"Il Sogno degli Italiani"
un'opera di Garullo & Ottocento
Roma, 28-30 maggio 2012 - Palazzo Ferrajoli, Piazza Colonna, 355
IL SOGNO (il messaggio)
Il 16 maggio 1994, subito dopo la prima vittoria alle elezioni politiche, Silvio Berlusconi esordisce a palazzo Madama con un lungo discorso sul sogno italiano: “…Anch’io, come altri prima di me, ho fatto un sogno” e questo tema costante che ripeterà come un mantra negli anni a venire. Dunque noi non abbiamo fatto altro che cogliere il personaggio nella dimensione che costituisce l’essenza del messaggio berlusconiano: il sogno. Ampia è la letteratura che indica la vera forza attrattiva di Berlusconi nella capacità di innescare nelle persone la dinamica del sogno come possibilità di riscatto, di fiducia e positività: “Il sogno in cui può identificarsi ognuno di noi”. Il sogno però è anche la dimensione di totale autosufficienza dell’Io chiuso e nella propria realtà individuale e virtuale, senza più contatto con il mondo reale se non attraverso l’elaborazione psichica degli impulsi che da esso giungono. Dunque una doppia chiusura: fisica, della teca, psichica nella autoreferenzialità della dimensione onirica.
IL SORRISO (l’essenza)
Ciò che sintetizza e racchiude il senso più profondo del personaggio Berlusconi è senza dubbio il sorriso, sorriso perenne, sorriso come messaggio che “buca” gli schermi e che giunge diretto al cuore del pubblico, infondendovi un caldo tepore di ottimismo e fiducia. Il sorriso sta al volto di Berlusconi come l’enigma sta alle maschere dei faraoni. La testa è reclinata verso sinistra e rimanda alla ossessiva avversione del personaggio verso la cultura politica progressista da Berlusconi sempre indicata come comunista tout-court. Tuttavia, la funzione che assolve è quella di nascondere di primo acchito la serenità del volto, così da provocare nello spettatore un senso di disorientamento tra sacralità del contenitore (la teca) e l’atteggiamento alquanto prosaico del contenuto (il corpo).
In realtà, l’osservatore più attento potrà già scorgere l’espressione del volto nel riflesso proiettato sul vetro della teca, trovandovi però sovrapposto anche il proprio “ritratto” in un cortocircuito di identificazione involontaria. Il sorriso dunque allontanerà inequivocabilmente l’idea della morte suggerendo piuttosto l’immagine di una persona addormentata e quasi sarà portato a chiedersi se respira.
LA MANO DESTRA (la storia)
La mano destra è immediatamente visibile sul lato che definiamo “istituzionale”, diciamo così diurno. Essa poggia su ‘Una storia italiana’, l’opuscolo che Berlusconi inviò a milioni di famiglie italiane e che costituisce una sorta di summa della vita e delle imprese dell’uomo, dell’imprenditore, del politico. Insomma è tutto ciò che Silvio Berlusconi è, o meglio tutto ciò che egli desiderava si venga a sapere della propria storia personale e pubblica. A questa storia ufficiale milioni di Italiani hanno creduto così dando più volte fiducia al personaggio che credevano di conoscere come le loro tasche.
LA MANO SINISTRA (la sessualità)
La mano sinistra narra di una storia tenuta nascosta e che certamente non poteva trovare spazio nella vulgata ufficiale della biografia berlusconiana. Essa narra di una ossessione sfrenata per il sesso che giunge fino alla mercificazione come unica modalità nella relazione erotica. “Mio marito frequenta le minorenni” è la sconcertante denuncia della moglie Veronica, che addirittura descrive Berlusconi come il “Drago a cui si offrono le vergini”. E le minorenni, stando all’ultimo e più imbarazzante scandalo con annesso processo. (Ruby-gate).
Dunque questa mano segna il contraltare di una agiografia ufficiale che si sfalda sui teleschermi, dove un tempo appariva un eroe in “odore di santità”. Questa mano rivela il segno più intimo di un uomo totalmente preso e infine sopraffatto dalle pulsioni incontinenti della propria libido. Non spetta a noi una valutazione moralistica, che non ci appartiene come metro di giudizio, noi abbiamo colto e messo in evidenza la portata psicologica del personaggio e in ultima analisi il suo “tallone d’Achille”.
LE PANTOFOLE (il carattere)
Universalmente conosciuto per il suo carattere gioviale, allegro e giullaresco, Berlusconi interpreta a pennello il ruolo stereotipato dell’italiano “spaghetti e mandolino”. (Celeberrime le gags nelle riunioni internazionali dei potenti dove egli è intento a mettersi al centro della scena, dalle corna nella foto di gruppo al ritardo con la Merkel. E poi battute, barzellette e cotillons perché Silvio ama piacere agli altri, sempre). L’iconografia di Mikey Mouse rimanda dunque al carattere “cartoonesco” del personaggio e tuttavia queste pantofole improbabili, ma forse non troppo, vista l’eclettica personalità in questione, hanno il compito di bilanciare la sacralità della teca con un effetto postmoderno di mescolamento dei linguaggi. Infine indicano che il personaggio è colto in un momento di rilassatezza e intimità che certo pure contrasta con la rigidità e la compostezza riservata alla salma. E questo chiarisce subito che di morto non si tratta.
IL VESTITO (il desiderio e il declino)
La cravatta allentata, la camicia e la giacca scomposte, i pantaloni aperti ci parlano di un uomo immerso nel sonno e nel sogno. L’abito, lo svela all’osservatore attento l’etichetta sul risvolto della cravatta, è una creazione della sartoria DESIREE di Napoli. Dunque, il “desiderio” che ha portato Berlusconi nei sobborghi di Napoli dalla giovane Noemi e che segna il punto di non ritorno nella rottura del rapporto con la moglie, nel privato, e dell’immagine ufficiale con gli italiani nel pubblico. Immagine che d’ora in avanti sembrerà sempre più in svendita sui rotocalchi della stampa rosa e in questo senso l’abito, cioè l’immagine ufficiale del personaggio, è stato acquistato presso l’outlet di Castel Romano, vicino a Roma. Sic transit gloria mundi.
LA TECA (il passaggio alla storia)
Che piaccia o meno Silvio Berlusconi è quanto di più rappresentativo sia apparso dell’intimo carattere dell’italianità o dell’italiano medio, sociologicamente parlando. “Io non temo Berlusconi in sé, io temo il Berlusconi in me” – cantava Giorgio Gaber. La teca consegna alla storia d’Italia e non solo, un personaggio che profondamente segnato l’epoca in cui ha vissuto, consegnandolo al passato in un primo tentativo di storicizzazione. D’altra parte sulla simbolica religiosa di Silvio Berlusconi, sulla portata mistica e il potere taumaturgico della sua persona fino, addirittura, sui casi miracolosi si è ampiamente indagato. “L’unto dal Signore” e però anche “Santo puttaniere”, in questi due estremi la parabola, in senso letterale, del nostro Santo postmoderno.
IL PALAZZO (il potere)
L’opera giunge alla sua completa definizione nello spazio fisico in cui è collocata, dando così vita ad un’opera-azione performativa. E questo spazio fisico non poteva che essere nel cuore stesso del Potere, nella Roma dei palazzi del potere. Attraverso la grande finestra l’opera volge lo sguardo sognante verso Palazzo Chigi, dall’altro lato di Piazza Colonna. Guarda la dimora del Potere che lo ha visto suo abitatore, altri direbbero “utilizzatore”, incrociando la mole maestosa della Colonna Antonina, freudiana evocazione del potere fallocratico. Si crea così un cortocircuito spazio-temporale in cui il Potere mira se stesso e i suoi simulacri si rimandano la propria immagine.
“Siam fatti della stessa sostanza dei sogni” – ci avverte il poeta, e allora i nostri sogni danno sostanza effimera alla nostra Vanitas - aggiungiamo noi.
GLI ARTISTI
“Abbiamo cominciato la nostra attività artistica dando vita enl 1997 al laboratorio di ceramica d’arte Kerameion sito in Latina, una città di provincia poco a sud di Roma. Successivamente la pittura diviene il mezzo più idoneo a soddisfare le nostre esigenze espressive e le sensibilità individuali. (Così se Mario sviluppa il proprio linguaggio nel segno dell’astrattismo e dell’informale, Antonio usa la figurazione).
Negli ultimi anni la nostra ricerca artistica cambia radicalmente oggetto e linguaggio espressivo. Assorbita la dinamica creativa duchampiana, le opere che nascono in questo periodo grondano di attualità, guardano all’uomo contemporaneo e alle sue inquietudini, tentando una analisi della società contemporanea.
Con le opere attuali vogliamo indagare la facies del Potere, sia esso politico, religioso, culturale che mass-mediatico, lavorando su personaggi-icona del nostro tempo.”
Antonio Garullo e Mario Ottocento sono la prima coppia gay italiana unita in matrimonio. Si sono sposati il 1 giugno 2002 a L’Aja in Olanda, chiedendo successivamente la trascrizione dell’atto di matrimonio nei registri dello stato civile del Comune di Latina. La richiesta viene rifiutata a seguito del parere negativo del Ministero dell’Interno “per contrarietà all’ordine pubblico”. Quindi iniziano una lunga battaglia giudiziaria per il riconoscimento del loro matrimonio arrivando fino alla Corte di Cassazione che, con la nota sentenza n. 4184 del 15 marzo 2012, ha riconsciuto importanti diritti per le coppie gay. La battaglia legale continua nelle Corti Europee.
Lina Rignanese
Nota: I testi sono presi dalla cartella informativa messa a disposizione per la mostra. Le foto sono mie.
L'[A]lter è un contenitore senza coperchio. Una finestra sull'underground e sulle controculture.
giovedì 31 maggio 2012
giovedì 24 maggio 2012
DEL PASSARE OLTRE
Così,
passando lentamente in mezzo a varie genti e a città d’ogni genere, Zarathustra
allungava la via del ritorno alla sua montagna e alla sua caverna. Ed ecco che,
senza accorgersene, si trovò davanti alla porta della grande città: qui però un pazzo furioso gli balzò incontro con le
braccia spalancate e gli sbarrò il cammino. Ma costui era lo stesso pazzo che
il popolo chiamava la “scimmia di Zarathustra”: egli infatti aveva ricopiato
qualcosa della costruzione e del tono dei suoi discorsi e volentieri prendeva
in prestito dal tesoro della sua saggezza. E il pazzo fece a Zarathustra questo
discorso:
«Oh,
Zarathusta, qui è la grande città: qui nulla hai da cercare e tutto da perdere.
Perché
sei voluto passare a guado attraverso questa melma? Abbi compassione dei tuoi
piedi! Sputa piuttosto sulla porta della città e – torna indietro!
Qui
è l’inferno per pensieri da eremita: qui i grandi pensieri vengono bolliti vivi
e cotti a pezzi.
Qui
marciscono tutti i grandi sentimenti: qui soltanto sentimentucci scheletriti
possono far rumore coi loro ossicini!
Non
senti già l’odore dei macelli e delle bettole dello spirito? Non esala questa
città miasmi di spirito macellato?
Non
vedi le anime penzolare come stracci sudici e stracchi? – E di questi stracci
fanno anche giornali!
Non
senti come lo spirito qui sia diventato gioco di parole? Un liquame schifoso di
parole ne vien fuori! – E con questo liquame di parole essi fanno giornali.
Essi
si pungolano a vicenda, né sanno perché. Essi fanno fracasso con la loro latta,
fan tintinnare il loro oro.
Essi
sono freddi e cercano calore in liquidi distillati; sono accaldati e cercano
refrigerio presso spiriti raggelati; tutti sono infermi e appestati di opinioni
pubbliche.
Tutti
i piaceri e i vizi qui sono di casa; ma vi sono anche dei virtuosi, c’è qui
molta virtù volenterosamente impiegata: -
Molta
virtù volenterosa con dita da scrivano e col didietro indurito per lunghe
sedute d’attesa, benedetta da piccole stelle da portare sul petto e da figliole
impagliate e senza fianchi.
C’è
anche molta pietà devota e molta credula piaggeria e adulazione davanti al dio
degli eserciti.
“Dall’alto”
goccia qui la saliva benigna che dispensa le stelle; verso l’alto anela qui
ogni petto, cui non sia appuntata la stella.
La
luna ha il suo alone, che è il suo corteggio, e la Corte ha le sue informi
creature lunari: ma il popolo accattone, la volenterosa virtù degli accattoni
volge la sua preghiera a tutto quanto proviene da Corte.
“Io
servo, tu servi, noi serviamo” – così prega ogni virtù volenterosa, rivolta in
alto verso il sovrano: perché alla fine la stella al merito si appunti sul
petto intisichito!
Ma
la luna gira intorno a tutto quanto è terrestre: così pure il sovrano gira
intorno alla più terrestre delle cose - : che è l’oro dei mercanti.
Il
dio degli eserciti non è il dio delle sbarre d’oro; il sovrano propone, ma il
mercante – dispone!
Per
tutto che in te è luce vigore bontà, Zarathustra! Sputa su questa città di mercanti
e torna indietro! Qui il sangue scorre sempre marcio e tiepido e schiumoso per
tutte le vene: sputa sulla grande città che è la grande cloaca dove tutta la
feccia si raduna schiumeggiante!
Sputa
sulla città dalle anime spiaccicate e dai petti intisichiti, dagli occhi
aguzzi, dalle dita viscide – - sulla città degli importuni, degli sfrontati,
degli strilloni e scribacchini, degli ambiziosi in fregola: - dove tutto ciò che
è fradicio, scellerato, lubrico, buio, infrollito, ulceroso, sotterraneo
conviene insieme in un’unica piaga: -
-
sputa sulla grande città e torna indietro!» - -
Ma
qui Zarathustra interruppe il pazzo furioso e gli tappò la bocca.
«Finiscila!
Gridò Zarathustra, è un pezzo che il tuo parlare e la tua specie eccitano il
mio schifo!
Perché
hai abitato così a lungo presso la palude, tanto da diventare tu stesso rana e
rospo?
Non
scorre anche nelle tue vene un sangue di palude, marcio tiepido schiumoso, sì
che hai imparato a gracidare e ingiurare in questo modo?
Perché
non sei andato nella foresta? O hai arato la terra? Forse che il mare non è
pieno di verdi isole?
Io
disprezzo il tuo disprezzare; e perché hai messo in guardia me e non te stesso
Soltanto
dall’amore deve volare a me il mio disprezzo, come un uccello ammonitore: ma
non dalla palude! –
Ti
chiamano la mia scimmia, pazzo furioso: ma io ti chiamo il mio maiale
grugnente, - col tuo grugnito rovini anche il mio elogio della follia.
Che
cosa ti ha indotto a grugnire? Che nessuno ti abbia mai adulato abbastanza: - per questo ti sei messo presso questo
sozzume, per aver motivo di molti grugniti, -
-Per
aver motivo di molta vendetta!
Vendetta infatti è tutto il tuo inveire, pazzo vanesio: così ti o smascherato!
Ma
le tue folli parole mi arrecano
danno, persino quando hai ragione! E se la parola di Zarathustra avesse cento volte ragione: tu con la
mia parola non potresti che far
sempre – torto!».
Così
parlò Zarathustra; poi contemplò la grande città, sospirò e tacque a lungo.
Infine parlò così:
Anche
questa città mi ripugna e non solo questo pagliaccio. Qui e lì non c’è nulla da
migliorare né da peggiorare.
Guai
a questa grande città! – E io vorrei già vedere la colonna di fuoco, in cui
sarà incendiata!
Perché
tali colonne di fuoco debbono precedere il grande meriggio. Ma tutto ciò ha il
suo tempo e il suo destino. –
Ma
a te, pazzo, do questo insegnamento per congedo: dove non è più possibile
amare, bisogna – passare oltre! –
Così
parlò Zarathustra e passò oltre il pazzo e la grande città.
(Da Fiedrich Nietsche, Così parlò Zarathustra,
Adelphi, Milano, 1986, pp. 214-217)
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