martedì 25 maggio 2010

E.T. - L'extraterrestre

di Emiliano Sportelli


















REGIA Steven Spielberg
SCENEGGIATURA Melissa Mathison
PRODUZIONE Universal Picture
DISTRIBUZIONE CIC Video

Steven Spielberg è sicuramente uno dei miei registi preferiti. Forse uno dei suoi meriti maggiori è stato quello di riuscire a “scavare” nel cuore dei più grandi con l’intento di riportare alla luce quel lato fanciullesco che, sicuramente, lui non ha mai abbandonato. Io l’ho sempre considerato un regista per ragazzi ma che, per merito della sua originalità ed inventiva, deve assolutamente piacere ai più grandi. Film come “Hook” o la saga di “Indiana Jones” rispecchiano proprio quel lato del regista americano che così tanto apprezzo; anche vedendo le sue stesse produzioni si riesce a cogliere questa caratteristica: “I Goonies” e “I Gremlins” sono proprio lavori che si basano sulla filosofia del “ragazzo-protagonista”.
Ma sicuramente tra tutti “E.T. – L’extraterrestre” è la pellicola che più mette a nudo le già citate peculiarità di Spielberg.

Girato nel 1982, il film racconta la storia di un alieno dimenticato sulla Terra dai suoi simili, viene trovato dal piccolo Elliot che lo nasconde a casa sua. Il bambino, insieme al fratello più grande e alla sorellina (una giovanissima Drew Barrymore), cercherà di aiutare l’extraterrestre a ritornare a casa. Tra Elliot ed E.T. nascerà fin da subito una tenera e spontanea amicizia, un gioco di sguardi e pensieri che risulteranno essere la base del loro bisogno di affetto.

In “E.T. – L’extraterrestre” abbondano gli spunti interessanti sui quali ci si potrebbe soffermare. Su tutti il tema dell’amicizia: certo in primo piano risulta subito evidente il legame che si crea tra Elliot ed E.T., anzi si potrebbe forse pensare anche che le azioni che compie l’alieno si riflettano sul bambino stesso, ma non è solo questo; in un certo senso risulterà essenziale, ai fini della storia, l’unione che E.T. ha portato tra gli amici di Elliot. Il significato della parola “amicizia” sarà quindi visto sotto un aspetto più profondo ed istruttivo; stupisce inoltre il fatto che questo significato venga “sviluppato” grazie allo spirito che appartiene a qualcuno di così lontano da noi.

Interessante è inoltre il mondo che Spielberg ha voluto presentarci, un mondo dove i veri protagonisti sono i bambini. Questo modo di vedere le cose da parte del regista lo si può riscontrare ad esempio nelle inquadrature: spesso infatti gli adulti sono ripresi dalla vita in giù, proprio a voler sottolineare che l’unico punto di vista, sia visivo che mentale, è quello che appartiene al fanciullo. La stessa Barrymore dirà in una battuta del film: «i grandi non possono vederlo» indicando proprio l’impossibilità degli adulti di accedere all’universo incontaminato dei bambini. I più grandi sono quindi visti come gli antagonisti che cercheranno di ostacolare i piani di Elliot di salvare il piccolo E.T.

Vincitore di tre premi Oscar, il film rimarrà nella memoria di tutti coloro che vedono nella naturalezza e nell’immaginazione delle proprie azioni le due chiavi per riuscire a leggere il libro della nostra esistenza con sentimento e fantasia.

martedì 18 maggio 2010

IAN CURTIS - JOY DIVISION


















di Emiliano Sportelli

A volte i nostri pensieri peggiori, quelli che ci tengono svegli la notte e ci fanno perdere il sonno, possono trasformarsi in dolci nenie che provengono da una voce densa e calda. La speranza di ri-trovare il nostro male insito nella mente di qualcun altro a noi lontano, è il motivo che spesso ci spinge a premere play sul nostro stereo, per ascoltare ed entrare così in contatto con la tristezza di un “altro noi”, cercare di stabilire un eterna empatia e portare avanti questo “silenzioso” sentimento tutte le volte che ci sentiamo isolati; ed ecco che quella lontananza che credevamo non poter colmare si trasforma in un abbraccio di note ed accordi che ci riempie il cuore. I Joy Division sono stati anche questo.

Nati dalle ceneri del punk, il gruppo di Manchester è riuscito in soli tre anni a meritarsi un posto di assoluto rispetto nell’olimpo dei grandi della musica internazionale; il loro cantante, Ian Curtis, ha preso per mano il neonato post-punk, riuscendo a portare una nuovo linfa vitale in quelle menti di giovani usciti forse un po’ delusi dal fenomeno punk, trasformatosi alla fine in una moda da seguire.

Unknow Pleasure è il loro album d’esordio datato 1979. Un disco già con spunti interessanti; dieci pezzi creati sulle sfumature e sulle esperienze di uno Ian Curtis che, ormai da anni, si portava dietro un’epilessia che non l’avrebbe mai più abbandonato. Pezzi come Disorder, She’s lost control o Shadowplay stanno già ad indicare la strada in salita che il cantante ha deciso di intraprendere, un sentiero in cui è facile perdersi senza una guida che ti prenda per mano.
Closer uscito l’anno successivo, 1980, è già un disco diverso. L’anima post-punk del quartetto perde un po’ del suo mordente che aveva contraddistinto il disco d’esordio e lascia spazio a sonorità più cupe e tetre. Un disco forgiato proprio sulle pene di Curtis e sul suo male che stava attraversando: il divorzio con la moglie Deborah, i sempre più frequenti attacchi di epilessia e le sue idee di essere già al culmine del successo e di non avere più stimoli per continuare. Canzoni come Isolation o Decades indicano proprio lo stato di malessere in cui il cantante era sprofondato.

Il 18 maggio 1980 Ian Curtis ha deciso di oltrepassare il confine tra paura, mistero e dolore; mentre il suo giradischi suonava The Idiot di Iggy Pop il paroliere dei Joy Division si è suicidato nella sua casa di Manchester lasciando un vuoto incolmabile nello scacchiere della musica underground. Aveva 23 anni.

Sono passati trent’anni da quella tragica notte, ma il ricordo legato a lui e alla sua musica resteranno in noi per sempre vivi.

lunedì 17 maggio 2010

17 maggio Giornata mondiale contro l’omofobia














di Francesco Gnerre

Perché in Italia è più difficile che altrove l’affermazione della centralità politica e culturale dei diritti dei gay e della lotta all’omofobia? Esiste una responsabilità anche della cultura, in Italia più refrattaria che in altri paesi, ad affrontare questi temi? Un breve excursus sulle censure, le autocensure e i mascheramenti che, negando anche la parola, hanno reso difficile l’elaborazione di una cultura gay, e marginale un tema così importante per la democrazia di un paese.

Tra i motivi che fanno dell’Italia uno dei paesi più omofobi d’Europa e uno dei più arretrati in fatto di diritti civili c’è da considerare la responsabilità della cultura che ha la tendenza ad avallare l’atteggiamento ipocrita della separazione tra le parole e le cose, l’abitudine a mascherare ciò che non è conforme alla cultura dominante. Così in Italia si possono avere più famiglie e battersi pubblicamente per l’indissolubilità del matrimonio, si possono avere amanti di ogni orientamento sessuale e proclamare pubblicamente di essere turbati dalla presenza di omosessuali e contrari alle unioni tra persone dello stesso sesso. Insomma la realtà conta poco, quello che conta è la rappresentazione.
Questo aspetto della cultura nazionale ha origini antiche e risale per lo meno alla controriforma cattolica. Scriveva Paolo Sarpi ad un suo amico francese nel 1609: “una maschera sono costretto a portare, per quanto nessuno possa farne a meno, se vive in Italia”. La maschera di cui parla Paolo Sarpi non serviva a coprire comportamenti sessuali, ma atteggiamenti politici e ideologici non conformi al potere allora dominante, ma l’immagine testimonia bene una forma mentis tutta italiana che ai tempi di Paolo Sarpi poteva essere una necessità, ma che poi è diventata distintiva del carattere nazionale.
Questa maschera che interessa tanti aspetti della vita, è ovviamente ancora più evidente in tutto ciò che riguarda la sessualità e in particolare l’omosessualità. Su questi temi c’è stata sempre in Italia una acquiescenza alla cultura dominante pubblicamente sessuofobica e omofobica e gli intellettuali hanno sempre sottovalutato la questione omosessuale o l’hanno vista come un problema circoscritto ai soli omosessuali e non, come in altri paesi civili – almeno da quando l’omosessualità è stata derubricata dalle malattie o dalle anomalie psichiche – come un problema di democrazia. Gli stessi omosessuali hanno preferito, e spesso preferiscono ancora, continuare a tenere la maschera e il silenzio ha funzionato sempre come la più efficace forma di repressione.
Tra la metà del diciannovesimo secolo e gli anni dei movimenti di liberazione del Novecento, nel periodo della medicalizzazione dell’omosessualità e dell’emergere in varie forme del tema anche nella letteratura, l’interdizione e la paura hanno interessato certamente anche altri paesi europei e si è diffuso tra gli intellettuali quello che la studiosa Eve Kosofsky Sedgwick ha definito Homosexual Panic.
Altrove però ci sono stati anche, per fare solo qualche nome, André Gide, Jean Cocteau, Thomas Mann, Marcel Proust o ancora James Baldwin, Christopher Isherwood, Gore Vidal e tanti altri. Perfino gli scandali legati all’omosessualità hanno favorito l’emergere della questione. Si pensi al processo per sodomia a Oscar Wilde in Gran Bretagna, alla coppia Verlaine – Rimbaud in Francia o agli scandali che coinvolsero tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento l’industriale tedesco Heinrich Krupp o a quelli che videro protagonisti il principe Philipp Zu Eulenburg e il conte Kuno von Moltke con vicende che fecero tremare gli ambienti vicini al kaiser Guglielmo II.
In Italia niente di tutto questo. Pur essendo la meta del turismo gay di mezza Europa, l’Italia non ha conosciuto, fino alla morte di Pasolini – quindi un secolo dopo – nemmeno gli scandali. L’interdizione anche della parola è stata totale, tanto che quando alcuni scrittori hanno provato a rappresentare aspetti legati all’omosessualità sono stati costretti a ricorrere a eufemismi più o meno fantasiosi. Giorgio Bassani scrive che il dottor Fadigati, il protagonista de “Gli occhiali d’oro”, era ‘così’, era di ‘quelli’, i personaggi omosessuali di Natalia Ginzburg sono degli ‘eccentrici’, Vasco Pratolini in “Il Quartiere” parla di un non meglio precisato ‘vizio’ o di ‘natura corrotta’, Alberto Moravia a proposito del protagonista de “Il conformista” parla di ‘anormalità’ e in “Agostino” l’omosessuale adulto, Saro, è il pervertito libidinoso; dell’altro, più giovane, si dice semplicemente che ‘va’ con Saro. E gli scrittori più coinvolti personalmente, da Palazzeschi a Saba a Comisso e a tanti altri, hanno dovuto escogitare strategie di mascheramenti o sono stati costretti a confrontarsi con censure e autocensure molto più coercitive che in altri paesi.
Lo stesso Pasolini che non ha mai avuto dubbi sulla sua omosessualità, quando negli anni Quaranta del Novecento si decide a confessare in una drammatica lettera la sua omosessualità ad una donna che è innamorata di lui, parla di vita “ferocemente privata, intima, la cui inconfessabilità mi aveva fatto comportare con te in modo tanto poco virile e onesto”, aggiunge di voler finalmente “essere esplicito”, ma la parola omosessualità rimane difficile da pronunciare e per dirlo deve ricorrere a lunghe e faticose perifrasi.
L’Homosexual Panic in Italia è così molto più forte e rimane pressoché inalterato anche quando negli anni Settanta del Novecento altrove comincia il processo di superamento della paura e si fa strada l’idea di una cultura rivendicativa anche attraverso la scrittura letteraria che dà origine alla cosiddetta letteratura gay, un concetto che in Italia non ha mai avuto molta fortuna. Quando nel 1975 muore assassinato Pier Paolo Pasolini, il suo amico Alberto Moravia scrive: “chi era, che cercava Pasolini? In principio, c’è stata, perché non ammetterlo? L’omosessualità, intesa però alla stessa maniera dell’eterosessualità, come rapporto con il reale, come il filo di Arianna nel labirinto della vita”. Che intendeva dire lo scrittore? Che gli omosessuali che non sono Pasolini non hanno alcun rapporto con la realtà?
Negli anni Settanta, il nascente movimento di liberazione omosessuale in Italia si deve confrontare così con una situazione molto più difficile che altrove, col muro di gomma di una cultura refrattaria e con diffidenze inimmaginabili in altri paesi, dove paradossalmente l’esistenza di una legislazione discriminatoria favorisce l’aggregazione e la conseguente nascita di una comunità gay che, accanto a iniziative strettamente politiche, promuove un nuovo immaginario legato alla sessualità e all’omosessualità anche attraverso la letteratura e promuove un coinvolgimento culturale generale che a poco a poco contribuisce a creare un clima favorevole alle istanze di emancipazione.
In Italia i pochi libri che rappresentano l’omosessualità in maniera nuova rispetto allo stereotipo pre-Stonewall del malato da commiserare o del corruttore nascono all’interno dell’esiguo movimento di liberazione, rimangono clandestini e non entrano nel circuito letterario ufficiale. Nemmeno il più importante di questi libri, “Elementi di critica omosessuale” di Mario Mieli, un saggio che è anche un interessante testo letterario per l’inedito accostamento del linguaggio accademico con modalità espressive “gaie” e provocatorie, riesce a intaccare la totale refrattarietà della cultura ufficiale. Un’edizione ridotta degli Elementi, tradotta in inglese, è studiata e apprezzata fino a diventare un testo di riferimento per gli studi successivi della queer theory, ma in Italia Mario Mieli rimane un nome noto solo all’interno del movimento d liberazione omosessuale.
Le nuove istanze di libertà di quegli anni in Italia arrivano come attutite e guardate con sospetto. Si pubblica qualche libro rimasto per decenni ben conservato nell’ombra di qualche biblioteca come “I Neoplatonici” di Luigi Settembrini o nei cassetti degli scrittori come “Ernesto” di Umberto Saba, o già pubblicati all’estero come “Fabrizio Lupo” di Carlo Coccioli, ma né “I Neoplatonici”, ambientato nell’antica Grecia e che l’autore presenta come traduzione dal greco, né Ernesto, che rappresenta l’educazione sentimentale e sessuale di un ragazzo alla fine dell’Ottocento a Trieste, né le elucubrazioni religiose di Coccioli rappresentano la nuova realtà gay. Si resta così, nonostante la novità di questi libri, nell’ambito dell’eccezionale e dello straordinario, in realtà lontane e particolari, che poco hanno a che vedere con il vissuto dei gay come si viene delineando in quegli anni. Anche l’accoglienza che questi libri ricevono è una prova ulteriore della reticenza, dell’imbarazzo dell’establishement culturale.
Se si consultano le recensioni apparse sulla stampa colpiscono i tentativi di tenere fuori questi libri dal vissuto omosessuale degli autori e dalla drammatica esperienza di repressione e si cerca di collocarli in un’aria rarefatta di “grazia” e di “classicità”.
Perfino uno scrittore più giovane e più immerso nella realtà gay come Pier Vittorio Tondelli, che rappresenta tutti i fermenti del movimento di liberazione omosessuale, quando tocca con mano che per essere in Italia uno scrittore di successo deve rassegnarsi a tenere un profilo basso, si adegua e fa di tutto per evitare la cosiddetta “ghettizzazione”.
Il suo esempio è seguito dalla maggior parte degli scrittori che sono venuti dopo che esprimono spesso fastidio di fronte a qualsiasi forma di “militanza”, rinunciando in questo modo a farsi portavoce di reali istanze di liberazione.
Un libro francese, recentemente tradotto in Italia, curato da Jean Le Bitoux, uno dei fondatori del Fhar (Fronte omosessuale di azione rivoluzionaria) nel 1971, giornalista e militante, raccoglie una serie di interviste degli anni Settanta e Ottanta sul tema della liberazione gay a personaggi della cultura come Jean Paul Sartre, Michel Foucault, Daniel Guerin. In Italia in quegli anni gli intellettuali gay o fingevano di non esserlo o stavano ben attenti a non lasciarsi sfiorare dalle istanze del movimento per paura di “ghettizzarsi” e quelli non gay o scrivevano ermetici sillogismi alla Moravia o parlavano, ancora in anni più vicini a noi, del “dramma dell’omosessualità”, come certi interventi a dir poco scandalosi sulle pagine culturali di La Repubblica di Cesare Garboli che molti ricordano.
Leggendo oggi le interviste di Le Bitoux che in quegli anni promuovevano dibattiti culturali di portata generale, si capisce bene attraverso quale percorso si è arrivati all’affermazione culturale e legale dei diritti glbt in Francia, mentre in Italia si tratta di discorsi di là da venire.
E così altrove, dove c’è stata una reale trasformazione culturale, essere omosessuale comincia veramente a non avere più alcuna rilevanza e si può essere omosessuale e primo ministro come in Islanda, omosessuale e sindaco di una grande città come a Parigi o a Berlino, omosessuale e vice cancelliere come in Germania, senza scandalo alcuno.
In Italia essere omosessuale è considerata ancora una caratteristica che è meglio non far emergere troppo (per una forma di omofobia interiorizzata, per non inimicarsi qualche amico cardinale o per paura di pregiudicare la propria carriera), o addirittura un’infamia da nascondere come dimostrano il “caso Marrazzo” e il “caso Boffo” che hanno appassionato in maniera volgare la stampa italiana tra la fine del 2009 e gli inizi del 2010 senza che né gli interessati, né i loro amici intellettuali abbiano avuto il coraggio di far cadere finalmente la maschera dell’ipocrisia.

Riferimenti bibliografici
G.Benzoni “Gli affanni della cultura. Intellettuali e potere nell’Italia della Controriforma e barocca” (Feltrinelli, Milano 1978)
E. K.Sedgwick “Epistemology of the Closet” (University of California Press, Berkeley and Los Angeles, U.S.A. 1990)
P.P.Pasolini “Lettere 1940-1954″ (Einaudi, Torino 1986)
F.Gnerre “L’eroe negato. Omosessualità e letteratura nel Novecento italiano” (Baldini & Castoldi, Milano 2000)
F.Gnerre e G.P.Leonardi “Noi e gli altri. Riflessioni sullo scrivere gay” (Il dito e la luna, Milano 2007)
J.Le Bitoux “Sulla questione gay. Sartre, Foucault e gli attivisti del Fhar in dieci interviste” (Il Saggiatore, Milano 2009)

[Fonte: www.napoligaypress.it 17 maggio 2010]

SCRITTORI CONTRO L’OMOFOBIA è un progetto editoriale curato da Massimiliano Palmese, che raccoglie saggi e racconti sulla difficile situazione italiana, frutto di vecchi pregiudizi e del vuoto legislativo. Tra i saggisti aderiscono Bolognini, Buffoni, Dall’Orto, Giartosio, Lalli, Quaranta, Romano, mentre tra i narratori Arena, B. Bianchi, Carrino, Insy Lohan, Vaccarello. Il volume uscirà in autunno.

giovedì 13 maggio 2010

“ZANZIBAR - SOLO PER DONNE CON DONNE”




Tekfestival (ai confini del mondo… dentro l’occidente)
Festival di Cinema Indipendente – IX Edizione 2010

Sezione Eventi Speciali








ZANZIBAR. UNA STORIA D’AMORE
di Francesca Manieri e Monica Pietrangeli, 2009, Italia, 45’, video

fotografia:Angelica De Rossi, Simona Tilli
montaggio: Francesca Bracci
musiche originali: Eli Natali
materiali di repertorio: Tiziana Mazzi, Nicola Sivieri

“Solo per donne con donne”, questo era lo striscione dello Zanzibar, primo bar lesbico in Italia, portato in marcia al corteo dell’8 marzo 1979. Era l’11 marzo 1978 quando Tiziana Mazzi e Nicola Sivieri (scomparsa nel 2005), di ritorno dagli USA, decisero di far vivere anche a Roma un luogo dove le donne potessero incontrarsi, conoscersi, divertirsi, innamorarsi. Un luogo di cultura e socialità dove condividere e vivere liberamente la propria omosessualità.
“Zanzibar. Una storia d’amore” è il documentario che Francesca Manieri e Monica Pietrangeli hanno realizzato per riportare alla luce quelle storie, per restituirne la memoria. Costruito mettendo insieme le interviste ad alcune delle protagoniste di quella esperienza militante e immagini di repertorio girate dalla stessa Tiziana.
Erano gli anni in cui tutto era politico, in cui le decisioni si prendevano riunendosi in assemblea, così fu anche per decidere se a Zanzibar si poteva o meno ballare: «Ballare allora era considerato poco politico. Ma alla fine anche le più intellettuali, quelle che parlavano difficile e ci volevano i traduttori per capirle, hanno deciso di sì: anche allo Zanzibar si sarebbe potuto ballare... E i lenti poi, tra sole donne».


Erano gli anni del femminismo, delle radio libere e delle prime lotte di rivendicazione del movimento omosessuale. Bastava poco per accendere gli animi della gente e altrettanto poco per provocare vendette da parte della polizia o delle squadracce di fascisti. Bastava essere donne e rivendicare i propri diritti per scatenare squilibrate reazioni. Il ’79 iniziò con l’irruzione, da parte di un commando dei NAR (Nuclei Armati Rivoluzionari) guidato da Giusva Fioravanti, negli studi di Radio Città Futura durante la registrazione della trasmissione femminista “Radio Donna”. I locali furono dati alle fiamme con delle bombe incendiarie e le conduttrici sparate alle gambe per evitare che fuggissero. Cinque di esse rimasero gravemente ferite. A questo episodio seguirono lanci di pietre contro la porta del locale lesbico, scritte razziste ed omofobe, intimidazioni. Una situazione di tensione che culminò l’1 dicembre quando la polizia fece irruzione e trovò un pacco di droga confezionato a dovere. Le fondatrici vennero arrestate e con loro tre donne che avevano tentato di difendersi. Tutte le altre furono segnalate alla questura. Le cinque fermate trascorsero dieci giorni in carcere. La loro legale era Tina Lagostena Bassi, impegnata nella difesa dei diritti delle donne, già difensore di Donatella Colasanti per il massacro del Circeo e della vittima di quel “famoso” processo per stupro trasmesso in RAI. Le ragazze dello Zanzibar furono tutte assolte con formula piena “perché il fatto non sussiste”.
Dopo questa “macchia”, il locale continuò a vivere per altri anni. Molte di quelle donne parteciparono a vari convegni in giro per l’Italia, portando a testimonianza la propria esperienza. Molte donne desideravano “uno Zanzibar in ogni città”. E invece, arrivò la fine. “Finita un po’ per stanchezza di chi ci lavorava ed anche perché i tempi erano cambiati: venne meno l’interesse per la politica e la socialità”. Il 29 giugno 1984 lo Zanzibar fu aperto per l’ultima grande festa. Ci fu il pienone. “La serata terminò con la canzone ‘No Woman No Cry’ di Bob Marley”.
Un documentario fatto di storia, di storie, dell’ironia di chi racconta, della felicità profonda e dell’amore, trapelate dalle immagini di repertorio, da parte di chi allo Zanzibar c’era e lo ha vissuto.

Lina Rignanese

mercoledì 12 maggio 2010

CORALINE E LA PORTA MAGICA

di Emiliano Sportelli



















A volte ti fermi ad interrogare te stesso sul motivo che ti porta ad allontanarti da qualcuno che ti vuole bene, magari lo fai senza pensare alle conseguenze e senza cercare di capire il perché. La voglia di trovare un respiro lontano da tutti cercando poi di essere compresi è la causa della tristezza del nostro essere. A mio modo di vedere Coraline è una bambina triste; il suo problema – come spesso capita ai più piccoli – deriva dai genitori stessi; in questo caso la mancanza di attenzioni (almeno a primo acchito) da parte dei genitori nei suoi confronti è la causa del suo “male” interiore. Ma Coraline è anche una bambina sveglia, intelligente e piena di passioni; queste qualità saranno il suo asso nella manica che utilizzerà proprio per salvare la mamma ed il papà mettendo a rischio la sua anima di fanciulla.

Realizzato con la tecnica dello stop-motion, Coraline e la porta magica è l’ottimo lavoro di quel Henry Selick che tanto ci ha fatto sognare, qualche anno fa, con il suo Tim Burton’s Nightmare Before Christmas.

Così come è stato Alice nel paese delle meraviglie, anche Coraline e la porta magica è un film intriso di metafore. Il passaggio che Coraline riesce a scovare altro non è che una via di fuga lontano da un mondo buio ed insensibile che, per lungo tempo, l’ha vista come prigioniera. Il “mondo alternativo” che scoprirà sarà – almeno in apparenza – il suo universo ideale, uno spazio colorato e felice dove poter far volare la sua mente di bambina, in pratica il mondo da lei sempre sognato.
Altra figura da tener presente nel cartoon è la mamma: si configura infatti come l’antagonista di Coraline; “mascherata” infatti da mamma premurosa e gentile, risulterà essere una creatura perfida e meschina che, una volta rapiti i veri genitori di Coraline, cercherà in tutti i modi di ingannare la bambina con subdoli giochi che, alla fine, risulteranno essere un’arma a doppio taglio. Una volta liberati i genitori, la piccola Coraline riuscirà a capire chi davvero le voleva bene.

Un film animato di grande impatto visivo ed emotivo, un ritratto perfettamente riuscito sul mondo dei più piccoli e sulle loro paure che spesso fanno tremare anche i più grandi. L’arma in più utilizzata da Coraline, che la porterà a vincere la sua gara, sarà la sua voglia di riuscita, voglia che, a volte, ci abbandona una volta cresciuti.

martedì 11 maggio 2010

Al Tekfestival due sguardi su New York










(Jem Cohen)

Tekfestival (ai confini del mondo… dentro l’occidente)
Festival di Cinema Indipendente – IX Edizione 2010

“Long for the city”
di Jem Cohen, 2008, USA, 9’, Super8

“Cellar”
di Steve Staso, 2009, USA, 84’, 16mm

lunedì 10 maggio sala1
Sezione Eventi Speciali

Penultima giornata al Tekfestival presso il Nuovo Cinema Aquila. Di scena nella sezione “Eventi Speciali” è New York. Due sguardi diversi la penetrano fino a coglierne gli aspetti più poetici e quelli più degradati. Si inizia con un cortometraggio “Long for the city” (2008), ballata in Super8 di Jem Cohen che ritrae Patti Smith nella città in cui vive. La videocamera accompagna la cantante-poetessa in una passeggiata nel suo quartiere mentre descrive alla sua maniera le cose che vede. Le immagini sono state girate sul momento, alle quali si aggiunge il materiale che il regista ha accumulato negli anni. I due avevano già collaborato per il corto musicale “Spirit” realizzato nel 2007. “Long for the city” è stato mostrato per la prima volta come installazione nello spettacolo di Patti Smith “Land 250” alla Fondazione Cartier a Parigi.


(Steve Staso)

Altro sguardo su New York è quello di Steve Staso, regista che proviene dal mondo delle arti visive, già autore di lungometraggi, come “Ice Ammo Beer” (1994), e “Situation Room #2” (2004), primo capitolo di una trilogia cui fa seguito “Celluloid #1”, presentato al Tekfestival del 2008. Qui, grazie all’incontro con il regista libanese Wael Noureddine, nasce l’idea del terzo film della trilogia, “Cellar” (2009). Il film prende corpo nel quartiere di Hell’s Kitchen e lungo la 9° Avenue, dove lavorano e vivono i tre immigrati protagonisti: Wael, libanese fuggito dai bombardamenti israeliani, Luz, colombiana, fuggita da una realtà violenta e Syl di Harlem, reduce di guerra.
La scelta del cast, rivela il regista, incontrato alla fine della proiezione, è avvenuta al di fuori dell’ambiente attoriale professionista, eccetto che per Luz, una splendida e profonda Daisy Payero, artista a tutto tondo e attrice teatrale. Courtney Webster (Syl) è una film-maker. Wael Noureddine (Wael) è scrittore, poeta e regista libanese. Inoltre, ha precisato, che le location e la sceneggiatura, sono state minuziosamente curate e riprodotte sul set, dopo esser state da lui disegnate in storyboard.
Il passato dei tre protagonisti (mogli, ex mariti, figlie, amanti morte nel Camp Marlboro di Sadr City) incombe e grava sulle loro vite presenti, già asfissiate dalla crudeltà e dal cinismo di chi li circonda, dalla durezza di un’esistenza fatta solo di lavoro manuale, sempre uguale e mal retribuito. L’invisibilità sociale sembra essere una condanna. Alle cicatrici fisiche si aggiungono quelle psichiche. Ma alla fine alle singole individualità, devastate dall’incapacità di affrontare da sole questa sofferta realtà, verrà in aiuto il senso dell’amicizia e della nuova comunità cui a poco a poco iniziano ad appartenere, quella degli immigrati.
Un film toccante, intenso, a tratti commovente. Al regista va il merito della giusta scelta dei personaggi e del linguaggio filmico utilizzato mai troppo finto, anzi, così sincero e sofferto da assumere il sapore del documentario. Una storia forte, che fa accuse sociali. Un finale che porta con sé il sorriso e un barlume di speranza.

Lina Rignanese

lunedì 10 maggio 2010

Tekfestival - "Once upon a time a proletarian"














Tekfestival (ai confini del mondo…dentro l’occidente)
Festival di Cinema Indipendente – IX Edizione 2010

“Once Upon a Time a Proletarian: 12 Tales of a Country”
di Xiaolu Guo, 2009, Cina-Germania-GB, 76’, doc
domenica ore 20.15 sala 2
sezioni Panorami

Dodici storie. Dodici ritagli di vite ci accompagnano nel viaggio nella nuova Cina. Quella nata dalle ceneri della “rivoluzione culturale” di Mao ed esplosa aprendosi al capitalismo occidentale e alla globalizzazione. “Once upon a time a proletarian: 12 tales of a country” è il documentario di Xiaolu Guo presentato nella sezione Panorami della IX edizione di Tekfestival (ai confini del mondo… dentro l’occidente) – festival di cinema indipendente, che si sta svolgendo al Nuovo Cinema Aquila (6-11 maggio).
Il doc è stato presentato in anteprima al Festival di Venezia nel 2009 ed è il terzo lavoro della regista e scrittrice cinese, già vincitrice del Pardo d’Oro a Locarno nel 2009 con il suo primo lungometraggio “She, a Chinese”. L’autrice dà voce a dodici realtà umane con sensibilità, sincerità e una buona dose di umorismo. A fare da cornice, tra una storia e l’altra, delle riprese in bianco e nero a dei bambini che leggono brani, storielle, filastrocche cinesi, con una serenità e una genuinità completamente spontanee. I protagonisti delle storie sono un vecchio contadino che ha perso i suoi campi di granturco, non gli rimane altro che la casetta, poco più di una stanza, i suoi due asini, una piccola terra e la bicicletta. Rassegnato, nostalgico di Mao, ma senza perdere il sorriso, si confessa davanti alla videocamera: “Vivere come me è inutile. (…)Il problema viene dal governo, i comunisti oggi sono completamente corrotti”.


Anche la proprietaria di un ristorante a Lei Feng Town ci pone davanti il problema della corruzione: “Qui senza mazzette non puoi far niente”. Un ragazzo che è arrivato a Pechino per fare il lavamacchine fa commuovere per la sua bontà e saggezza: “Per me solo chi ha cuore è un uomo. Se hai soldi e non hai un cuore, che vivi a fare”. E ancora un avido produttore di armi che non si fa scrupoli nel far trapelare che per gli interessi, “per vendere armi ci vogliono le guerre”, così il governo cinese, nonostante i divieti imposti dagli USA, vende in segreto e clandestinamente le proprie armi ad Iran ed Iraq. Dei ragazzi che fanno i pescivendoli e vorrebbero fare altro. Un azionista miliardario, così come un’albergatrice di successo, si professano orgogliosi del proprio Paese. La rabbia di alcune ragazze che lavorano in un hotel a quattro stelle molto costoso, ma che per loro c’è solo uno stipendio da fame e un duro lavoro di 10-12 ore al giorno. Un gruppo di bambini dell’Accademia d’Arte che sognano di diventare dei grandi artisti, come Van Gogh, Picasso o Leonardo da Vinci.
Quello che emerge è uno spaccato di società fatto di gente poverissima, costretta a lavorare duramente, senza riuscire a vivere e fare altro. Una società in cui, invece, una minoranza, ha tanto, troppo, e noncurante di nulla, se non dei propri affari. Emozionanti e forti le parole di un addetto delle pulizie di un albergo: “Ho una forte personalità, vorrei poter vivere una vita che non è solo lavoro, perché la vita è un lungo viaggio, c’è solo una piccola fermata”.

Lina Rignanese

PROVE DI SALVATAGGIO DEL MONDO


















Tekfestival (ai confini del mondo… dentro l’occidente)
Festival di Cinema Indipendente - IX Edizione 2010


“The Yes Men Fix the World” (2009, USA, 80’, docufiction)
di Andy Bichlbaum, Mike Bonanno e Kurt Engfehr
domenica 9 maggio h16.30 sala 3
sezione Panorami

Gli “Yes Men” sono due attivisti politici che hanno sfidato “la setta del libero mercato” dall’interno fingendosi membri delle corporazioni. Andy Bichlbaum e Mike Bonanno, come don Chisciotte e Sancho Panza, hanno scritto il secondo capitolo del loro straordinario e geniale modus operandi. “The Yes Men Fix the World” (2009) – che segue il precedente “The Yes Men” (2004) – è stato presentato nella sezione Eventi Speciali della IX edizione del Tekfestival (ai confine del mondo… dentro l’Occidente), festival di cinema indipendente, in corso al Nuovo Cinema Aquila (6-11 maggio) e poi Genzano (12 maggio) e Frascati (13 maggio).
“In questo film noi due salviamo il mondo”, ecco la presentazione di Andy e Mike mentre effettuano un surrealistico balletto tra acque che sfumano nel verde e nell’azzurro. Non mancano affatto spunti poetici nel video, ma tutto il resto è realtà e grigi ambienti di alta finanza.
In maniera divertita i due attivisti hanno provato a fare quello che le multinazionali dovrebbero. Così, creando un paio di siti e fingendosi responsabili della Dow Carbide, dichiarano al mondo intero tramite la BBC che la Dow (che aveva acquistato la Union Carbide responsabile del disastro industriale di Bhopal nel 1984) si sarebbe finalmente fatta carico delle responsabilità del disastro ed avrebbe destinato 12 miliardi di dollari per ricostruire Bhopal e risarcire le vittime. Pronta, ovviamente, la smentita da parte dalla corporazione, ma Andy, intervistato (sempre dalla BBC) ha dichiarato: “La Dow ha speso miliardi di dollari in pubblicità per pulirsi l’immagine, invece di ripulire (bonificare, ndr) le falde acquifere tuttora contaminate”. Milioni di telespettatori in tutto il mondo hanno ascoltato queste parole. Un colpaccio per gli altermondisti!


Altra eclatante azione di Andy e Mike ha evidenziato che “l’avidità mascherata da progresso ha distrutto New Orleans”. Complici dell’uragano Katrina sono stati Exxon e Shell, con la selvaggia distruzione del territorio circostante. E c’è dell’altro: la ricostruzione della città. Il governo e il Dipartimento dell’Urbanistica aprendo le porte ai privati, hanno provocato la vendita e la demolizione delle case popolari con la conseguenza di centinaia di persone rimaste senza casa e la costruzione in loco di residence borghesi ad alto costo abitativo.
Altre trovate sono state la presentazione in una conferenza su come affrontare i disastri naturali della “Palla della sopravvivenza” sponsorizzata da Halliburton (la multinazionale in cui ha lavorato Dick Cheney, ex vicepresidente USA, implicata nelle attività illegali durante la guerra in Iraq). Risultato: la ridicolizzazione della multinazionale. E per finire, la pubblicazione di migliaia di copie di un numero fasullo del “The New York Times” che annunciava la fine della guerra in Iraq e tante altre “good news”. “Un giornale dei sogni”, l’ha definito uno dei fortunati ad averne ricevuto una copia; amaramente ha, invece, commentato qualcun altro: “sono tutte cose fattibili, nulla è impossibile, manca solo la volontà dall’alto”.
Già, manca la volontà dall’alto, così gli Yes Men hanno provato a mettersi nei panni di chi si trova al vertice sociale dimostrando che il cambiamento è possibile, ma non voluto. In questo sistema perverso, le regole del libero mercato e del profitto valgono più di ogni uomo sulla terra. Per questo, occorre cambiare le regole e farsi artefici del cambiamento, e perché no, anche in maniera bizzarra e divertente.



Lina Rignanese

domenica 9 maggio 2010

“ART IS FOR EVERYONE!”















“L’arte è per tutti!”, questa la poetica di Keith Haring, pittore e writer tra i più importanti del XX secolo. La sua grandezza sta nell’aver saputo reinventare il linguaggio artistico attraverso una personalissima stilizzazione dei soggetti e una semiologica propensione alla ripetizione dei segni, e al tempo stesso nell’aver aperto alla strada e alla gente comune i sofisticati ambienti dell’arte.


La vita di questo grande artista viene raccontata nel documentario “The Universe of Keith Haring” di Christina Clausen, prodotto da Overcom. Il doc, presentato nel 2007 al Festival Internazionale del Cinema di Roma nella sezione Extra, è uscito in dvd per Feltrinelli lo scorso 5 maggio.
La regista mette insieme materiali video provenienti dagli archivi della Keith Haring Foundation di New York, creata dallo stesso Haring poco prima di morire di AIDS, nel febbraio del 1990, oltre agli estratti dalle interviste all’artista realizzate dal suo biografo John Gruen che scrisse il “Keith Haring: the Authorized Biography”. Il documentario dà voce alla vita di Haring, dall’infanzia in Pennsylvania attraverso le testimonianze della famiglia, alla svolta artistica nei rivoluzionari ambienti dell’East Village e della School of Visual Arts of New York, ascoltando i ricordi dei numerosi amici: Tony Shafrazi, Carlo Mc Cormick, Kenny Schart, David La Chapelle, Yoko Ono. In ottanta minuti l’autrice riesce a penetrare nell’umanità e nell’arte di Haring e al tempo stesso a descrivere un ambiente vivo e ricco di novità, come quello newyorkese degli anni ’80 animato dalle avanguardie artistiche, dalle sperimentazioni musicali, dalle rivoluzioni poetiche, dalla liberalizzazione del sesso e dell’omosessualità, e devastato dalla piaga dell’AIDS.


Un lavoro questo che ripercorre le tele e i murales di Keith senza essere didascalico o noioso, ma accompagnando il processo creativo dell’artista che vedeva la bellezza provenire dall’estasi. Ed è proprio un senso di estasi che si avverte, vertiginoso, guardando le sue sagome, consapevoli che dietro quel marchio, c’è tutta una visione del mondo articolata, divertita, vissuta ed anche sofferta.



THE UNIVERSE OF KEITH HARING

Regia: Christina Clausen
Sceneggiatura: Christina Clausen, Gianni Mercurio
Montaggio: Silvia Giulietti
Musica: Angelo Talocci
Produzione: OVERCOM, Absolute Film, French Connection, in cooperazione con “The Estate of Keith Haring” (New York)
Paese: Italia/Francia
Anno: 2007
Durata: 82'

Lina Rignanese

giovedì 6 maggio 2010

E' il corpo delle donne la merce più redditizia del libero mercato















di Nawal El Saadawi

Si possono separare politica e religione? Si possono separare politica ed economia, sessualità, patriarcato, schiavitù, donne, genere, storia o altro? La politica ha a che fare con le relazioni di potere in ogni aspetto della nostra vita, pubblica o privata che sia. Tutto è politica, anche i rapporti sessuali consumati nelle camere da letto: se ci sono due persone in una camera, questa è una relazione di potere. I libri sacri parlano di guerra, di relazioni di genere, di denaro, di classi sociali, di razze e di tutte le altre cose che fanno parte della nostra vita materiale e morale. La politica è un gioco basato sull’inganno. In quanto ideologia politica, anche la religione è un gioco.
In ogni religione le donne sono oppresse – da sempre Dio appartiene al genere maschile. Come ogni altra ideologia politica, il femminismo è un gioco. Qualche anno fa, mi è venuta a trovare al Cairo una femminista inglese. Stava scrivendo un libro sul femminismo musulmano in Medio Oriente. Le ho detto che non sono una femminista musulmana e che vivo in Egitto, in Nord Africa, e non in Medio Oriente.
Le ho chiesto:
– Tu dove vivi? – Vivo a Londra – ha risposto – e l’Inghilterra è il mio paese. – Dunque – le ho detto – tu vieni dal Medio Occidente. Lei ha riso, era buffo cancellare il nome Inghilterra e rimpiazzarlo con Medio Occidente, ma cancellare Egitto e sostituirlo con Medio Oriente non era affatto uno scherzo, era un fatto grave. A quel punto mi ha chiesto: – Se non sei una femminista musulmana, come ti definisci? – Per favore, prima descrivimi te stessa. – Sono una femminista cristiana. ­– Credi nella Bibbia?, le ho domandato. – Ho un’interpretazione personale della Bibbia: Eva non era una peccatrice e Cristo era una donna nera lesbica. – E allora perché ti definisci cristiana?

Lei mi ha risposto che era soltanto una questione di cultura, cioè la sua identità culturale, la sua identità di origine. Molti anni dopo, ero nella mia palestra al Cairo quando una donna velata mi ha fermato. Non l’avevo riconosciuta, ma era la femminista cristiana convertita all’islam dopo aver sposato un medico egiziano. – Ho scelto l’islam e il velo di mia spontanea volontà, sono una musulmana femminista e il velo è parte della mia identità islamica, mi ha detto. Non hai letto il mio nuovo libro sulle femministe musulmane in cui…? – No, ho risposto. – Ti avevo mandato una copia, il libro è stato incluso tra i best sellers del New York Times, è stato recensito da…, discusso in un programma della CNN e in uno della BBC e… Io credo nella libera scelta, nella diversità, nel pluralismo e nel multiculturalismo…

Lo stesso giorno, sempre in palestra, ho incontrato una giovane donna egiziana, portava un trucco pesante, postmoderno, ciglia finte, mascara, look seducente e tutto il resto… Aveva la testa coperta da un velo di seta, la parte alta della sua pancia era scoperta sopra gli stretti jeans americani. Lei è un altro tipo di donna musulmana: obbedisce al suo dio indossando il velo e compra al Mercato Libero quello che vuole. Libera Scelta. Il velo vende bene… I libri sull’islam scritti da alcune femministe musulmane sono diventati un prodotto redditizio nel mercato dell’editoria e dei grandi media.

Le copertine dei libri che mostrano donne velate attraggono i consumatori e portano più soldi. In questa giungla, io stessa sono stata usata dagli editori. Non ho mai voluto una donna velata sulle copertine dei miei libri, ma gli editori fanno quello che vogliono senza che tu lo sappia; non sono mai stata consultata sulla copertina di un mio libro prima che fosse pubblicato; gli editori hanno addirittura cambiato i titoli senza nemmeno consultarmi. Tagliavano delle parti o cambiavano l’ordine dei capitoli come volevano. Il Libero Mercato ha poteri visibili e invisibili, e questo può portarti a smettere di scrivere.

In arabo, il titolo originale del mio libro, che corrispondeva a “Il volto nascosto di Eva – Donne nel mondo arabo” è diventato, nella traduzione inglese, The hidden Face of Eve (“Il volto nascosto di Eva”). Gli editori lo hanno cambiato a mia insaputa. In Germania, l’editore del mio romanzo, che nell’originale era intitolato “Donne al punto zero”, lo ha cambiato con uno molto brutto dal punto di vista estetico: “Sputo su di te”. Vi pare questo il titolo da mettere a un libro? Ho chiesto spiegazioni all’editore e quello mi ha risposto che in Germania è un buon titolo, si vende bene; in Germania, la cultura ama i titoli aggressivi, e il libero mercato la violenza. L’editore americano del “Volto nascosto di Eva” ha tagliato la mia introduzione senza consultarmi. Quando gli ho chiesto perché, lui mi ha risposto che quello che avevo scritto era polemico.

Cioè era politico, e gli editori non vogliono assumersi rischi o perdere soldi. Gli scrittori dissidenti che si occupano di campi diversi e provengono da paesi diversi non possono entrare a far parte del main stream, non vengono mai pubblicati dalle grandi case editrici e sono sempre ignorati dai grandi media, sono tagliati fuori dal Libero Mercato. Non possono ricevere prestigiosi premi nazionali o internazionali, nessuna recensione importante, niente soldi né fama. Questa è solo una parte del prezzo che devono pagare per far sentire la loro voce. Quando capita di ascoltare qualche femminista global, ci si accorge di come sfruttano l’islam sul mercato, di come giudicano l’islam, come se fosse l’unica religione razzista, terrorista, sessista, antidemocratica e antimoderna. Come se il delitto d’onore o l’assassinio degli infedeli avesse origine nell’islam.

Non paragonano mai l’islam all’ebraismo o al cristianesimo; non collegano mai le questioni femminili alle politiche o alle economie globali. Se avessi collegato i problemi delle donne ai problemi nazionali o globali, o paragonato l’islam a un’altra religione, le mie parole sarebbero state censurate o tagliate dai grandi media molte volte. Anche nelle conferenze femministe internazionali incontro opposizione e ostilità da parte di alcune donne che si definiscono femministe ebree o cristiane. Mi ricordo di alcune che gridavano mentre stavo tenendo una conferenza a Montreal: molte di loro si alzarono e lasciarono la sala quando dissi che l’uso di coprire le donne con il velo è iniziato prima nell’ebraismo che nell’islam.

I leader del fanatismo religioso sono diventati delle star nei media globali e locali che appartengono alle multinazionali e ai governi che lavorano con la dimensione glocale. Se seguiamo la televisione, la radio o leggiamo le maggiori testate giornalistiche, come il New York Times negli Stati Uniti o Al Ahram in Egitto, è facile scoprire quante idee religiose fanatiche e retrograde vengono diffuse. Ogni settimana, sul quotidiano egiziano Al Ahram, lo scrittore Zaghlool Al Naggar scrive almeno mezza pagina per convincere la gente che tutti i fatti scientifici della nostra era moderna e postmoderna sono menzionati da Dio nel Corano – dal protoplasma all’atomo, dall’energia nucleare all’informatica, fino alle passeggiate sulla Luna. D’altra parte, sul New York Times, Ock Soo Park, pastore coreano cristiano, scrive regolarmente quasi un’intera pagina.

Nel suo articolo pubblicato sul New York Times (10 settembre 2007, pagina A27), il pastore racconta una lunga storia per persuadere i lettori che sia stata la sua preghiera a Dio (e non la scienza o i profondi scavi nel terreno) a portare l’acqua nei suoi luoghi di ritiro (sul monte Daeduk, nella Corea del Sud). Sul New York Times del 14 novembre 2007, c’è una grande immagine commentata con queste parole: «Molte centinaia di persone si sono raccolte in preghiera ieri ad Atlanta, in Georgia, fuori dal Campidoglio, per invocare la pioggia. Tra i partecipanti era presente anche il pastore Marion Croom della città di East Point, Georgia». Tutto questo mi ha ricordato i poveri contadini egiziani di due secoli fa che pregavano Dio nello stesso modo per avere la pioggia per irrigare i campi. I colonizzatori europei ridevano sarcastici di fronte a questo, ma oggi non ridono di fronte a quei pastori che pregano per la pioggia e per l’acqua.

Al contrario, pubblicano i loro articoli sui giornali e incoraggiano la loro glocalizzazione. Il fondamentalismo religioso e il neocolonialismo sono due facce della stessa medaglia e sono universali in tutte le religioni, non solo nell’islam. L’inganno del relativismo culturale La violenta opposizione contro i diritti delle donne e dei poveri è universale, e non un fenomeno particolare della regione araba o dei paesi islamici. La “Christian Coalition”1 non è soltanto contro i diritti delle donne, ma attribuisce ai movimenti di liberazione delle donne la colpa per la crisi della famiglia. Essa sostiene i cosiddetti “valori della famiglia” e la “verginità” delle ragazze prima del matrimonio.

Promuove anche i balli della purezza, in cui prevale una doppia moralità: i padri portano le loro figlie a questi Purity Balls per proteggere la loro verginità e per conservarle per il matrimonio, ma non contempla eventi che coinvolgano madri e figli maschi. I delitti d’onore sono connessi al “valore” della verginità e non riguardano soltanto la cultura araba o islamica. Il concetto di verginità è insito nell’ebraismo e nel cristianesimo. Per esempio, la Vergine Maria è la madre ideale, e le suore portano il velo. La pratica di coprire le donne con il velo in Europa era limitata tradizionalmente alle comunità ebraiche e a quelle islamiche. Oggi, è sempre più comune tra i migranti islamici che vivono in Olanda, in Francia, in Inghilterra, in Belgio e in altri paesi. In alcuni casi, la pratica di coprire le donne con il velo è accompagnata dalle mutilazioni dei genitali.

Entrambe queste pratiche sono considerate dai leader religiosi e politici di queste comunità come una parte dell’identità islamica, legittimata sotto le spoglie del cosiddetto “relativismo culturale”. Tutto questo fa parte dell’inganno e del lavaggio del cervello fatto alle donne in Egitto e in molti altri paesi. L’inganno del relativismo culturale è andato avanti per tre decenni come forma di violenza esercitata sulla mente. La “mutilazione” della mente non è meno criminale di quella genitale femminile o maschile che sia, anzi è ancora più pericolosa. È usata per mutilare il corpo e l’anima, per giustificare la violenza contro le donne e contro i poveri. C’è anche chi pensa ancora che i diritti delle donne siano un attacco diretto alla legge di Dio, ai valori morali e alle sacre scritture.

Gli scrittori dissidenti – uomini e donne – stanno combattendo contro la mutilazione della mente senza riguardo per le differenze religiose o culturali o per la sedicente Identità Autentica. Ma sono pochi, e sono torturati, imprigionati, esiliati o, nel migliore dei casi, ignorati. Le persone non comprendono il mondo capitalistico-patriarcale in cui tutti noi viviamo; sono ingannate dalla parola Democrazia; sono pronte a uccidersi in difesa di questa parola che le uccide o che, nel migliore dei casi, le spoglia dei diritti umani brandendo lo slogan della protezione di quegli stessi diritti. Noi viviamo in un unico mondo, non in tre, dominato da un solo sistema, il sistema del capitalismo patriarcale militare violento. Ogni super potenza a questo mondo può uccidere e spogliare la gente delle sue risorse naturali accampando scuse diverse: dalla “protezione” nelle prime guerre coloniali, alla democrazia e alla liberazione delle donne nel nostro XXI secolo postmoderno.

Il cosiddetto Libero Mercato non è altro che la libertà dei potenti di sfruttare i più deboli; il Libero Mercato non ha religione, non ha Dio se non il profitto, aumentandolo con ogni mezzo, inclusa la guerra militare e la guerra contro la mente condotta dai media, dai sistemi scolastici, dalla cultura e dalla religione. Sono questi gli strumenti e i servitori obbedienti del sistema capitalistico-patriarcale e del suo Libero Mercato. La principale fonte di profitto del Libero Mercato proviene dalla vendita delle armi: armi che uccidono individui o sterminano intere nazioni, armi di distruzione di massa, armi nucleari, armi chimiche e altri strumenti di morte postmoderni. Il maggiore profitto del Libero Mercato viene dal corpo delle donne; coperto o scoperto, nudo o velato aumenta il profitto: cosmetici e make up, pubblicità e commercio intorno al corpo delle donne servono solo a soddisfare i bisogni sessuali dei patriarchi.

L’occhio, lo sguardo del Libero Mercato è principalmente sulle donne, come anche lo sguardo dei fondamentalisti religiosi maschi. Se non ci fossero più guerre né donne, crollerebbero entrambi: il Dio del libero mercato e il Dio dei gruppi religiosi fondamentalisti. Sono infatti gemelli, due facce della stessa medaglia, sono l’uno al servizio dell’altro, a dispetto delle false differenze o dei conflitti temporanei che scoppiano quando i loro interessi economici collidono. Per mantenere vivo e vegeto il Libero Mercato, le guerre militari devono essere fatte comunque, meglio se in nome di qualcosa. E il nome di Dio è in assoluto il migliore da usare – o il suo Verbo. Nel nome della Sua Terra Promessa del Vecchio Testamento, quanti milioni di persone sono state uccise in Palestina fino a oggi? Il Libero Mercato produce armi di distruzione di massa per sradicare armi di distruzione di massa. Questo non è un scherzo. È la realtà del Libero Mercato.

La guerra principale, quella in Iraq, è esplosa in questo XXI secolo uccidendo migliaia di persone ogni anno fino ad oggi sotto il segno di una grande menzogna: armi di distruzione di massa in Iraq. Nemmeno una parola sul Petrolio in Iraq... La guerra in Afghanistan negli anni Ottanta del secolo scorso è esplosa sotto il segno di un’altra grande menzogna: combattere gli infedeli, i non credenti, i comunisti dell’Unione Sovietica – una guerra tra dio e il demonio per amore del libero mercato. Ho conosciuto alcuni giovani egiziani che combattevano in Afghanistan e durante le vacanze andavano a trovare le loro famiglie al Cairo. Molti di loro erano laureati, senza lavoro, senza speranza tranne quella di morire in una guerra santa e andare in paradiso come martiri. Le autorità egiziane, alleate con quelle americane, incoraggiavano questi giovani disoccupati a uccidere gli infedeli. Sono stati reclutati migliaia di giovani.

Improvvisamente, le strade del Cairo si sono riempite di giovanotti che avevano un’aria molto mascolina e un aspetto ferocemente militare, nonché una fitta barba nera che gli copriva la faccia. A ruota hanno fatto la loro comparsa per le strade le donne velate, sole o accompagnate da questi barbuti. Non solo: la sede dell’ordine dei medici di via Kasr El Ainy al Cairo è stato invasa da giovani dottori che indossavano la galabeya, con la barba, il rosario in una mano e il Corano nell’altra. Mi ricordo che un giorno, mi fu impedito di entrare nella sala principale dell’ordine. Avrei dovuto partecipare a un convegno, essendo io un medico, ma i barbuti alla porta mi ordinarono di andare sul ballatoio con le altre donne che dovevano sedere lontano dagli uomini. Dopo un’ accesa discussione, mi sono fatta strada tra i barbuti nella sala principale.

Mi sono alzata in piedi e ho dichiarato il mio dissenso per essere stata privata della mia professione di medico ed essere stata considerata come una femmina che deve coprire il suo volto scandaloso, mi sono opposta al trasferimento dell’ordine dei medici dentro un’associazione islamica e ho protestato perché invece di parlare di problemi medici si discuteva di mandare nuove reclute a combattere una guerra di religione in Afghanistan o in Bosnia o chissà dove. Vedevo le dottoresse velate recluse lassù, qualcuna di loro aveva tutto il volto coperto tranne gli occhi, o uno solo di essi. L’islam è stato usato per combattere il comunismo e, ora, dopo il crollo del comunismo, l’islam è diventato il nuovo nemico. Il sistema capitalistico-patriarcale non può vivere senza un nemico, come dio non può vivere senza satana o il diavolo.

Traduzione di Nicoletta Di Placido © per l’edizione italiana, Lettera Internazionale 2010 1) “Christian Coalition” è un movimento politico fondato nel 1989 dal Pastore Pat Robertson per dare una svolta cristiana alla politica negli Stati Uniti d’America.



http://www.unita.it/news/culture/98293/il_corpo_delle_donne_la_merce_pi_redditizia_del_libero_mercato

martedì 4 maggio 2010

“DRAQUILA – L’ITALIA CHE TREMA”


















Una Sabina Guzzanti in veste di reporter quella di “Draquila – L’Italia che trema”. Film documentario sui fatti legati al terremoto del 6 aprile 2009 e sugli sciacallaggi che si sono susseguiti nella gestione dell’emergenza. Il titolo è indicativo della verve creativa dell’autrice e del registro linguistico usato: da una parte l’ironia, dall’altra la drammaticità dei fatti.
In uscita nelle sale italiane il 7 maggio, verrà presentato il 13 al Festival del Cinema di Cannes tra le proiezioni speciali.
Il doc verte sulla figura del Premier Silvio Berlusconi, in calo di consensi proprio in quel periodo, e su come la catastrofe sia stata per lui una manna dal cielo. L’altro punto focale si concentra sulla Protezione Civile di Guido Bertolaso, definito “braccio armato economico” di questo governo. Organizzazione che ha messo in secondo piano la sua stessa natura di prevenzione, previsione e protezione, diventando un apparato “para-militare” e “para-imprenditoriale”. In tanti, tra gli intervistati, hanno denunciato i modi militareschi e l’insensatezza di alcuni ordini imposti nelle tendopoli come, ad esempio, la difficoltà di entrare ed uscire dai campi o il divieto di fare assemblee, di distribuire caffè, tè o Coca-Cola perché eccitanti. Tanti, inoltre, gli appalti e i soldi elargiti a privati (con fondi della Protezione Civile quindi pubblici), per la costruzione delle New Town oltre che per eventi pianificati e non affatto d’emergenza, come i mondiali di nuoto o alcune visite pastorali di Benedetto XVI in varie città d’Italia. Molte, anche, le voci ingenue che hanno creduto al “miracolo” del premier, e che affermano “meglio di così non si poteva fare”.


La Guzzanti non risparmia nulla a Berlusconi, facendo un sunto del suo potere: leggi ad personam, escort e veline usate poi candidate, le origini incerte del suo patrimonio (parlano a riguardo il giudice Antonio Ingroia e Massimo Ciancimino), eloquenti anche le gaffe di Marcello Dell’Utri che si lascia sfuggire un “sono mafioso” e quella del cavaliere che afferma di aver speso “200 milioni di euro per consulenti, giudici e avvocati”.
Non ne esce bene neppure il PD, simbolica della desolazione e della distanza dagli italiani l’immagine della tenda di partito perennemente vuota, isolata e tormentata dal vento e dalla neve.
Nulla di nuovo per chi non si ferma all’informazione televisiva o a quella di alcuni quotidiani, ma la messa insieme di tutti i fatti, crea una vera bomba emotiva e trasmette rabbia, specie quando si sentono i due imprenditori intercettati quella fatidica notte che ridevano della catastrofe oppure le telefonate di soccorso fatte dagli aquilani ai numeri d’emergenza. Molte saranno rimaste inascoltate per mancanza di personale e perché sostanzialmente si era impreparati e senza un piano di sicurezza, nonostante alcuni esperti avessero consegnato alla Protezione Civile degli studi scientifici che attestavano la forte probabilità statistica di un imponente terremoto a seguito dello sciame sismico dei precedenti quattro mesi. “Dov’era la PCN?” – si sente nel video – “Ad organizzare il G8 a La maddalena!”.
E un velo di tristezza mista a rassegnazione trapela dagli ultimi minuti del doc. Un intervistato afferma: “Siamo in una dittatura della merda, e ciò che la fa andare avanti è l’illusione da parte degli italiani oppositori che ciò che è vuoto e fasullo non possa durare”. E invece…


REGIA: Sabina Guzzanti
SCENEGGIATURA: Sabina Guzzanti
FOTOGRAFIA: Mario Amura, Clarissa Cappellani
MONTAGGIO: Clelio Benevento
MUSICHE: Riccardo Giagni, Maurizio Rizzuto
PRODUZIONE: Secol Superbo e Sciocco Produzioni, Gruppo Ambra, ALBA Produzioni
DISTRIBUZIONE: BIM
PAESE: Italia 2010
GENERE: Documentario
DURATA: 93 Min
FORMATO: Colore

Lina Rignanese

domenica 2 maggio 2010

La città verrà distrutta all'alba

di Emiliano Sportelli


REGIA: Breck Eisner
PRODUZIONE: Imagenatione, Penn Station, Road Rebel
GENERE: Horror
ANNO: 2010

Sono affascinato dagli zombie e dal processo che porta alla trasformazione da umano a mostro. Fin dall’ormai lontano 1968, anno d’uscita de “La notte dei morti viventi” di George A. Romero, i film incentrati sugli zombie hanno sempre fatto genere a sé, da allora l’horror si è arricchito di un nuovo riflesso rappresentato appunto dallo “zombie-movie”. La classica trasformazione che “accompagna” l’essere vivente a divenire un non-morto, è stata rivista in vari modi e con i meccanismi più diversi: dal classico “risveglio” dopo la morte, fino al contagio tramite morso o per via di un virus. Negli ultimi anni pellicole come “28 giorni dopo” o “Io sono leggenda” puntavano proprio sul fattore del contagio per rilevare la nascita/ri-nascita di questi esseri.
In “La città verrà distrutta all’alba” è proprio il fattore del contagio a farla da padrone.

Il film, diretto dal giovane regista californiano Breck Eisner, racconta di una piccola cittadina di poco più di un migliaio di anime rimasta contagiata da una tossina che, a causa della caduta di un aereo, ha contaminato l’acqua della città. I primi effetti del contagio si presentano sottoforma di follia omicida insensata che, pian piano trasforma gli sfortunati infetti in una sorta di “moderni” zombie. Per evitare che il virus si diffonda in maniera irrecuperabile, l’esercito stesso interviene con il preciso ordine di distruggere la città evitando così una vera e propria apocalisse.

Remake dell’omonimo film degli anni Settanta di Romero, “La città verrà distrutta all’alba” presenta, come nei classici film del genere, una denuncia sociale che in questo caso è rappresentata proprio dalla voglia di potere dell’uomo. Il virus che ha contaminato l’acqua della cittadina era stato proprio creato dal governo americano come arma batteriologica, il contagio delle persone altro non è che una metafora della forza distruttiva innata nell’essere umano.
A mio avviso importante è soffermarsi anche sul modo in cui il regista ci presenta il primo sintomo della malattia: la pazzia. Spesso, infatti, si cade nella trappola di “vedere” il pazzo anche dove non c’è; il tentativo dei militari di mettere in quarantena la città avviene facendo superficiali ed insulse divisioni tra chi è davvero pazzo perché contagiato, e chi si comporta in modo strano solo perché sotto pressione a causa della situazione che sta vivendo; il buono dell’idea sta proprio nel sottolineare l’impossibilità di determinare chi sia in questo caso davvero il “malato”.

Breck Eisner ci porta così ad esplorare sotto una nuova luce la follia umana, cercando di farci comprendere un altro significato della parola pazzia, una malattia questa spesso figlia dell’odio dell’uomo nei confronti di sé stesso.