giovedì 24 marzo 2011

FORME DI RESISTENZA COMUNITARIA IN COLOMBIA












Una storia tutta colombiana quella raccontata da Daniele Pozzi e Myrice Tansini in ‘Resistenza comunitaria’, documentario presentato alla decima edizione del RIFF (Rome Independent Film Festival). Il lavoro ha dato la parola all’etnia Nasa, una delle minoranze indigene presenti in Colombia e la maggioranza con il suo 80% nel Cauca, regione a sud-ovest, in cui è stato girato il documentario.
Gli indigeni continuano a resistere, nonostante da più di mezzo secolo siano tra le vittime più colpite dal conflitto che sta martoriando il paese e che vede schierati, da una parte esercito, poliziotti e paramilitari, e dall’altra le forze antigovernative d’ispirazione marxista-leninista, quali FARC e ELN. Questa guerra civile, definita da Amnesty International come un vero genocidio nei confronti dei nativi, tiene in scacco non solo il controllo del paese, ma anche quei giacimenti minerari, petroliferi e naturali, che sono terre, in gran parte, abitate dagli indigeni. Spinti nell’entroterra, durante il periodo coloniale, già allora vennero espropriati delle fertili terre in cui vivevano dai bulimici interessi delle multinazionali, che vedevano nelle grandi pianure l’eldorado delle coltivazioni intensive.
Circa il 3% della popolazione colombiana subisce da più di sessant’anni violazioni dei diritti ed efferate violenze fisiche: omicidi, minacce individuali e collettive, scontri armati, sparizioni forzate, sequestri, sfollamenti e confinamenti.


Il documentario fa visita ad alcune basi della resistenza, ai municipi ‘alternativi’ di Caldono, Silvia e Jambaló, accompagnati da due testimoni chiave: Enelia Salinas, sindaco di Caldono e vincitrice del Premio Mujers de Éxito (2010) e Aida Quilcué, leader del movimento indigeno del Cauca. “La resistenza non è con le armi, non è con la violenza. La resistenza noi la intendiamo con le idee e con il dialogo”. Con queste parole Quilcué spiega il vero obiettivo che mobilita migliaia di persone, quello di “camminare la parola”, ovvero dare voce ai diritti negati e alle necessità della comunità. Attraverso il cammino ci si riappropria dei significati della cultura originaria e si dà visibilità, al paese e al mondo, della situazione di violazione dei diritti umani di cui gli indigeni sono vittima.
Si tratta di una forma di democrazia partecipata, dove la comunità e il territorio sono gli unici interessi che muovono la gente. Un’attuazione è la ‘Minga’, termine che in lingua quechua significa ‘lavoro comunitario’. Questa è stata adottata da tutte le comunità per auto-organizzarsi e resistere. La minga consiste nel lavoro che la collettività svolge per preservare il proprio territorio, nella assemblee come forma di condivisione del pensiero e delle decisioni, nel rito solidale e unitario della mensa collettiva, nel riaffermare la propria identità culturale e infine nell’ottenere un beneficio economico. Molti sono, ad esempio, le associazioni di singoli ‘campesinos’ (contadini) che hanno dato vita ad aziende produttive che, con un marchio proprio e biologico, inseriscono i prodotti nel circuito dell’equo e solidale, distaccandosi da quella che era la conversione intensiva dell’agricoltura locale.
Un’alternativa, dunque, alla globalizzazione e che si basa su pilastri portanti quali la relazione di armonia ed equilibrio con la Madre Terra, l’organizzazione e la partecipazione comunitaria, l’esercizio del controllo territoriale, l’affermazione dell’autonomia e la formazione dei giovani. In nome della collettività e della propria terra.

Lina Rignanese

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