senza dare molta importanza alla meta finale, senza pensieri. Abbandonare il passato e vivere giorno per giorno, solo uno zaino appresso pieno di tutto e niente, la mente di libera da ogni cosa e pronta per essere così riempita da tutte le avventure che attendono in ogni stazione di servizio, in ogni motel e in ogni bar dove la bottiglia diventava una nostra fedele amica. Quando ho letto il libro “Sulla strada” di Jack Kerouac, tutti i miei dubbi riguardanti il vivere in strada che, fino a quel momento mi avevano tenuto sveglio la notte, sono stati prontamente dissipati.
La lettura de “La morte di Bunny Munro” di Nick Cave mi ha aperto altri spiragli riguardanti la vita “on the road”. Partire per riuscire, in maniera quasi inconsapevole, a trovare sé stessi; un viaggio che sa tanto di pentimento, quasi un abbandono di tutto ciò che si possiede per cercare di ricominciare nuovamente a vivere, senza farsi troppe illusioni, senza aspettarsi la via spianata di facili conquiste. Andare incontro alla nostra morte e capire che fino ad allora non si era davvero vissuti, che da lì in avanti si poteva rinascere, cancellare gli errori fatti e respirare di nuovo.
Bunny Munro è un commesso viaggiatore, vende prodotti di bellezza casa per casa, vende piccoli sogni per casalinghe sole. Dopo il suicidio della moglie cade nel baratro della disperazione, non riesce a rialzarsi; la bottiglia di whisky in mano e il pacchetto di sigarette Lambert & Butler in tasca sono i suoi unici amici. Solitudine e disperazione circondano il nostro protagonista, sentimenti questi che deve però condividere con qualcun altro, suo figlio Bunny Junior ragazzino di soli nove anni che si divora la sua enciclopedia, infatti, lo accompagnerà nel suo lavoro/viaggio. Attento e silenzioso osservatore dal finestrino della Punto del padre, il piccolo comincerà a conoscere i lati oscuri di Bunny come la sua passione per le donne e per il bere; ogni tanto viaggerà con la sua mente per riuscire ad incontrare sua madre e poter così sognare una vita normale.
Ed infatti a partire da un certo punto in avanti il rapporto padre/figlio prende piede nel romanzo di Cave e non abbandonerà più le sue righe; rapporto questo che sarà enfatizzato anche dall’apparizione sulla scena di Bunny Senior, il papà del nostro Bunny affetto da cancro ai polmoni ed ormai agli sgoccioli della sua vita.
Commesso viaggiatore in cerca di sé, donnaiolo, uomo morto in macchina, padre e figlio allo stesso tempo; sono questi i lavori che Bunny Munro svolge tutti i giorni. Il suo viaggio, che sa molto di pentimento, si erge in tutto il libro; viaggio che inevitabilmente lo metterà di fronte al suo vero io e all’uomo che è diventato. Vagabondare che gli farà fare i conti con suo figlio, con suo padre, con gli spettri di una vita vissuta male.
Con questa storia Nick Cave ci disegna il ritratto di un uomo particolare, un uomo forse mai esistito, ma che, nel bene o nel male, vive in ognuno di noi; un uomo con il quale prima o poi fai i conti, magari seduto al bancone del bar o meglio ancora sul sedile di un’auto con lo stero acceso che trasmette un pezzo dei The Bad Seeds.
L'[A]lter è un contenitore senza coperchio. Una finestra sull'underground e sulle controculture.
mercoledì 15 dicembre 2010
martedì 14 dicembre 2010
DEVIL
di Emiliano Sportelli
Il Diavolo e l’uomo: un rapporto vecchio di millenni, antico quanto il mondo. La presenza tra gli uomini del Principe della notte ha da sempre rappresentato una paura, ma al tempo stesso una sorta di sfida; si può essere più furbi del demonio? Esiste un modo per aver la meglio su di lui e sui suoi doppi giochi? Il pentimento risulta essere forse, la sola arma a disposizione degli uomini per riuscire a tener testa a colui che, viaggia spesso sotto sembianze diverse dalla propria e che dispensa tranelli di ogni sorta. Essere diabolico ed infimo.
Il Diavolo è spesso stato usato come protagonista in vari film dell’orrore, da sempre la sua presenza sullo schermo ha suscitato ansie e paure, anche se ha comunque attirato spettatori di ogni sorta. “Devil” a mio modo di vedere, rappresenta un po’ uno spartiacque tra film horror e thriller. Diretto da John Erick Dowdle, già autore del film “Quarantena” remake del più famoso “REC”, il film spicca soprattutto per la sua storia in sé più che per la regia; ed in effetti autore della storia è quel M. Night Shyamalan che tanto ci ha tenuto incollati allo schermo con “Il sesto senso”. Nonostante Shyamalan non ne sia il regista, la sua aura nel film è molto facile da cogliere e la si nota in particolare nel finale dove, come al suo solito, il regista indiano dà il meglio di sé.
Claustrofobia, tensione e paura sono questi i tre aggettivi da usare parlando di “Devil”; l’azione si svolge prevalentemente in un ascensore dove rimangono intrappolate cinque persone, ognuna con qualcosa del suo passato da nascondere. Sembrerebbe un innocuo e semplice guasto, ma le cose, quando c’è il Diavolo di mezzo, non vanno mai come dovrebbero. Ed infatti il Belzebù si annida tra di loro e camuffato da uno dei cinque sfortunati, cercherà di prendere le anime che gli spettano. Ciò che preme sottolineare è la figura di Satana stesso, che si erge a giudice supremo e che alla fine prende solo quello che gli spetta. Per certi versi quasi un Diavolo giusto (se così lo si può chiamare), un’immagine del demonio, quindi, quanto meno singolare quella che viene fuori dal lavoro di Dowdle, come quasi ad indicare lo stretto legame tra bene e male che da sempre imprigiona il mondo.
Molto apprezzabile la colonna sonora di Fernando Velazquez che si associa alla perfezione all’atmosfera claustrofobica e per certi aspetti lugubre del film. Interessanti sono le immagini iniziali del film, dove viene ripreso il panorama della città di Philadelphia al contrario, segno inequivocabile della presenza del maligno; piene di suspance le scene girate durante il black-out in ascensore dove Satana darà il meglio di sé. Ovviamente il finale è, come detto, in pieno stile Shyamalan; il demonio farà finalmente la sua comparsa, rivelando i suoi piani e riuscendo così a chiudere il suo cerchio.
“Devil”, uscito nelle sale poche settimane fa, è il primo film di una trilogia di cui faranno parte “Reincarnate” e “Unbreakable 2” e sono tutti ispirati ai racconti horror intitolati “The Night Chronicles” ideati appunto da M. Night Shyamalan.
Il Diavolo e l’uomo: un rapporto vecchio di millenni, antico quanto il mondo. La presenza tra gli uomini del Principe della notte ha da sempre rappresentato una paura, ma al tempo stesso una sorta di sfida; si può essere più furbi del demonio? Esiste un modo per aver la meglio su di lui e sui suoi doppi giochi? Il pentimento risulta essere forse, la sola arma a disposizione degli uomini per riuscire a tener testa a colui che, viaggia spesso sotto sembianze diverse dalla propria e che dispensa tranelli di ogni sorta. Essere diabolico ed infimo.
Il Diavolo è spesso stato usato come protagonista in vari film dell’orrore, da sempre la sua presenza sullo schermo ha suscitato ansie e paure, anche se ha comunque attirato spettatori di ogni sorta. “Devil” a mio modo di vedere, rappresenta un po’ uno spartiacque tra film horror e thriller. Diretto da John Erick Dowdle, già autore del film “Quarantena” remake del più famoso “REC”, il film spicca soprattutto per la sua storia in sé più che per la regia; ed in effetti autore della storia è quel M. Night Shyamalan che tanto ci ha tenuto incollati allo schermo con “Il sesto senso”. Nonostante Shyamalan non ne sia il regista, la sua aura nel film è molto facile da cogliere e la si nota in particolare nel finale dove, come al suo solito, il regista indiano dà il meglio di sé.
Claustrofobia, tensione e paura sono questi i tre aggettivi da usare parlando di “Devil”; l’azione si svolge prevalentemente in un ascensore dove rimangono intrappolate cinque persone, ognuna con qualcosa del suo passato da nascondere. Sembrerebbe un innocuo e semplice guasto, ma le cose, quando c’è il Diavolo di mezzo, non vanno mai come dovrebbero. Ed infatti il Belzebù si annida tra di loro e camuffato da uno dei cinque sfortunati, cercherà di prendere le anime che gli spettano. Ciò che preme sottolineare è la figura di Satana stesso, che si erge a giudice supremo e che alla fine prende solo quello che gli spetta. Per certi versi quasi un Diavolo giusto (se così lo si può chiamare), un’immagine del demonio, quindi, quanto meno singolare quella che viene fuori dal lavoro di Dowdle, come quasi ad indicare lo stretto legame tra bene e male che da sempre imprigiona il mondo.
Molto apprezzabile la colonna sonora di Fernando Velazquez che si associa alla perfezione all’atmosfera claustrofobica e per certi aspetti lugubre del film. Interessanti sono le immagini iniziali del film, dove viene ripreso il panorama della città di Philadelphia al contrario, segno inequivocabile della presenza del maligno; piene di suspance le scene girate durante il black-out in ascensore dove Satana darà il meglio di sé. Ovviamente il finale è, come detto, in pieno stile Shyamalan; il demonio farà finalmente la sua comparsa, rivelando i suoi piani e riuscendo così a chiudere il suo cerchio.
“Devil”, uscito nelle sale poche settimane fa, è il primo film di una trilogia di cui faranno parte “Reincarnate” e “Unbreakable 2” e sono tutti ispirati ai racconti horror intitolati “The Night Chronicles” ideati appunto da M. Night Shyamalan.
mercoledì 8 dicembre 2010
IL SIGNORE DEGLI ANELLI
di Emiliano Sportelli
Il genere fantasy ha da sempre rivestito un fascino particolare che lo metteva in una posizione privilegiata rispetto a tutti gli altri generi cinematografici, non solo perché faceva presa su un pubblico molto variegato, ma anche per il fatto di poter portare su pellicola un’innaturale corso degli eventi, senza preoccuparsi troppo di incongruenze dettate dalla ragione. Ovviamente si deve, però, fare i conti con l’altra faccia della medaglia; i film fantasy hanno il loro impatto sul pubblico solo se c’è dietro un buon lavoro di effetti speciali e se la storia vale davvero; di certo non ci si può accontentare di una buona recitazione, o di un cast di attori di primo livello.
A mio parere Peter Jackson con la trilogia de “Il Signore degli anelli” è riuscito a mostrarci la parte migliore di questo genere, fondendo insieme una storia di alto spessore (basata sul romanzo di J.R.R. Tolkien, se pur con qualche adattamento rispetto al libro), un’ottima recitazione con attori di primo rango, su tutti spicca sicuramente Viggo Mortensen, che interpreta un triste e tenebroso Aragorn, ed infine una scenografia mai banale e molto elaborata nei dettagli.
È forse il regista stesso il “principale protagonista” del film e questo per varie ragioni: innanzitutto l’opera di Jackson rispecchia la penna di Tolkien in quasi tutti i suoi aspetti (in concreto è impossibile riprodurre fedelmente un film che sia stato tratto da un libro) e questo – a mio avviso – è già un lavoro da sottolineare, soprattutto per tutti coloro che hanno amato il libro forse più dello stesso film; tutta la Terra di Mezzo è stata trasportata con grande cura e parsimonia su pellicola: le colline leggere e rilassanti della Contea, le oscure miniere di Moria, la crudeltà che fa da sovrana nella torre di Saruman, tutto questo ed altro ancora si offre all’occhio dello spettatore che di sicuro vedrà sullo schermo tutto ciò che ha incontrato fin ora solo in sogno.
L’attenzione da parte di Jackson ai particolari la si coglie nella pretesa di far imparare agli “attori elfici” il loro stesso idioma inventato da Tolkien e grazie al regista fatto conoscere anche all’intero pubblico. La scelta azzeccata del cast è stata un’altra scommessa vinta dal regista neozelandese; oltre al già citato Mortensen, uno spavaldo e allo stesso tempo eccentrico Bilbo sembra proprio essere stato modellato sulla pelle dell’insuperabile Ian Holm, uno scaltro ed ironico Gandalf (Ian McKellenil) il mago/pellegrino con la passione per l’erba pipa ed il giovane Eljiah Wood che interpreta un insicuro ed ingenuo Frodo, il nostro hobbit che regge nelle sue mani il destino di tutta la Terra di Mezzo.
Da tutto questo si può capire come Peter Jackson abbia amato il libro, rendendo così il suo film non solo un lavoro da ricordare, ma grazie ad esso è riuscito a far avvicinare a Tolkien tutti coloro che hanno anticipato la visione del film alla lettura dei suoi libri.
La saga de “Il Signore degli Anelli” è uscita in Italia tra il 2001 e il 2003 ed è composta da “La compagnia dell’Anello”, “Le due Torri” ed “Il ritorno del Re”; un film per tutti, nessuno escluso; un fantasy che ci fa immedesimare in Frodo e nel suo disperato viaggio che lo condurrà verso la distruzione dell’Anello.
Il genere fantasy ha da sempre rivestito un fascino particolare che lo metteva in una posizione privilegiata rispetto a tutti gli altri generi cinematografici, non solo perché faceva presa su un pubblico molto variegato, ma anche per il fatto di poter portare su pellicola un’innaturale corso degli eventi, senza preoccuparsi troppo di incongruenze dettate dalla ragione. Ovviamente si deve, però, fare i conti con l’altra faccia della medaglia; i film fantasy hanno il loro impatto sul pubblico solo se c’è dietro un buon lavoro di effetti speciali e se la storia vale davvero; di certo non ci si può accontentare di una buona recitazione, o di un cast di attori di primo livello.
A mio parere Peter Jackson con la trilogia de “Il Signore degli anelli” è riuscito a mostrarci la parte migliore di questo genere, fondendo insieme una storia di alto spessore (basata sul romanzo di J.R.R. Tolkien, se pur con qualche adattamento rispetto al libro), un’ottima recitazione con attori di primo rango, su tutti spicca sicuramente Viggo Mortensen, che interpreta un triste e tenebroso Aragorn, ed infine una scenografia mai banale e molto elaborata nei dettagli.
È forse il regista stesso il “principale protagonista” del film e questo per varie ragioni: innanzitutto l’opera di Jackson rispecchia la penna di Tolkien in quasi tutti i suoi aspetti (in concreto è impossibile riprodurre fedelmente un film che sia stato tratto da un libro) e questo – a mio avviso – è già un lavoro da sottolineare, soprattutto per tutti coloro che hanno amato il libro forse più dello stesso film; tutta la Terra di Mezzo è stata trasportata con grande cura e parsimonia su pellicola: le colline leggere e rilassanti della Contea, le oscure miniere di Moria, la crudeltà che fa da sovrana nella torre di Saruman, tutto questo ed altro ancora si offre all’occhio dello spettatore che di sicuro vedrà sullo schermo tutto ciò che ha incontrato fin ora solo in sogno.
L’attenzione da parte di Jackson ai particolari la si coglie nella pretesa di far imparare agli “attori elfici” il loro stesso idioma inventato da Tolkien e grazie al regista fatto conoscere anche all’intero pubblico. La scelta azzeccata del cast è stata un’altra scommessa vinta dal regista neozelandese; oltre al già citato Mortensen, uno spavaldo e allo stesso tempo eccentrico Bilbo sembra proprio essere stato modellato sulla pelle dell’insuperabile Ian Holm, uno scaltro ed ironico Gandalf (Ian McKellenil) il mago/pellegrino con la passione per l’erba pipa ed il giovane Eljiah Wood che interpreta un insicuro ed ingenuo Frodo, il nostro hobbit che regge nelle sue mani il destino di tutta la Terra di Mezzo.
Da tutto questo si può capire come Peter Jackson abbia amato il libro, rendendo così il suo film non solo un lavoro da ricordare, ma grazie ad esso è riuscito a far avvicinare a Tolkien tutti coloro che hanno anticipato la visione del film alla lettura dei suoi libri.
La saga de “Il Signore degli Anelli” è uscita in Italia tra il 2001 e il 2003 ed è composta da “La compagnia dell’Anello”, “Le due Torri” ed “Il ritorno del Re”; un film per tutti, nessuno escluso; un fantasy che ci fa immedesimare in Frodo e nel suo disperato viaggio che lo condurrà verso la distruzione dell’Anello.
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